Giugno 2019: Red Hot Chili Peppers – BLOOD SUGAR SEX MAGIK (1991)

Blood sugar sex magik

Data di pubblicazione: 24 settembre 1991
Registrato a: The Mansion (Los Angeles)
Produttore: Rick Rubin
Formazione: Anthony Kiedis (voce, percussioni), John Frusciante (chitarre, percussioni, cori), Flea (basso, tromba, percusioni, tastiere, cori), Chad Smith (batteria, percussioni)

 

 

Tracklist

 

                        The power of equality
                        If you have to ask
                        Breaking the girl
                        Funky monks
                        Suck my kiss
                        I could have lied
                        Mellowship slinky in B major
                        The righteous & the wicked
                        Give it away
                        Blood sugar sex magik
                        Under the bridge
                        Naked in the rain
                        Apache Rose Peacock
                        The greeting song
                        My lovely man
                        Sir Psycho sexy
                        They’re red hot

 

Se i peperoncini sono per voi un sentimento, una sensazione o una forma di energia, avete indovinato. Ma se per voi sono semplici vegetali, anche quelli hanno così tante connotazioni
(Anthony Kiedis)

La storia dei Red Hot Chili Peppers per certi versi ha del leggendario e dell’incredibile. La prima cosa che uno pensa di loro è che sono passati alla storia per essere state una delle band la cui line-up ha avuto gli stravolgimenti più chiacchierati e più incredibili della storia del rock. Ad esempio la fuoriuscita di un suo chitarrista è stata oggetto di un famosissimo romanzetto adolescenziale, a tal punto da rappresentare un intera generazione. Forse solo i Rolling Stones possono vantare una formazione tanto variegata nel tempo, quanto chiacchierata per gli eventi che hanno portato alla sua continua mutazione.
Ma i Red Hot Chili Peppers non sono importanti solo per le loro questioni interne, ma hanno maturato una forte rilevanza nella storia del rock per la loro particolare attitudine nel miscelare con tanta disinvoltura una grande varietà di generi, toccando spesso estremi all’apparenza inconciliabili, ma per loro tutto era in qualche modo possibile. Sono riusciti ad imporsi all’attenzione mondiale, divenendo uno dei gruppi più venduti e popolari, mescolando rock, funk, rap, hard, heavy metal, punk rock, rock alternativo e cantautorato pop. Il tutto con una particolare energia esplosiva, impatto fisico devastante e irruenza sonora.
Nati nella Los Angeles degli inizi anni ’80 ad opera di tre ragazzi, provenienti dalla stessa scuola, Michael Balzary, detto Flea, Anthony Kiedis e Hillel Slovak, completando il gruppo con il batterista Jack Irons.  Scelsero come nome della band il chilomentrico e vagamente stonesiano Tony Flow & The Miracolously Majestic Masters of Mayhem, presto cambiato nell’attuale Red Hot Chili Peppers. Vivranno i primi passi della loro carriera cercando di mescolare diversi generi ma partendo da una forte matrice, incidendo una manciata di album interessanti e di notevole creatività, ma ancora in fase di una vera definizione.
Il 1988 sarà un anno particolarmente difficile per la band californiana: il 27 giugno verrà ritrovato in una stanza d’albergo di Los Angeles, il cadavere di Hillel Slovak, stroncato da un’overdose di eroina, proprio mentre erano in fase di lavorazione per Mother’s milk. E nel frattempo Jack Irons lasciò il gruppo per dedicarsi ai lavori con i Pearl Jam e gli Eleven. Alla bisogna furono ingaggiati alla batteria Darren Henley Peligro dei Dead Kennedys, presto allontanato per i suoi problemi con le droghe, e alle chitarre DeWayne McKnight, con un trascorso importantissimo in due grandi band quali Parliament e Funkadelic, decisi punti di riferimento dei Peppers in fase di ispirazione e creazione. Ma anche costui durerà poco, visto che si imporrà subito la scelta di un giovane e talentuoso chitarrista: John Frusciante. Mentre Chad Smith prenderà il posto di Peligro. Si delineerà così una nuova line-up della band, quella più importante (ma anche la più chiacchierata), che la porterà al salto di qualità definitivo.
Al termine di questo periodo di grande difficoltà arriverà appunto Mother’s milk, che si rivelerà un ottimo album: presentava una ventata di freschezza e creatività, spinto soprattutto da un singolo frizzante e fragoroso quale Knock me down, dedicata all’amico chitarrista scomparso. Ma Mother’s milk fu anche l’ultimo disco inciso per la Emi, e quindi in qualche modo chiudeva un periodo che potremmo definire di formazione e di crescita.
Per il nuovo album i Red Hot Chili Peppers si accasano alla Warner e chiamano il guru Rick Rubin in cabina di regia, importante produttore, già all’opera con i Beastie Boys, gli Slayer e Run DMC. Gli obiettivi che si ponevano quindi erano molto ambiziosi, e la band si era prefissata l’approccio di nuove tecniche e soprattutto l’esplorazione di nuovi territori sonori.
Nonostante l’indirizzo non proprio easy, l’album diventerà uno dei loro lavori più venduti. Oltre a contenere esplicite insinuazioni sessuali, riferimenti alla droga, con testi lussuriosi ed esuberanti, portava la band ad un coraggiosissimo (e fino ad allora mai così apertamente sperimentati assieme con tanta disinvoltura) incrocio di generi, diversi tra loro: punk e hardocore si incontravano con il rap, l’hip hop, e il folk e lo ska cercavano di amoreggiare con l’hard rock e con in funky, non disdegnando tecniche con le chitarre heavy.
Prova incontrovertibile di questo particolare incrocio viene dai singoli di maggiore successo, come Give it away, originata da una discussione tra Kiedis e Nina Hagen sul senso dell’altruismo e i beni materiali, o la bellissima e accattivante ballata di Under the bridge (verso fine decennio, purtroppo per lei, “omaggiata” da un’oscena cover delle All Saints), dove il cantante della band rifletteva sui sui trascorsi tossici. Autobiografica anche l’altra ballata I could have lied, dove Kiedis si rivolge a Sinead O’Connor, con cui ha avuto una breve relazione.
Suck my kiss o If you have to ask, Sir Psycho sex o la title-track grondano riferimenti sessuali espliciti, infarciti da arrangiamenti che spaziano tra generi e mostrano i muscoli di un’energia fragorosa e potente, valorizzando la creatività e l’intelligenza di un rock mutante, e che troverà alcuni epigoni nel corso del decennio (si pensino ai Korn o ai meno talentuosi Linkin Park). The  greeting song nacque da un’idea piuttosto banale che Rubin propose a Kiedis: ossia scrivere del suo rapporto con le macchine e le ragazze, ma ne venne fuori una gran bella canzone. Stesso tema che più o meno riaffiora anche in Breaking the girl, mentre l’iniziale The power of equality propone il tema delicatissimo del razzismo e del sessismo. Abbiamo spazio ancora per le sfiziose e classiche Funky monks, Naked in the rain, Mellowship slinky in B minor e Apache Rose Peacock, mentre chiude il lavoro la cover They’re red hot di Robert Johnson.
Nel suo insieme e nell’articolazione delle sue canzoni, Blood sugar sex magik si rivelò come la prova più matura dei Red Hot Chili Peppers, che non solo si proponevano come i portabandiera della musica alternativa americana che dall’underground saliva ai piani dei mainstream, ma sarà un manifesto generazionale, denso ed eclettico, che i Peppers non saranno più in grado di eguagliare con la stessa creatività e lo stesso smalto. La chitarra di Frusciante qui lascia spazi a trame differenti nel suo virtuosismo spontaneo, meno rumorosa e invasiva. La ritmica affidata al basso del vulcanico Flea e alla batteria fantasiosa di Chad disegna traiettorie energiche e incredibilmente personali, riconoscibili, eppure così originali.
Il resto della storia è fatto dagli abbandoni di Frusciante: quello “epico” del 1992, rielaborato nel generazionale “Jack Frusciante è uscito dal gruppo”, e quello del 2009, all’ingaggio di Dave Navarro dei Jane’s Addiction, al rientro a casa del figliol prodigo Frusciante e al successo planetario del passabile Californication e da un presente purtroppo non più così esplosivo e fisico come nel 1991, anno di grazia del nuovo rock, dentro al quale i Red Hot Chili Peppers non si accontentarono di viverlo da spettatori, ma da protagonisti di grandissimo rilievo!

 

“Gli amici più grandi lo sapevano già, e il nome della band correva di bocca in bocca, trasfigurando sensibilmente da un passaggio al successivo.
Non si capiva neppure se fossero italiani o di dove, questi favoleggiati Reduci Di Peppe.
Se davvero avevano regalato al mondo un album perfetto e non grunge dovevate assolutamente saperne di più.
Fu mandato Hoge in avanscoperta al Disco d’Oro. Voialtri che avevate partecipato alla colletta lo aspettavate in strada, e quando uscì stringeva in mano, sbigottito, la prima copia che aveste mai visto di Blood Sugar Sex Magik.
«Peperoncini rossi piccanti del Cile» fu la sua sentenza. «È una cazzo di band cilena».
«Lo dicevo che era un’inculata» protestò Narco. «Ma ormai è fatta».
Filaste in silenzio a casa di Rinaldi, verso lo stereo più vicino, convinti che i soldi erano andati, e adesso vi toccava farvi piacere i peperoncini cileni.
Avevate diciassette anni, e ancora non sapevate che gli album perfetti, dischi capaci di avvolgerti di luce, calore ed energia, ogni tanto escono sul serio”.

(Enrico Brizzi)

 

Giugno 2019: Red Hot Chili Peppers – BLOOD SUGAR SEX MAGIK (1991)ultima modifica: 2019-06-13T07:57:25+02:00da pierrovox

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