Giugno 2020: Elliott Smith – XO (1998)

XO

 

Data di pubblicazione: 25 agosto 1998
Registrato a: Los Angeles, Portland
Produttore: Elliott Smith, Rob Schnapf & Tom Rothrock
Formazione: Elliott Smith (voce, chitarra, piano, basso, batteria, organo, mandolino, percussioni), Rob Schnapf (chitarra), Paul Pulvirenti (batteria), Tom Rothrock (batteria, programmazioni), Joey Waronker (batteria), Jon Brion (vibrafono), Bruce Eskovitz (sassofono, flauto), R. James Atkinson (french horn), Roy Poper (tromba), Shelly Berg, Tom Halm (orchestrazioni), Farhad Berhoozi, Henry Ferber, Jerrod Goodman, Pamela DeAlmeida, Peter Hatch, Raymond Tischer, Russell Cantor, Waldermar DeAlmeida (archi)

 

Tracklist

 

                        Sweet Adeline
                        Tomorrow tomorrow
                        Waltz #2 (XO)
                        Baby Britain
                        Pitseleh
                        Indipendence day
                        Bled white
                        Waltz #1
                        Amity
                        Oh well, okay
                        Bottle up and explode!
                        A question mark
                        Everybody cares, everybody understands
                        I didn’t understand

 

 

Le mie canzoni parlano di come mi sento io
e di come si sentono le persone che conosco
(Elliott Smith)

 

Storie di vita vissuta, e di sentimenti profondissimi, sono lo scenario ideale che emerge dalla musica dolcissima di Elliott Smith, uno dei musicisti, autori e interpreti più raffinati e dolenti che abbiano calcato la scena folk-pop americana degli anni ’90. Dotato di una particolare propensione alla scrittura, e di una voce bellissima, che si delineava attraverso le delicate melodie soffici e struggenti delle sue canzoni, Elliott Smith ha rappresentato anche l’aspetto più malinconico della musica americana, come una sorta di Nick Drake d’oltre oceano e dei tempi più recenti.
La sua formazione musicale avviene principalmente in famiglia, grazie soprattutto ad un nonno appassionato di jazz tanto da cimentarsi alla batteria, e ad una nonna che si dilettava di blues, esibendosi di tanto in tanto nei locali della zona. Sono queste due figure magnetiche ed appassionate a suscitare la passione musicale al piccolo Steven Paul (il vero nome di Elliott Smith). E poi con la crescita gli ascolti di Simon & Garfunkel, di Hank Williams, e soprattutto dei Beatles, lo porteranno a voler imparare a suonare pianoforte e chitarra, e a scrivere qualcosa di suo.
Ma la situazione pesante che vive in famiglia (i genitori hanno divorziato quando lui era ancora molto piccolo) durante gli anni dell’adolescenza, e le continue violenze che subisce dal suo patrigno lo portano a cambiare aria, trasferendosi nell’Oregon da suo padre. Qui ha la possibilità di fare alcune amicizie e soprattutto di mettere su dei piccoli gruppi in cui suonare. Esperienze che lo avvicineranno ancora di più alla musica, e che lo porteranno alla fondazione di una band vera e propria, gli Heatmiser, in cui si miscelava con disinvoltura punk e grunge. E ascoltando alcune di quelle cose della vecchia band, ci si sorprende nel considerare quale grande cambiamento opererà Elliott Smith nell’approccio da solista alla sua musica. In particolare l’esordio Roman candle, pubblicato nel 1994, quando era ancora attiva la band. Colpiva il suono prettamente acustico e una cura del canto delineata sulla dolcezza e la malinconia. Si avverte che il rumore del grunge non fa per lui, e che la dimensione ideale che Elliott Smith ricerca è quella della solitudine e del silenzio, dei sussurri e non delle urla, delle delicatezze e non delle distorsioni. Ed è da qui che c’è un crescendo continuo attraverso una dimensione più intima, ma non per questa scevra da storie di dolore, come il racconto della sua tossicodipendenza e della sua depressione.
Temi portanti nel secondo omonimo album e in Either/Or. Quest’ultimo poi vanta una maturità sia estetica che compositiva assolutamente sorprendente. Questo lo metterà in contatto con il regista Gus Van Sandt, che gli chiederà Miss Misery per il suo film Will Hunting, e che gli procurerà una candidatura agli Oscar come miglior colonna sonora. Oltre ovviamente al contratto con la Dreamworks di Steven Spielberg.
Tutto questo ha preparato il terreno per XO (un titolo che indica un affettuoso “baci e abbracci”, scritto in abbreviazione al termine delle lettere), che non si fatica a ritenerlo il suo disco migliore. Le melodie sono eleganti e raffinate, gli arrangiamenti curati e densi di colore, e gli arrangiamenti ammiccano un po’ di più ad una orecchiabilità più “radiofonica”, per quanto ovviamente possa esserlo Elliott Smith. Ed in particolare questo è il disco che omaggia direttamente, nelle melodie e negli arrangiamenti i Beatles, il più grande amore di Elliott Smith. E questo li evince sin da subito nell’iniziale Sweet Adeline, che non si fatica ad immaginarsela cantata da Paul McCartney o George Harrison. Arpeggi scarni che poi si fondono in policromia elaborata, orchestrale, elegante. Tomorrow tomorrow invece vaga in un territorio più bucolico, nostalgico e che fa pensare invece a Nick Drake. Di una bellezza disarmante! Waltz #2, con i suoi ritmi cadenzati, ricami pianistici e melodie epiche, si rivela come uno dei momenti più briosi e nello stesso tempo surreali dell’intero disco, in tensione tra romanticismo e indolenza. Baby Britain invece è un altro omaggio del tutto evidente ai Beatles, tanto che è facile accostarla ad una Penny Lane o ad una Sexy Sadie. Giunge poi il momento di una delle sue canzoni più belle di sempre: la delicatezza struggente di Pitseleh, dipanandosi in un’atmosfera del tutto soffusa e densa di struggente romanticismo, per poi crescere in un epico climax dato dal pianoforte e dalle chitarre. Canzone che figura in tutta la sua straordinaria bellezza nel film Keeping the faith di Edward Norton. Il suono lo-fi di Indipendence day ci riporta invece ai primi passi di Elliott Smith, senza però rinunciare alla bellezza dei nuovi metodi di arrangiamento. Bled white si erge in tutta la sua briosa armonia tanto richiamando Paul Simon quanto un certo pop anni ’60. A questa segue la tetra malinconia data dalle trame pianistiche e dal falsetto di Waltz #1, il rock’n’roll gioioso di Amity, e la desolato e cantilenante folk blues di Oh well, okay, anche questo bagnato di armonie beatlesiane. Bottle up and explode! invece segue nelle trame un certo revivalismo folk pop tanto caro ad artisti come Sparklehorse. In A question mark pare si tornare ai tempi del White album, e si va verso la chiusura col le dolenti Everybody cares, everybody understands e I didn’t understand, quest’ultima densa di armonie tanto care a Brian Wilson e ai Beach Boys.
XO è senza dubbio il disco più bello di un artista sublime, straordinario, che darà a questo piccolo gioiello un solo seguito: il fortunato Future 8, prima che due pugnalate al petto chiudessero la sua vita, rovinata dal malessere e dalla dipendenza un triste 21 ottobre 2003. La sua morte venne archivista come suicidio, ma qualcuno avanza il dubbio che forse possa trattarsi di un omicidio. Insomma una brutta storia ancora avvolta nel mistero. Elliott Smith stava lavorando al suo nuovo album, poi uscito postumo, Form basement on the hill, e ascoltandolo le lacrime scorrono da sole…

 

Giugno 2020: Elliott Smith – XO (1998)ultima modifica: 2020-06-18T13:13:25+02:00da pierrovox

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