Anima Fiammeggiante

Maggio 2021: Fleshtones - ROMAN GODS (1982)


  Data di pubblicazione: 7 gennaio 1982 Registrato a: Skyline Studios (New York), RKO Studios (Londra) Produttore: Richard Mazda Formazione: Peter Zaremba (voce), Bill Milhizer (batteria), Jan Marek Pakulski (basso), Keith Streng (chitarra), Gordon Spaeth (sassofono alto, armonica)   Lato A                           The dreg                         I've gotta change my life                         Stop fooling around                         Hope come back                         The world has changed   Lato B                           Rights                         Let's see the sun                         Shadow-line                         Chinese kitchen                         Ride your pony                         Roman gods    

"Una musica energica e rabbiosa, e contemporaneamente melodiosa e carezzevole, è un sound profondamente attuale che si ispira al passato senza dimenticare che siamo nel 1983. Fleshtones è il gruppo rock più eccitante del momento" (Federico Guglielmi)

 

I Fleshtones nascono a New York nel 1976, muovendosi dentro la scena punk della città e dividendo la sala prove con i Cramps che, fuggiti dall’ Ohio, avevano trovato rifugio dentro il CBGB‘s col loro spettacolo depravato di sesso e rock’ n roll. Con i Cramps i Fleshtones condividono l’ amore per il rock degli anni '50 e '60, ma l’approccio delle due band è totalmente antitetico: dove i primi inscenano uno spettacolo in cui la trasgressione viene raffigurata da una crepitante successione di vibrati da catacomba e trucchi splatter, gli altri mettono in vetrina uno spettacolo pieno di energia positiva, coretti surf, barriti di sax, organetti Farfisa, ciuffetti ciondolanti e camicie Paisley. Dove i Cramps portano sul palco un circo di personaggi dalla carne macilenta e putrefatta, il gruppo newyorkese si mette in gioco facendo brillare carne sana e rosea, usando i colori che i pittori usano per rappresentarne la vitalità: i fleshtones, appunto. Il passaggio alla I.R.S., l’etichetta appena messa in piedi da Miles Copeland avviene subito dopo la pubblicazione del primo singolo e inaugurato da un E.P. di cinque pezzi che ruota a 45 giri al minuto intitolato Up-Front. Il suono è il festoso american sound che loro stessi hanno annunciato al mondo l’anno prima, figlio dell’ energia contagiosa di band come Sir Douglas Quintet, Dave Clark Five, Coasters, Kingsmen, Standells. Due scattanti college songs cariche di fiati come Cold, cold shoes e Feel the heat, un psicotico beat come The girl from Baltimore, una strampalata versione di Play with fire degli Stones e un saltellante strumentale intitolato Theme from “The Vindicators” sono il bottino che la I.R.S. si garantisce per dare inizio alla favolosa storia dei Fleshtones. Ѐ il preludio al capolavoro. Nel 1982 il capolavoro arriva e rappresenta, assieme al debutto dei Chesterfield Kings, al primo Dream Syndicate e ai mini di Unclaimed e Green on Red, il disco cardine del revival retro rock di quell’ anno. Nessuno di questi dischi suona uguale all’altro ma tutti rappresentano in maniera diversa l’inizio della restaurazione in atto in tutti gli angoli dell’America e che farà da detonatore per le scene del Paisley Underground, del roots-rock, del cow-punk, della neo-psichedelia e del neo-garage. Roman Gods si apre con uno schiacciasassi intitolato The dreg che cresce attorno a un efficace giro di chitarra, ma è quando entra il basso fuzzato di Jan Marek Pakulski che ti accorgi che i Fleshtones hanno teso la loro trappola e che tu non riuscirai a liberarti prima che il disco sia finito. Da lì in avanti infatti i Fleshtones sciorinano una serie di brani beat al cardiopalmo, sapientemente miscelati con handclapping, call and response, fuzz guitars, tastiere vintage, fiati, armoniche a bocca, cembali, mettendo in piedi quello che da “american beat” si appresta a diventare il “super-rock” filtrando le polveri del frat rock, del beat, del northern soul, del surf, del punk, del R'n'B. Scorie, polveri, detriti e particelle che passano dal setaccio del gruppo e mettono su questo piccolo mucchio di cristalli che generano pepite come Hope come back, Let's see the sun, Shadow-line, Stop folling aroung,  The world has changed, I've gotta change my life, Chinese kitchen e la title-track, i due strumentali di turno che circondano Ride your pony di Lee Dorsey, unica cover presente in scaletta. Un disco che, se esistesse la giustizia terrena, dovrebbe spalancare le porte del successo ma che invece serve solo ad accrescere lo status di cult-band e poco di più, soprattutto in Europa. E infatti è lì che Miles li spedisce, dopo il fiasco commerciale dei primi due album, per realizzare i due volumi di Speed Connection.