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Il valore di un ricordo

Ieri in tv è stato trasmesso il musicarello: Una lacrima sul viso. Ascoltando il brano su cui è stato costruito il film (condiviso sopra), mi sono riaffiorati alcuni ricordi.
E sì altra riflessione sul passato, una riflessione, questa volta, un pò amara.

È trascorso un anno e mezzo, da quando mio padre non c’è più. Ammetto di non avergli dedicato tanti pensieri in questo lasso di tempo. Se non fosse per le volte che vado da mia madre, forse, non avrai alcun pensiero.
Ho raccontato nei post precedenti il rapporto che avevo con mio padre.
L’ho definito un padre assente, ingiustamente, anche, un pessimo padre. Sì! Ingiustamente, perché se l’ho devo condannare a questa etichetta allora devo avere l’onesta di definirmi un pessimo figlio.

Mio padre da giovane è stata una promessa del canto. Quando mi raccontava le sue disavventura canore mi mostrava sempre una vecchia foto in bianco e nero, una delle poche foto che lo ritraevano su un palco, con un asta e un microfono tra le mani. Una promessa non realizzata, che credo abbia lasciato in lui un’amarezza che nel tempo ha trasformato in un pessimismo a volte cinico ed egoista.
Cantava le canzoni di Gianni Morandi e Bobby Solo. Ho un ricordo in cui mi dettava le parole della canzone sopra citata, ed io le trascrivevo su un foglio bianco. Non so perché? Forse per attirare la sua attenzione e il suo compiacimento. Ero un ragazzino, anzi, un bambino incapace di chiederle (le attenzioni) e mio padre credo sia stato una di quelle persone, che si è ritrovata in una situazione che non desiderava, diviso tra il dovere di prendersi cura della moglie e il desiderio di fare quello che gli pareva.
Ad un certo punto il rapporto si è rotto, ricordo anche il giorno.
Nulla è stato più lo stesso.
Il mio peccato, non aver dato possibilità a mio padre di recuperare il rapporto.
Neanche quando da malato chiedeva dialogo e compagnia.

Sì, l’andavo a trovare (ogni settimana), quando mia madre, poi, chiamava per un problema, un’emergenza, ero sempre lì, sono stato lì, anche, le volte che serviva restare (la notte) in ospedale (prima del covid), ma esser presenti con il corpo, non vuol dire essere presenti con il cuore.

Non mi conoscete, né mi conoscerete mai, questa è una verità, seppur con alcune anime (di questa comunità) sento un rispetto che va oltre la soglia dell’anonimato. Nonostante ciò, ho raccontato tanto di me e continuo a raccontarlo perché alla fine, giunta la sera, si chiude tutto e nessuna spiegazione è dovuta.

Qui posso anche affermare senza conseguenze, d’esser un uomo che vive con parte del cuore perennemente nell’ombra, nonostante le mie mani mi concedono la virtù di creare luce e bellezza. Parte del mio cuore non perdonerà mai e un uomo che non perdona è destinato a rivivere i dolori del passato.
Perdonare, poi, chi?

L’adulto, in verità, perdonerebbe, come dice la mia compagna, sono un buono (che dalle mie parti significa fesso), a volte osa definirmi ingenuo e gli ingenui dimenticano, perdonano, perché non ricordano più il male subito o il male fatto.
È il bambino, che non perdona e dimentica.

Rileggendomi mi vien da esclamare: Quante scemenze!!!

A volte mi stupisco di quello che scrivo, parto da un’emozione, una canzone è un’emozione, (volendo una bella emozione) per poi giungere a pensieri che metto in discussione. Finché ti accusa un estraneo: sei egoista, sei superbo, sei cattivo, opporsi è facile, quasi un dovere, un difendere l’onore che viene macchiato da chi non ti conosce.
Se però è te stesso che ti accusa, che ti mostra chi sei o chi credi di non essere, le cose cambiano.

Come se non conoscessi, poi, la realtà delle cose, come se non avessi consapevolezza che siamo (come ho più volte scritto) bene e male, ricordo ancora quando pubblicai la storia dei due lupi e il post che ne nacque: Il valore di sé. Nulla di quando scritto, quindi, è nuovo.

Come concludere?
Come uscire da questa narrazione?

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Franck Dicksee – Romeo and Juliet – 1844

 

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Maschera

Chiedo scusa a tutte le amiche e amici che mi leggono per quest’altro post cupo e forse triste.
Che posso dire mi farò perdonare.

Ieri, come ho scritto nelle ultime righe, è stata festa nella mia città natale.
Una festa religiosa importante. Negli anni ha raggiunto una notorietà insperata per la chiesa e il comune, le casse si rimpinguano per la gioia di belli e furbi.
La seconda festa per importante, prima c’è San Gennaro e dopo c’è lei, San’Agata.

Ieri ho concluso scrivendo: “Questo mondo è malato, malato nell’anima.” Ancora ho in mente le parole scritte e il cuore si agita.

IO questo mondo non lo capisco e mi rendo conto che, forse, non l’ho mai capito. Anche se ho cercato e cerco di comprenderlo e giustificarne (dare un senso) gli errori.
Sono così critico come me stesso quasi da non perdonarmi e questo sapete dove porta? Porta ad esser tollerante con gli altri. Questo mi hanno insegnato, ad esser altruista e generoso. Ma sapete qual è la verità? Lo si fa per egoismo, gli altruisti i generosi, sono pochi. Lo si fa per ricevere quello che noi non riusciamo a darci, “il perdono”, un modo per aiutarci ad alleggerire i sensi di colpa.

Sapete cosa mi disgusta, la maschera, quella maschera di onesta, sensibilità, gentilezza e amore che indossano i lupi, poveri lupi, forse è meglio dire che indossano gli uomini.
L’ipocrisia è vigliacca.
E come ogni maschera nasconde, nasconde il marcio per mostrare il bello.

Ieri girando per le vie della mia città ho visto, gioia, ho visto bambini e adulti, famiglie intere radunarsi e festeggiare all’ombra di una grande macchia bianca.

La tradizione vuole che chiunque faccia voto a Sant’Agata, può indossare “il sacco” come segno votivo. Il sacco è un saio bianco accompagnato da un copricapo di velluto nero detto scuzzetta, un cordone bianco, un paio di guanti bianchi e un fazzoletto anch’esso bianco.
Il colpo doccio è straordinario, come festa folkloristica non ha da invidiare nulla ad altre più celebri feste religiose.
Ora, non ho alcuna intenzione di lanciarmi in una disquisizione sulla fede, sono il meno indicato e il meno preparato probabilmente. La mia fede è verso l’amore e verso chi ha lasciato nella sua strada puro e incontamito amore, non verso una scultura di legno, ferro o marmo, rendere omaggio è tutt’altra cosa rispetto alla venerazione cieca e sorda. Quindi non sono la voce migliore per esprimere il senso religioso della festa.
Quel che so e credo è che la fede deve essere un patto di fedeltà e fiducia verso un dettato spirituale.
Se indossi un indumento, una collana o un fede che è la rappresentazione di quel messaggio, quel messaggio “devi” seguire e lo devi seguire sempre, non solo quando ti conviene o perché è la ricorrenza.

In questi giorni la città si inonda di bianco, diventa innocente. E lo trovo ipocrita. Questo mio senso critico, mi fa paura, perché ho la sensazione di stare diventando sempre più duro nei pensieri, ed è facile il passo al cinismo.
Come ho scritto ieri, mi sento come se viaggiassi sulle montagne russe.

Ho un solo ricordo felice di mio padre ed è legato alla festa di Sant’Agata.
L’immagine che ho in mente mi mostra me da piccolo, sei o forse sette anni, con accanto mio padre che mi tiene la mano e passaggio con lui in una via piena di gente in festa.
Un ricordo felice che dovrebbe riempire di gioia il cuore, ma al contrario mi rattrista.
Perché mi ricordo solo questo. Come si fa a ricordarsi solo questo? Ad avere solo questo?

La festa è stata un successo, numeri da record.

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Fercolo di Sant’Agata – 5 Febbraio 2023

Questa è un’immagine che ho scattato ieri sera. Cosa notate? I cellulari. Tutti in alto a riprendere o scattare, invece che pregare. Così come accade in una rissa o in un incidente, tutti a filmare o scattare, nessuno che interviene. Per carità ci sta una foto, l’ho fatta pure io, ma come per il sacco il senso di essere lì, dovrebbe essere un altro. Beh, magari sono tutti turisti.

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Lodato sia

Ieri sono entrato parecchie volte, ho provato a scrivere qualcosa, anche un semplice saluto, ma nulla mi sembrava opportuno.
Anche ora in verità: Non so di cosa scrivere, bell’inizio non c’è che dire! Affidarmi alla logica l’unica strada. Forse riesco a mettere insieme un pensiero. Potrei iniziare da quel che ho scritto nell’ultimo post.

Un post a dir poco inquieto e cupo, se dovessi usare una metafora, direi che quel di mi sono trovato o meglio ritrovano chiuso in una stanza in cui la luce non riusciva a filtrare dalla finestra. Buio!!! Ecco quel che vedevo, solo buio.
Vivere nel buio!!! Una cecità metaforica ovviamente. Una cecità che non ti blocca nei movimenti, non ti rende ogni azione una sfida, una battaglia contro la sopravvivenza, ma ha la stessa paura incisa nelle carne.

In questo momento, in questo istante, fino a poche ore fa notturno, non è importante fermarsi a quel che ho scritto quel giorno. In realtà in questo momento poche cose sono importanti, forse la semplicità che porta alle singole parole può avere un valore. Semplici parole che hanno un significato.

Grazie!!! È una di queste parole, lo si dice così poco. Si dovrebbe ringraziare, invece, ogni giorno qualcuno, ringraziare ogni giorno la vita e i suoi elementi.

Io sono nato il 4 ottobre, per San Francesco. Per forza di cose questa figura è stata ricorrente nella mia vita. Non dico che mi ha reso degno (lontano in corpo e intenzioni sono da tutto quello che egli rappresenta ed ha rappresentato), ma di sicuro mi è stato vicino in molte occasioni.
Fra tutti gli uomini che hanno cavalcato la storia, lui, è certo quello che ha saputo meglio di tutti dare forma e significato alla parola: Grazie. Lo ha fatto attraverso la semplicità, attraverso piccoli atti d’amore.

Laudato si’, mi’ Signore, per sora luna e le stelle […]
Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento […]
Laudato si’, mi’ Signore, per sor’aqua, […]
Laudato si’, mi’ Signore, per frate focu […]
Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra […]
Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore […]

Laudato si’ (lodato sia), un modo semplicemente straordinario per dire grazie. Grazie per la vita, grazie per le tante sorelle e fratelli che ci scaldano, ci nutrano, ci dissetano, grazie per quelli che perdonano, che sono capaci di perdonare.

Facile per Francesco perdonare anche quando il suo corpo veniva offeso con sputi e percosse. La sua anima non era terrena, la mia anima, invece, è terrena e risente della cecità di certi momenti.

E il problema, non è perdonare gli altri, questo è facile, per me è stato sempre molto facile, troppo facile, ed ho pagato, spesso, cara questa mia forza o fragilità (non saprei direi se sia oggi virtù o vizio?). Il problema è perdonare se stessi. Perché è questo assioma (per me è un principio evidente) a portarci nel buio.

Per uscirne ci si affida a ciò che da’ pace (che brutta parola). Potreste pensare che sia la pace donata da chi ci dona amore? C’entra l’amore, c’entra sempre, ma per me è la pace che nasce dalla virtù.

Altra bella parola, ma vecchia oggi, antica, quasi in disuso, la sento solo le poche volte che entro in una cattedrale.

Aristotele diceva che la felicità non consiste in passatempi e divertimenti, ma in attività virtuose, il suo maestro Socrate che da essa (la virtù) nasceva la bellezza. Ed è così!!! L’arte, la musica, la poesia sono atti di virtuosa felicità che donano bellezza e amore. Sì amore, perché è sempre in un atto d’amore verso se stessi o gli altri che prende vita, forma, l’idea che racchiude il desiderio di donarsi senza costo o ricavo.

Ed è nella mia virtù che ho sempre trovato la pace e la luce per spazzare via la cecità. La virtù della parola scritta, che mi permette di imbrigliare i demoni che ho nell’anima e discuterci, la virtù del disegno, che mi ha permesso e mi permette di trasformare l’amore in un atto che ha forma e identità.

Si cerca nel desiderio, nell’amplesso la fuga dalla noia (un vizio che racchiude in sé, più profonde ostilità per l’anima) quando si dovrebbe cercare, invece, nel pensiero che lo trascina, la via per non sentirsi fragili o inutili, in quell’idea che spinge ad aprire e donare quel che nei momenti di solitudine e riflessione è: desiderio d’amore. Nella solitudine nasce l’amore.

Qualcosa direi che è uscito e come sempre parola, dopo parola, si è creato un lungo pensiero. Spero non sia stato noioso per chi legge. Beh anche lo fosse!!! 🙂

Mettersi alla luce. 🙂

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IO

Grazie alla luce.

Grazie al buio.

Grazie a Francesco.

Grazie al mio talento:

Stanlio e Ollio

Per ricordare di sorridere anche nei momenti bui.

Grazie a te che leggi.

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Il valore del perdono

Ieri e oggi, le strade della mia piccola cittadina, sono state inondate da bambini e ragazzini, vestiti come carnevale. Halloween la festa che, oggi, va di moda.
Non voglio dare giudizi in merito, né bacchettare chi la segue.
Però tengo a sottolineare che una festa dal valore antico e per nulla scontato, esisteva già, ed esiste ed è: La festa di Ognissanti.

Per citare i versi di una bellissima poesia:

 

“Ogn’anno, c’é l’usanza


per i defunti andare al Cimitero.”

 

In questi giorni c’è questa triste e mesta ricorrenza.

Il post, potrebbe, continuando la lettura, risultare un pò triste, quindi, invito chi non vuol farsi rattristare da non continuare. Preservare il sorriso è un’altrettanta importante ricorrenza. Proprio per questo non pubblicherò il post nella bacheca del profilo, sto scrivendo più che altro per me.

Oggi di buon mattino sono uscito insieme alla mia compagna, entrambi avevamo persone da visitare, lei la madre persa tanti anni fa, io il padre, perso da poco per colpa del Covid.

Il rapporto con mio padre non è stato semplice, sarà una frase forte, ma non ho sentito un grande dolore nel perderlo.
Forse, rammarico per come è stato il rapporto. C’è del rimpianto (direi, però, che è di tutti), di non esser stati presenti.
Ricordate com’è stato? Il malato entrava in ospedale e se eri ed era fortunato, lo vedevi all’usciva, a cose fatte, se non era fortunato, si piangeva e basta. Condividere il dolore e il tempo, avrebbero potuto fare la differenza.
Il giorno che ci hanno chiamato e detto, il vostro congiunto è grave potrebbe andarsene in qualunque momento, ho pensato a lungo a quel che è stato.
L’indomani, era pomeriggio, la mia compagna era a lavoro ed io ero solo. Seduto sul divano pensavo e pensavo, i pensieri mi passavano per la testa e i ricordi belli e brutti si avvicendavano, ad un certo punto, ho sussurrato guardando il tetto: ti perdono e spero tu perdoni me.
Neanche pochi minuti dopo, mi suona il cellulare, mia madre in lacrime, mi avverte che mio padre se n’era andato.
Ovviamente non potete comprendere il senso e il significato di quelle parole, non conoscendo la storia, ma è stato come se quelle parole dette da solo, quasi sussurrate, abbiano raggiunto qualcuno e poi siano tornate indietro con un messaggio.

Il valore del perdono.

Tra le tante frasi che ho letto negli anni, per curiosità o per creare i post che pubblicavo in passato nel mio blog, una in particolare mi ha colpito per semplicità e efficacia.

“Perdonare significa aprire la porta per liberare qualcuno e realizzare che eri tu il prigioniero.”

Mi piace l’immagine del prigioniero. Se rifletto su quanto scritto e letto, si arriva quasi naturalmente alla conclusione che non concedere perdono significa: Imprigionare.
Imprigionare non solo chi ci ha in un modo o un’altro fatto del male, ma anche e soprattutto il nostro cuore.

Nella prosa quotidiana è difficile, forse, quasi impossibile parlare dell’amore e non essere retorici. Il perdono come l’amore ha questo destino scritto nell’anima. Ogni volta che si parla del perdono si rischia di cadere in un’insopportabile retorica.
Ma se dovessi esserlo in questa riflessione, non ne sarei afflitto, perché che sia amore o perdono, niente è più eccessivo del sentire amore e non c’è amore senza perdono, senza sentire il bisogno di perdonare o di essere perdonato.

 

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