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Banchetti

Stamattina mentre passeggiavo con Frida mi accorgo con la coda dell’occhio che qualcosa si muove nello sfondo, mi giro e scorgo un piccolo animaletto sul manto stradale.

Un grillo!!!

Frida è stata brava, all’inizio, incuriosita dall’insettino, si è avvicinata con il muso, dopo tante passeggiate so che mangia qualunque cosa prende di mira, al mio “ferma” si è bloccata. È stata brava, non si è fiondata sul piccolo insetto e mi ha permesso di scattare, persino, una foto.

 

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Io, Frida e il grillo.

Devo confessare che il grillo mi suscita sempre delle strane sensazioni.
Tant’è che la mia compagna mi prende sempre in giro, per le mie reazioni infantili, ogni volta che ne intravedo uno. Inconsciamente mi ricorderanno qualche momento fanciullesco, non saprei spiegare in altro modo, se no, la mia attenzione verso questi animaletti.

Non mi è venuto in mente nessun particolare ricordo nell’osservare il grillo, né mi sono balenati nella memoria momenti particolari, c’era solo un’inconsueta emozione, un misto tra sorpresa e divertimento.

Tutto è durato pochi minuti.

Ora!!! Quello che ho appena raccontato, non è certo, un evento significativo, ma ha il suo perché.
Osservando a distanza l’accaduto, non posso non confrontare l’indifferenza emotiva nell’ascoltare, leggere o vedere gli eventi di cronaca che si susseguono incessantemente nelle tv e nei social e questa inaspettata reazione a qualcosa che di fatto è insignificante nel contesto globale.

Mi viene da pensare al tempo.

L’età umana si è tanto allungata, si vive di più. La sensazione che ho, però, è che l’attuale qualità della vita abbia portato la vita stessa ad essere consumata più velocemente.

“Un buon pranzo giova molto alla conversazione. Non si può pensare bene, né amare bene, se non si è pranzato bene.”
Virginia Woolf

La vita è un banchetto, non si può pensare bene, né amare bene, se non si è …. 🙂

Sapete? Tutto quello che avete appena letto potrebbe ai vostri occhi risultare banale e ovvio, come diceva, però, il buon George Orwell: “A volte il primo compito delle persone intelligenti è la riaffermazione dell’ovvio.”

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Riccio

Ieri mi è capitato di rivedere un vecchio film, visto anni fa. La trama offre vari spunti per riflettere e visto che sono qui per raccontare, vi racconto le mie impressioni.

Il film è: Il riccio.
Tratto dal romanzo: L’eleganza del riccio di Barbery Muriel. Il libro letto senza grande passione a dire il vero, so che ha avuto tantissimo successo.
Sinceramente non l’ho trovato eccezionale, ma credo sia una questione di gusti, le mie letture sono più vivaci e sporadicamente più fantasiose.

Il punto su cui voglio concentrarmi, oggi, è sullo sviluppo narrativo di un personaggio in particolare.
Madame Renée, la portinaia, che (attenti pericolo spoiler) nasconde sotto la sua area all’apparenza sciatta e burbera, un’area animata dalla sola presenza del proprio gatto e dalla televisione, un’anima sensibile, amante della lettera e della filosofia giapponese ed è proprio questo interesse che la spingerà a fare amicizia con un nuovo inquilino, il signor Ozu Kakuro, per l’appunto giapponese, che riuscirà con la sua gentilezza e intelligenza a far aprire quel riccio chiuso da lungo tempo al mondo. Infatti Reneé, che è in realtà una persona coltissima per non scontrarsi con il mondo in cui vive, un mondo fatto di uomini superficiali e stereotipati, preferisce celare la propria cultura, nascondendo così quella natura unica e sensibile.
La conoscenza con il signor Ozu le darà luce e speranza per il futuro. Un giorno però, Renée viene investita da un camion mentre attraversa la strada e muore. Questa conclusione è a mio parere, forzata. Perché serviva all’autrice per fornire una nuova visione della vita alla vera protagonista del romanzo, la piccola Paloma, che decide dopo la perdita dell’amica, che forse c’è ancora qualcosa per la quale vale la pena vivere (la piccola era, infatti, un’aspirante suicida).
Il punto che m’interessa analizzare è la fatalità. Quel perdere tutto nel momento che, con fatica, si riesce a trovare la via d’uscita, a ridare nuovamente fiducia al mondo e agli uomini (in questo caso). Una cinica visione della realtà, ma non tanto falsa in verità. Da tutto questo nascono tutta una seria di riflessioni e quesiti.

Quanto tempo perdiamo per paura, per sfiducia? Ci nascondiamo, dissimulando quello che siamo pur di non esser feriti, ancora e ancora. E quando poi si riesce ad aver fiducia e finalmente scoprirsi, ci si rende conto che è tardi, troppo tardi.
Non sono totalmente d’accordo sul quel che è raccontato nel romanzo, ma in parte, forse, è un non voler accettare una realtà comune.
Come la signora Renéè, io vivo ed ho vissuto come un riccio, chiuso profondamente in me stesso. Al di là delle motivazioni ben più complesse di quelle raccontate nel romanzo, è un fatto che pochi, forse, una sola persona conosce parte (parte) di quel che vive dentro il mio cuore.

Qui racconto tanto, ma sono e resto comunque: un anonimo. Per quanto vera posso pensar sia questa realtà, non è la realtà.
Credo che come me siano in tanti a esser chiusi, rannicchiati come un timido riccio. Lo vedo e lo leggo, e la sensazione di stare perdendo tempo, c’è, ed è assillante, perché il tempo passa e una parte della mia vita, una parte importante è andata.

Quanti ti voglio bene si negato?
Quanti incontri si evitano?
Quando poi si è pronti a non negarli più e non evitarli più, la vita ti attacca pesantemente, quasi insensatamente e quel chiedere diventa una supplica.
L’ho visto accadere alla fine di molte vite. Penso a mio padre che solo alla fine quando era malato ha implorato l’affetto. Ma era tardi oramai.
La natura umana è complessa (mai stata facile da comprendere). Pensateci? Si riesce a dare più ad un oggetto che ad un altro essere umano.
Ho visto ragazzi aver più attenzione per il proprio iphone che per le ragazze che li accompagnavano.
Non so se la realtà è veramente così? Sì!!! So tante cose, conosco tante poesia e racconti, conosco la storia, so leggere un’opera d’arte, apprezzare una pietra vecchia di 3000 anni, ma poco conosco delle persone.
E se considerate che forse ho più amici qui, che nel mondo reale, capite che riccio sono e sono stato.

Non voglio chiudere questo post con la sfiducia. Come dice scherzosamente la mia compagna: sei uomo, quindi sei superficiale, ergo non hai motivi per esser pessimista. 🙂 Mi riallaccio al Post di ieri e concludo così:

“Nulla impedirà al sole di sorgere ancora, nemmeno la notte più buia. Perché oltre la nera cortina della notte c’è un’alba che ci aspetta.” Khalil Gibran.

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Buona giornata a tutti e buon week and.

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Volumi

Immagino capiti anche a voi di destarvi dal sonno e, poi, rimanere a letto, ad ascoltare i rumori che attorno si alternano, c’è ne uno che assiduamente è sempre presente:

https://www.youtube.com/watch?v=1tg-POlZO38

TIC TAC TIC TAC TIC TAC

Il tempo! Torna sempre, perché è sempre presente.

Ogni frazione di tempo è importante e va sfruttata al meglio. Ecco un esempio di frase fatta.

Durante il giorno ci sono tante cose da fare, tante o poche, secondo i casi e la natura intima, persone da incontrare.

In questi giorni sto ricollocando, ridistribuendo gli spazi nel mio studio.
La matematica dice: Che il volume, ossia la misura dello spazio occupato da un corpo, non può variare una volta occupato per intero. Ergo: per qualcosa di nuovo che entra, qualcosa di vecchio deve uscire.

Le novità.

A detta di chi mi conosce non le so gestire se sono impreviste e imprevedibile. L’essere messo in dubbio è stata una costante fin da piccolo e continua ancora oggi ad esserlo. E non è facile, perché poi tutto questo, rimane rinchiuso, l’armatura non la togli più. E ciò che ti porti come una catena, sempre, sono le domande. Domande a volte folli.

Il volume della nostra anima è infinito?
Quante informazioni, emozioni, sensazioni, afflizioni, incomprensioni, quanti oni può sopportare la nostra anima, prima che lo spazio, il volume, imploda?
Perché comincio a dubitare di quell’infinità, se mi guardo attorno.
Ma anche, solo, se mi guardo dentro.
C’è un disequilibrio evidente tra i volumi che riempio io, con la comprensione e il perdono a volte e i sensi di colpa e i rimpianti altre e i volumi che riempiono gli altri e per quanto vecchio faccio uscire, quello spazio è sempre colmo.

Il tempo come ho scritto deve essere speso bene.
Anche quello che si dedica qui, se no si sminuisce ogni cose che si scrive, ogni citazione rubata ai saggi, ogni poesia, canzone e immagine sottratta, spesa per comprare un’inafferrabile valore.

Si arriva prima o poi a dover scegliere, se sorridere o piangere.
Se esser felici della vita che ho o rassegnarmi a esser tristi, perché la vita fa schifo.
Può esserci, anche, di peggio! o forse meglio.
Far finta di esser felice, ma dentro esser spezzati, ci sono momenti in cui prendo ago e filo e cucio, rimetto insiemi i pezzi e mi convinco che tutto va bene. L’auto condizione è una strada come le altre.

Cari amici, vi sembra sia troppo pessimista (che non sono) o disfattista o banale, questo ora sono e di certo non sarò solo questo. Perché esser felici significa amare ciò che di brutto e di doloroso c’è dentro di noi.
Un mare in tempesta.

Calma-nella-tempesta

 

C’era una volta un filo di cotone che si sentiva inutile. «Sono troppo debole per fare una corda» si lamentava. «E sono troppo corto per fare una maglietta. Sono troppo sgraziato per un Aquilone e non servo neppure per un ricamo da quattro soldi. Sono scolorito e ho le doppie punte… Ah, se fossi un filo d’oro, ornerei una stola, starei sulle spalle di un prelato! Non servo proprio a niente. Sono un fallito! Nessuno ha bisogno di me. Non piaccio a nessuno, neanche a me stesso!». Si raggomitolava sulla sua poltrona, ascoltava musica triste e se ne stava sempre solo. Lo udì un giorno un mucchietto di cera e gli disse: «Non ti abbattere in questo modo, piccolo filo di cotone. Ho un’idea: facciamo qualcosa noi due, insieme!
Certo non possiamo diventare un cero da altare o da salotto: tu sei troppo corto e io sono una quantità troppo scarsa. Possiamo diventare un lumino, e donare un po’ di calore e un po’ di luce. È meglio illuminare e scaldare un po’ piuttosto che stare nel buio a brontolare».
Il filo di cotone accettò di buon grado. Unito alla cera, divenne un lumino, brillò nell’oscurità ed emanò calore. E fu felice.