Con un sigaro, in una calda notte sul Bosforo

Grecia

E’ ancora buio ma verso levante si comincia a notare il leggero chiarore che annuncia l’arrivo di una nuova giornata di agosto, calda e luminosa.
E’ un bel momento per iniziare il nostro viaggio: chiave, accensione e… via!
Sarà un viaggio lungo e, nelle aspettative, interessante e divertente. Per me è anche un viaggio importante perché è la prima volta che mi reco all’estero. Sono stato, è vero, qualche volta in Svizzera, ma per noi valtellinesi la Svizzera è come il cortile di casa.
La mia Citroen Dyane 6 gialla viaggia che è una meraviglia, nonostante il notevole carico: tenda da campeggio, sacchi a pelo, fornelletti e lampade a gas, bombole di riserva, viveri e tutto quello che può essere utile per un campeggio di due settimane.
Con Renato e Roberto, che passo a caricare davanti alle loro case, formiamo una buona compagnia, ben affiatata e collaudata da molto tempo.
A Bologna ci infiliamo in autostrada e puntiamo a nord,verso Trieste. La meta finale è Istanbul, passando per Jugoslavia, Grecia (con sosta ad Atene) e ritorno attraverso la Bulgaria. Quasi diecimila chilometri: ce la faremo!
Il viaggio fino a Trieste è senza storia e arriviamo al confine jugoslavo a Pese-Kozina: sosta, passaporti, timbri, controlli e via libera.

Jugoslavia
Questo è un Paese strano: è costituito da sei repubbliche (Bosnia-Erzegovina, Montenegro, Croazia, Macedonia, Slovenia, Serbia) e da due regioni autonome (Kosovo e Vojvodina). Una popolazione che è una insalata mista di montenegrini, croati, serbi, macedoni, sloveni, turchi, ungheresi, rumeni. Popoli comunisti, cattolici, ortodossi, musulmani. E’ un miracolo che questo crogiolo di popoli, lingue, religioni e culture riesca a convivere relativamente in pace. Probabilmente è la “pax sovietica” il collante che consente questa stabilità.
Le nostre mete principali sono Atene e Istanbul e quindi dovremo attraversare tante località che meriterebbero di essere visitate a fondo ma che non ci sarà possibile fare avendo solamente due settimane a nostra disposizione.

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Viriamo verso sud e, praticamente, ridiscendiamo l’altra sponda del catino dell’Adriatico. Abbiamo deciso di non percorrere la strada costiera perché in questa stagione ci porterebbe a viaggiare in mezzo a un grosso traffico turistico che ci rallenterebbe molto, ma gireremo su percorsi interni alternativi.
Ormai all’imbrunire, giungiamo a Gospic, piccolo villaggio croato. Come primo giorno abbiamo percorso abbastanza chilometri e decidiamo di fermarci. Fuori dal paese troviamo una bella fattoria e chiediamo alla famiglia il permesso di piantare la tenda sul loro terreno. Permesso accordato e montaggio rapido del nostro primo accampamento in questa avventura.
Cuciniamo una semplice cena che consumiamo davanti alla tenda, sotto la piccola veranda in tela. Poco dopo arriva la famiglia del contadino al completo: padre, madre e tre figli di varie età. Ci portano in dono un grosso pezzo di pane e un pezzo di formaggio. Personalmente resto molto colpito: l’offerta del pane al viandante è un grande gesto di ospitalità, un gesto antico come l’uomo.
Ringraziamo di cuore e ricambiamo offrendo quel poco che possiamo: un buon bicchiere di vino e una tazza di caffè.
Il padre parla un po’ di italiano, la figlia maggiore, che frequenta la scuola superiore, parla un po’ di latino e francese, a questo noi aggiungiamo un po’ di serbocroato del vocabolarietto tascabile. Bene o male riusciamo a conversare per tutta la serata.
Al mattino presto smontiamo il campo e salutiamo questa generosa e cordiale famiglia. Ci rimettiamo in marcia. Le strade sono generalmente buone ma noto una particolarità: ai lati della strada trovo spesso i resti di automezzi incidentati e arrugginiti: auto, camion, corriere. Ci spiegano che vengono spinti fuori strada ma non rimossi perché possano servire da monito a chi guida in maniera sconsiderata. Non è la strada che uccide, sono gli autisti indisciplinati.
Viaggiare lentamente e con calma permette anche di osservare bene il territorio che si sta attraversando. Torri e campanili sono lo specchio della storia di queste popolazioni: a nord ho trovato ancora i campanili a cipolla dell’impero austriaco. Scendendo si incontrano i caratteristici campanili della Serenissima, con le bifore e le trifore. Dal centro al sud i campanili si mescolano con i minareti e le cupole dell’Islam.

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Lo schema delle giornate è ormai collaudato: sveglia presto, veloce colazione, smontaggio del campo e partenza. Si viaggia fino all’ora di pranzo, che generalmente prepariamo in qualche radura con il nostro fornello. Si riparte fino a sera, quando si sceglie il posto adatto per piantare la tenda e preparare la cena.
Pur viaggiando su strade interne, facciamo sovente una puntata sulla costa per concederci un bel bagno in mare e lasciarci asciugare dal caldo sole del mediterraneo. I costumi bagnati invece li appendiamo all’interno dell’auto. In certi momenti sembriamo una carovana di nomadi.
A forza di scendere arriviamo a Dubrovnik, l’antica Ragusa, e non possiamo non visitare questa perla dell’Adriatico. Già all’avvicinarci alla costa si intuisce l’importanza di questa città. Mura poderose la circondano proteggendola da ogni lato. La attraversiamo e la ammiriamo. Ci fermiamo a pranzare in una piccola trattoria del porto e poi visitiamo il bastione e la possente torre circolare.
Proseguiamo sempre verso sud, lungo la costa, e attraversiamo le Bocche di Cattaro, uno splendido fiordo in stile quasi scandinavo: una vera meraviglia.

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A Budva viriamo verso l’interno e ci inoltriamo tra le colline.
Siamo praticamente al confine con l’Albania, paese che non possiamo visitare e nemmeno attraversare. L’ingresso è proibito agli stranieri. Ottimo esempio di come i regimi totalitari concepiscono il concetto di “libertà”.
Per aggirare l’Albania ci inerpichiamo sui monti del Montenegro. La sera ci sorprende in alta quota, in mezzo a un bosco verdissimo, e parcheggiamo in una radura a poca distanza da un gruppetto di case. Non sappiamo esattamente in che punto della carta geografica ci troviamo. Sappiamo solo di essere nel bel mezzo dei Balcani, tra Kosovo e Macedonia, Montenegro e Albania, a quasi mille metri di altezza. Fa piuttosto freddo e ci sbrighiamo a montare il campo e accendere i fornelli per la cena.

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Tra le poche case vicine notiamo una costruzione che ha tutta l’aria di essere un’osteria e ci affrettiamo a farci un paio di confortevoli e riscaldanti grappe. Nel locale vi sono una mezza dozzina di uomini poco socievoli. Pelle come cuoio invecchiato al sole, capelli e baffi nerissimi, occhi neri che forano come spilli.
Sorrisi nulla: duri uomini dei Balcani.
La grappa è forte e probabilmente viene distillata direttamente nel retrobottega e appena la sorseggi hai il timore che ti si sciolgano i denti. Forse è per questo che nessuno sorride. Vista l’atmosfera, francamente non ci sentiamo molto tranquilli e in tenda ci addormentiamo con un occhio solo, pronti ad ogni evenienza, ma la notte trascorre tranquilla.
Al mattino ripartiamo e lungo la strada incrociamo molti autocarri, quasi tutti con scritte in cirillico sui teloni. Giù in pianura vediamo distendersi la città di Skopje, purtroppo distrutta da un disastroso terremoto solo pochi anni fa.

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Attraversiamo la Macedonia slava e ci spingiamo fino a Bitola, praticamente al confine con la Grecia. Bitola sembra il classico villaggio del Far West. Una strada polverosa percorsa da ogni tipo di veicoli sia a motore, sia trainati da cavalli, muli, asini e buoi. Casette basse, molte in legno e altre in stile “fine secolo”. E’ la classica cittadina di frontiera, dove sembra che sia possibile ogni tipo di traffico lecito e illecito. Una volta oltrepassata troviamo Niki, il confine. Altra frontiera, altra coda, altri timbri e finalmente passiamo in Grecia!

Grecia
Una terra studiata a lungo sia a scuola, sia per interessi personali: storia, arte, letteratura, filosofia. Tutto mi interessa di questa civiltà che è all’origine di tutta la nostra cultura occidentale.
Scendiamo diritti verso sud, verso le città di Florina, Grevena, Kalambaka. E’ tutto un susseguirsi di salite e discese su colli aspri. Verso oriente vediamo, in lontananza, le caratteristiche forme delle Meteore, i monoliti di roccia lisci, vertiginosi, con sulla sommità i famosi monasteri bizantini. Purtroppo sono fuori dal nostro itinerario e comunque meriterebbero un viaggio solo per se stessi.
Chissà se un domani potrò tornare a visitare questi luoghi.

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Ci fermiamo sulla sommità di un colle dove troviamo una piccola trattoria in un piccolo, anonimo villaggio. La cucina propone un unico piatto: agnello al forno con patate. Prendere o lasciare. Prendiamo ben volentieri: è tutto molto buono. Unica nota stonata è il vino: qui in Grecia usano il vino resinato, cioè fatto fermentare in particolari botti dove prende il sapore della resina. A noi proprio non piace e scopriremo ben presto che questo problema ci seguirà per tutto il percorso.
In questa trattoria scopriamo anche un’altra curiosità: quando a un tavolo si finisce una bottiglia di vino, questa viene messa sotto il tavolo e l’oste ne porta subito un’altra. In questo locale notiamo che sotto alcuni tavoli vi sono fino a sette o otto bottiglie vuote. Spero solo che non siano degli autisti dei camion parcheggiati in cortile. Mi sa che per i prossimi chilometri converrà stare molto attenti.

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Proseguiamo verso ovest per raggiungere la cittadina di Joannina e il suo lago. Si scende dolcemente e a metà strada ci fermiamo per soccorrere un’auto in panne con due ragazze francesi. Si tratta solo di una gomma forata e provvediamo noi a sostituirla. Facciamo un po’ di chiacchiere, un po’ di sorrisi, riceviamo un paio di bacetti di ringraziamento e via, si riparte.
Joannina è la città principale dell’Epiro, costruita sulla riva di un lago, nel bel mezzo delle montagne del Pindo. E’ di aspetto orientaleggiante, con minareti e moschee.
Proseguiamo verso sud e arriviamo a Igoumenitsa. Finalmente torniamo a rivedere il mare! Da qui in avanti cercheremo di stare il più possibile sulla costa.

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Proseguiamo verso sud e giungiamo, all’imbrunire, a Parga. Bellissima insenatura tra piantagioni di ulivi e agrumi: un posto veramente incantevole. Ceniamo in una trattoria all’aperto, sul mare. Classica cucina greca, molto buona, ma purtroppo danneggiata dal vino resinato.
Nell’insenatura di Parga c’è un bellissimo isolotto con una chiesina bianca e un boschetto. E’ a breve distanza dalla spiaggia e chiediamo a un pescatore di portarci con la sua barca. Torniamo che è buio e ci affrettiamo a prendere l’auto, ripartire e cercare un posto dove piantare in tutta fretta il campo per la notte.

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All’alba ci svegliamo di colpo: la tenda ondeggia da tutte le parti e siamo quasi assordati da belati di pecore e da cani che abbaiano. Usciamo veloci e ci troviamo in mezzo a un mare di pecore in marcia. Nel buio abbiamo piantato il campo con una certa urgenza, senza accorgerci di essere su un tratturo, su un sentiero di transito delle greggi. I pastori passano e ci sorridono sornioni.

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Smontiamo tutto e in fretta ripartiamo. Passiamo Preveza, una punta di penisola circondata da un mare bellissimo. Passiamo Missolungi, cittadina balneare. Qui nel 1824 morì di malaria il poeta inglese Byron.
Arriviamo a Rion, piccolo villaggio, dove parte il traghetto per Patrasso. Carichiamo l’auto e ci godiamo questa breve traversata. Viaggio piacevole, con sole caldo e brezza fresca dal mare. Dopo aver sbarcato l’auto ci dirigiamo a sud, verso Pyrgos. Siamo nel mitico Peloponneso!

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Pyrgos è solo una cittadina di passaggio, carina ma abbiamo una meta più importante: Olimpia! Oggi piccolo villaggio ma gli ampi campi di scavi archeologici testimoniano l’importanza di questo famoso centro religioso dell’Elide, anche per la nascita dei giochi più famosi del mondo.
Camminiamo a lungo in mezzo a colonne e resti di templi e strutture millenarie che testimoniano la grande cultura e civiltà della Grecia. Cammino e ammiro il Tempio di Hera, il Tempio di Zeus, i colonnati della Palestra, l’officina del grande Fidia, lo Stadio, l’Altare di Eracle. Una visita interessantissima ed emozionante.
Lasciamo Olimpia, con i suoi tesori archeologici, e ci dirigiamo a sud, verso Kalamata, in Messenia. Cittadina molto carina, moderna e con belle spiagge dove ci asciughiamo al sole dopo aver fatto un lungo bagno in un mare fantastico.

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Ci dirigiamo a est, verso l’interno, per raggiungere un altro mito greco: Sparta. Purtroppo di questa antica città della Laconia, ai piedi del monte Taigeto, non restano molte tracce. Però, a pochi chilometri da qui, a circa 600 metri di altezza, si trova Mistrà, l’antica città bizantina. Di questo periodo troviamo molte e valide testimonianze: visitiamo la Cappella di San Giorgio, e la Chiesa di Perivleptos con i suoi mirabili affreschi sul Nuovo e Antico Testamento. Visitiamo il Monastero della Pantanassa, tenuto da monache che si affrettano a coprire con ampi teli le turiste sbracciate e in pantaloncini corti che si avventurano fin quassù.
E’ un complesso molto interessante con la sua architettura bizantina, le sue numerose piccole cupole e i campanili con le finestrelle con trifore.

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Ora puntiamo verso nord-est. Siamo praticamente nel bel mezzo del Peloponneso. Ci piace viaggiare su strade secondarie che attraversano piccoli centri abitati. In uno di questi anonimi villaggi decidiamo di fermarci in un’osteria per cercare del vino senza resina. La cantina dove entriamo è già ben popolata di avventori anche se siamo solo a metà mattina. Qui dentro si sta bene ed è fresco rispetto al sole cocente dell’esterno.
L’oste capisce bene il nostro problema e ci fa assaggiare il vino di numerose botti, anche gli avventori ci seppelliscono di consigli. Purtroppo non troviamo ciò che stiamo cercando, però non possiamo andarcene a mani vuote: acquistiamo un po’ di vino e poi, visto che sono stati così gentili con noi, decidiamo di offrire un giro di bicchieri a tutti. E tutti sono ben felici di accettare! Quando usciamo ci seguono con i bicchieri in mano e vogliono essere immortalati in una foto, mentre alzano il bicchiere in un brindisi bene augurale.

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Quasi tutto il villaggio si è radunato e siamo ben lieti di tutti questi amici che lasciamo a malincuore. Ma la strada ci aspetta per riservarci altre curiosità, altre avventure.
Raggiungiamo, a fine mattinata, la graziosissima cittadina di Nauplion. Molto carina con la sua architettura in stile veneziano e con il bellissimo mare del golfo dell’Argolide. Da qui ci dirigiamo a est, destinazione Epidauro, un altro dei centri archeologici più importanti della Grecia, sempre nella regione dell’Argolide.

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Splendido è il Teatro: la collina è stata scavata a semicerchio e in questo spazio sono stati inseriti 55 ordini di gradini che scendono a raggiera fino al centro focale del palcoscenico. Quest’opera risale al IV secolo a.C. ed è il teatro più bello e meglio conservato di tutta la Grecia. La perfezione dell’acustica e la bellezza del posto ne fanno un luogo magico. Ancora oggi è regolarmente usato per rappresentazioni classiche.
Oltre al Teatro visitiamo un ampio campo di scavi e ammiriamo le fondamenta del Katagoglion e il famoso e importante Heraion di Asklepios, il Tempio più noto della regione.

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Ripartiamo e ben presto arriviamo a Corinto ma tralasciamo il centro moderno per visitare la città antica con i suoi resti importanti e le alte e impressionanti colonne doriche del Tempio di Apollo. Attraversiamo poi il famoso Canale di Corinto. Il ponte moderno ci consente di oltrepassare i 23 metri di larghezza del canale. Sulle ringhiere del ponte, purtroppo, sono infisse le targhe con i simboli fascisti della giunta militare che ora governa la Grecia. E pensare che proprio qui in Grecia è nata la democrazia! Ed è triste pensare che questo nostro viaggio si svolga sotto le dittature: due di sinistra (Jugoslavia e Bulgaria) e due di destra (Grecia e Turchia).

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Oltrepassiamo la cittadina di Megara, agricola e di aspetto orientale e puntiamo finalmente a una delle mete principali del nostro peregrinare: Atene!
Giungere ad Atene è una grande emozione. Questa città millenaria, questa civiltà così incredibilmente importante per tutto il mondo occidentale, confesso che mi emoziona non poco.
Facciamo un primo giro veloce per la città, giusto per prendere confidenza con l’ambiente. Il primo impatto è un tantino preoccupante: la città sembra costruita alla rinfusa, senza un piano organico, preordinato. E’ difficile orientarsi in questo dedalo di strade di ogni ampiezza e dirette non si sa mai dove.
Anche il traffico è complesso: molto intenso e sembra privo di ogni regolamentazione.
Dovrò stare molto attento nella guida!

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Naturalmente torniamo fuori città per cercare un posto adatto a piantare la tenda per la notte. Decidiamo di affidarci a un campeggio regolare e ne troviamo uno molto bello a Rafina, sul mare. Potremo così lasciare montata la tenda per tutti i giorni della nostra permanenza ad Atene. Nel villaggio vicino comperiamo un po’ di viveri: pane, formaggio, frutta fresca e poi montiamo il campo e prepariamo la cena. Col buio ci tuffiamo nudi in mare e sguazziamo tra le onde, sotto la luce di una splendida luna e lasciando in acqua la polvere, il sudore e la stanchezza dei tanti chilometri macinati.
Nei giorni seguenti andiamo sempre in città e ne esploriamo i punti più interessanti.
Passando davanti al Parlamento vediamo che montano la guardia gli Euzones, i soldati famosi per il loro gonnellino e per le calzature con una specie di pon-pon.

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Naturalmente la visita è iniziata dall’Acropoli, la collina che domina la città e sulla quale si è concentrata la migliore e più importante arte greca e dove si svolgeva la vita religiosa di Atene. Visitiamo il Partenone, ci aggiriamo tra le sue imponenti colonne, percorriamo la Via Sacra, visitiamo il Tempio di Athena Nike, ammiriamo l’Eretteo e lo splendido Portico delle Cariatidi. Sono le sei statue delle Korai, bellissime figure sacre femminili, vestite con il classico peplo ionico. Veramente ammirevoli! Forse saremo tra gli ultimi a poterle ammirare nel loro posto originario perché sembra che verranno rimosse per un lungo restauro e poi ricollocate in altre sedi, al riparo dagli agenti atmosferici che potrebbero danneggiarle in maniera irreparabile.

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Sotto l’Acropoli si stende l’Agorà, la piazza antica di Atene, il luogo dove si svolgeva la vita pubblica, politica e amministrativa. Anche qui sono moltissimi i resti antichi, tutti importanti, tutti interessanti. Uno per tutti: il Tempio di Theseion. Ma è impossibile citare tutti i centri di interesse, e vengono i brividi a pensare che tra queste colonne, su queste pietre, sono passati eroi, politici, filosofi di impareggiabile grandezza.

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Tra l’Acropoli e l’Agorà si estende il quartiere della Plaka. Un dedalo di viuzze strette e brulicante di vita ad ogni ora del giorno e della notte. La Plaka è piena di osterie e trattorie dove ci rifugiamo per mangiare qualche cosa, bere del buon “Ouzo” e fumare, immersi in una folla variopinta, che parla decine di lingue diverse.
Dedichiamo tre interi giorni a gustarci Atene ma poi, purtroppo, dobbiamo rimetterci in cammino. Altre mete ci attendono e nello stesso tempo io sento il fascino di questa vita on the road, da nomade, da carovaniere.

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Smontiamo il campo di Rafina e puntiamo a nord, verso la regione della Macedonia greca. Dopo pochi chilometri ci fermiamo a Maratona, luogo isolato e sperduto ma ricco di storia. Qui non vi è nulla, solo un cippo che ricorda il sacrificio di 192 opliti della fanteria greca che riuscirono, da soli, a fermare la grande armata persiana, nel 490 a.C. Si salvò soltanto un milite che corse a perdifiato per 42 chilometri, fino all’Agorà di Atene per annunciare la vittoria e la salvezza della città.

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Dopo aver dato la notizia stramazzò al suolo. In suo onore si corrono “maratone” in tutto il mondo.
Ma qui, oltre alla storia alberga anche la leggenda: si racconta che proprio qui Teseo sconfisse il toro che terrorizzava la regione.
Passiamo velocemente le città della Tessaglia: Lamia, Volos, Larissa, moderne perché ricostruite dopo la distruzione causata da recenti terremoti.
Arriviamo a Tessalonica, la storica Salonicco, seconda città della Grecia, nella Macedonia. Ricca di storia, di chiese, circondata da una poderosa cinta di mura di epoca bizantina e caratterizzata da strade strette e di stile orientale.

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Mettiamo il campo vicino a un villaggio, sulla spiaggia, a una decina di chilometri dalla città. Ceniamo in una trattoria sul mare: ottima cucina di pesce, immancabile vino resinato, qualche bicchiere di ouzo e del buon fumo. Dopo cena Renato e Roberto vanno a coricarsi in tenda. Io ho bisogno di sgranchirmi le gambe e mi incammino verso la città, sulla strada che costeggia il mare.
E’ una bella notte: negli occhi il cielo pieno di stelle, nelle orecchie la musica del mare che batte sulla riva, nelle narici il profumo della salsedine che si mescola con quello dei fiori che proviene dall’altro lato della strada, dove c’è una collina boscosa. Mi rilasso, fumo con calma e cammino a lungo, fino quasi alla periferia di Salonicco. Al ritorno mi accorgo che la zona boscosa che fiancheggia un lato della strada è un’area militare. Al di là della recinzione vedo ora muoversi pattuglie di soldati con cani al guinzaglio. Mi guardano un po’ straniati, ma io faccio un cenno di saluto, un sorriso, e continuo a camminare con calma. Arrivo alla tenda che è quasi l’alba. Fino a questo momento ho sempre guidato io, ma oggi lascio guidare la compagnia e mi concedo qualche ora di sonno sul sedile dell’auto.

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Quando mi sveglio abbiamo già passato Kavala, Komotini e Alexandroupolis e ci stiamo avvicinando al confine turco. Riprendo la guida dell’auto, perché solo io ho la patente internazionale, e ci portiamo a Fere. E’ un villaggio antichissimo, risalente al IV millennio a.C. dove si dice regnassero Admeto e la sua sposa Alcesti, immortalati nella famosa commedia di Euripide.

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Poco dopo Fere troviamo il Ponte sull’Evros, dove passa il confine con la Turchia.
Le operazioni doganali sono piuttosto lunghe e lunga è anche la coda di auto ferme in attesa di poter passare. Qualcuno scende e comincia a protestare e una guardia turca, per riportare la calma, estrae la pistola e spara un colpo in aria. Proteste e lamentele cessano subito e tutti decidono di attendere con pazienza. Finalmente arriva anche il nostro turno e dopo i controlli varchiamo il confine. Siamo in Turchia!

Turchia

Proseguiamo sulla strada principale fino a Tekirdag, la oltrepassiamo, ci fermiamo su una bella spiaggia e piantiamo la tenda in riva al mare. Si dorme bene con la musica del mare che accarezza la spiaggia. Al mattino però, delle urla ci svegliano di soprassalto e corriamo fuori dalla tenda. Ci rendiamo conto che le urla provengono da un altoparlante piazzato sulla cima di un minareto della vicina moschea. E’ il “muezzin” che a squarciagola chiama i fedeli alla preghiera. In Jugoslavia abbiamo attraversato varie zone musulmane ma non ci era mai capitato di sentire gli altoparlanti dei minareti. Comunque, guardando le pacifiche famiglie sedute sulla sabbia a prendere il sole, con i bambini a giocare, non ci sembra vi sia molto seguito alle invocazioni del muezzin. Ci tuffiamo anche noi nell’acqua pulita e fresca di questo magnifico Mare Egeo. Dopo esserci asciugati al sole, smontiamo la tenda e ripartiamo per quella che è la meta più lontana del nostro percorso: la favolosa Costantinopoli, o Bisanzio , o Istanbul. Tre nomi per una città leggendaria!

Cover

Arriviamo alla periferia della città e se ci sembrava caotico il traffico di Atene, non troviamo un aggettivo adatto a ciò che ci riserva Istanbul.
Sulle strade incontriamo di tutto: vecchie e ingombranti auto americane degli anni ‘50, furgoni, autocarri e camion sono addobbati con luci e perline come alberi di Natale, e poi biciclette, carretti trainati da asini e da lenti e solenni dromedari col basto carico di mercanzie. E’ un vero e proprio delirio.
Entriamo cautamente in città e facciamo un primo giro di esplorazione del centro antico. Decidiamo, in breve, di tornare in periferia e trovare un campeggio regolare dove lasciare auto e tenda per i prossimi giorni. Ne troviamo uno vicino e il titolare ci assicura che è un posto tranquillo e sicuro. In effetti credo che pochi vengano qui a dargli fastidio: ha una corporatura imponente, folti baffi neri, sguardo poco rassicurante e gira sempre accompagnato da un enorme mastino che tiene al guinzaglio con una catena e che ha la stessa espressione poco amichevole del padrone.

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Il giorno dopo partiamo alla scoperta di Istanbul, questa città a cavallo di due continenti: Europa e Asia, sullo stretto del Bosforo. Dal campeggio prendiamo un taxi per il centro antico della città. Una vecchia auto americana dalla carrozzeria enorme, ingombrante, guidata in maniera spericolata da un autista dagli occhi allegri e grossi baffi. Mi accorgo che tutte le auto in circolazione sono di questo modello e di questa età e che tutti gli uomini portano i baffi.
Il nostro taxi procede spedito ma cigola e stride in maniera preoccupante- La portiera posteriore è fermata con filo di ferro e la tappezzeria è logora e sporca. Il traffico è incredibilmente caotico, senza alcuna regola, agli incroci passa per primo chi suona più forte il clacson. Un’altra curiosità: la città è su vari rilievi e le strade sono una continua alternanza di salite e discese e quando gli autisti raggiungono la sommità della strada spengono il motore e scendono “in folle” per risparmiare benzina.
Bene o male arriviamo a destinazione e con sollievo mettiamo i piedi a terra.

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Passeggiamo per strade tortuose e strette, ammirando palazzi con il classico balconcino chiuso, in legno traforato, in stile arabo. Ci sediamo a un tavolino all’aperto di un bar per berci un caffè. Vediamo diversi uomini seduti che bevono e fumano il narghilè in comune: una grossa pipa ad acqua posta al centro, con diverse cannelle da fumo e tutti, seduti in cerchio, aspirano estasiati dai vari bocchini in osso.
Un ragazzino scalzo si avvicina e ci vende una caramella di menta. Ne ha una decina su un vassoietto che offre in vendita ai passanti. Un uomo ci propone di acquistare un copertone per auto. Un altro giovane si aggira tra i tavolini del bar con un apparecchio per misurare la pressione arteriosa e propone un “controllo sanitario” seduta stante.
Finalmente arrivano i nostri caffè, che vengono serviti su un vassoio rotondo sospeso a un anello con tre catenelle, come un piatto della bilancia. I caffè sono forti, fatti con una polvere macinata finissima, che resta in sospensione nell’acqua bollente. Al posto dello zucchero si usa un cucchiaino di burro rancido. In tutto questo viaggio sentiamo una forte nostalgia per il nostro caro caffè espresso italiano.

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Il passeggiare per il centro ci permette di assaporare e assimilare un po’ lo stile della città, della popolazione, del loro modo di vivere che è completamente diverso dal nostro. Entriamo nella Hagia Sophia, la grande basilica dall’enorme cupola del VI secolo e i suoi minareti. Fu sede del Patriarcato di Costantinopoli e poi venne convertita in moschea. Oggi è un museo.
Bellissimi gli enormi lampadari e veramente imponenti le colonne sulle quali campeggiano grossi medaglioni con iscrizioni sacre in lingua araba.
Quando usciamo notiamo una trattoria lì vicino. Il cameriere, che ha intuito le nostre intenzioni, si affretta a venirci incontro e a sospingerci all’interno con cortese ma ferma sollecitudine. Con uno straccio spolvera le sedie, il piano del tavolo e infine anche i piatti e i bicchieri. Per fortuna prima di partire ci siamo tutti vaccinati contro il tifo e la febbre gialla! Il cameriere ci porta in cucina e ci mostra grossi pentoloni dove cuociono varie pietanze. Chiaramente non comprendiamo nulla di ciò che ci decanta e scegliamo il pranzo indicando le varie pentole. Il cibo in effetti è buono, ma non sapremo mai che cosa abbiamo mangiato! Il conto è veramente basso e lasciamo una generosa mancia al solerte cameriere che a momenti sviene per l’emozione. Il giorno dopo, quando ci vede ancora in zona, si precipita fino in mezzo alla piazza per invitarci di nuovo a pranzare nella sua trattoria. Cosa che, tutto sommato, facciamo volentieri.
Per le strade è tutto un susseguirsi di venditori ambulanti che offrono di tutto: pannocchie arrostite, pesce fritto, gingilli e collanine di tutti i colori. Caratteristici sono i venditori di acqua e di the alla menta. Si aggirano tra la folla con in spalla una specie di zaino di rame, dal quale spillano le loro bevande, e con in mano un bicchiere di metallo dove offrono da bere a pagamento. In cintura tengono uno straccio con il quale “puliscono” il bicchiere dopo l’uso.

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Non ci sono mendicanti, ma tutti hanno un loro piccolo e povero commercio.
Visitiamo la Sultan Ahmet Camii, o Moschea Blu, forse la più bella di Istanbul. E’ una costruzione del 1600, con una grande cupola e sei minareti, uno in più delle altre moschee. E’ chiamata Moschea Blu per le sue oltre ventimila piastrelle di ceramica turchese che la decorano. 260 finestrelle la rendono molto luminosa e molto belli sono i folti tappeti che ricoprono tutto il pavimento.
Un altro palazzo che visitiamo è il Topkapi Saray, il centro del potere assoluto ottomano. Si affaccia all’ingresso del Bosforo, tra il Mar di Marmara e il canale verso il Mar Nero. E’ all’inizio del Corno d’Oro, il porto naturale.
E’ stato costruito nel 1460, con innumerevoli stanze e cortili interni. Interessante la visita alle sale dell’harem, quelle degli eunuchi di corte, il padiglione con le reliquie attribuite al Profeta Maometto, a Mosè e a S. Giovanni Battista. Immancabile la visita alle sale del tesoro: un tripudio di ori, gemme, perle, pietre preziose di ogni colore e grandezza e che credo non abbiano eguali. Mi ha molto interessato la sala con esposti antichissimi manoscritti di importanti scrittori e studiosi. Elegantissimi nella loro fine scrittura araba e tutti elegantemente decorati.
Dopo tutto questo girovagare abbiamo necessità di cambiare ancora un po’ di denaro e andiamo in una banca. Ci attende una doccia gelata: a noi sono rimaste solamente banconote italiane da 50.000 lire e il problema è che queste banconote sono state stampate da troppo poco tempo e il nostro governo non ha ancora provveduto a inviare comunicazione e modelli alla banche centrali dei paesi esteri. Quindi come banconote non sono ancora riconosciute e… non valgono nulla.

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Decidiamo di recarci al porto e vedere se è presente qualche ufficio turistico italiano che ci possa aiutare. Abbiamo una grande fortuna: una nave da crociera italiana ha attraccato e i passeggeri scendono a terra. Fermiamo un giovane ufficiale, carino nella sua bella divisa bianca, e spieghiamo il nostro problema. Gentilmente risale sulla nave, parla con il Commissario di bordo e ci fa cambiare le nostre belle, nuove ma inutili banconote in vecchi, sgualciti ma desiderati marchi tedeschi, la moneta più ambita e desiderata in tutta la Turchia e i Balcani.
Viva la marineria italiana!
Finalmente ci possiamo rilassare e dal porto andiamo a visitare il Ponte di Galata, a cavallo del Corno d’Oro, che unisce la parte antica con quella moderna di Istanbul. Un ponte in ferro, con una folta e brulicante umanità in continuo movimento.
In acqua ci sono tanti piccoli battelli-ristorante dove cucinano e servono il pesce appena pescato.
Quando torniamo verso il centro notiamo un chiosco dove, su uno spiedo verticale che ruota, viene cotta della carne. Ci spiegano che si chiama kebab e che la carne è di montone. Viene tagliata a listarelle e servita in mezzo a morbide pagnotte. Lo assaggiamo e devo riconoscere che la carne di montone è un tantino “tosta” da gustare.

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Non possiamo lasciare Istanbul senza visitare il Gran Bazar, il mercato coperto più grande e antico del mondo. Risale al 1500 e al suo interno vi sono 60 stradine che ospitano 4000 negozi, dove si vende praticamente di tutto. Vi sono le strade delle spezie, profumate e coloratissime, altre di artigianato in pelle, in legno, quelle degli orafi, ecc. Un labirinto dove è facile perdersi e dove si agita continuamente una moltitudine di persone di ogni razza, di ogni paese.
Roberto e Renato si fermano in una bottega che vende giacche in pelle, che vogliono acquistare come regalo alle fidanzate. Qui non è così semplice comperare, non si può chiedere il prezzo, pagare e via. Qui c’è il gusto tutto orientale del mercanteggiare: ci si siede, il venditore illustra i pregi dell’oggetto e spara un prezzo impossibile. L’acquirente esamina l’oggetto, ne rileva i difetti e spara un prezzo improponibile. Ci si sorride, si manda il garzone a prendere un caffè per tutti. Piano, piano, a forza di mercanteggiare si arriva a stabilire quel prezzo equilibrato che tutti e due conoscevano fin dall’inizio. Affare fatto e si beve il caffè arrivato sul solito vassoio a bilancino.
Riusciamo a non perderci e a ritrovare l’uscita. Ormai è l’ultima sera che trascorriamo a Istanbul, domani si riparte. I miei due amici fanno ritorno al campeggio per riposarsi. Io decido di fermarmi e di godermi fino all’ultimo questa grande e interessantissima città.
Mi faccio portare, con un taxi, a Taksim Meydani, la piazza moderna, nel quartiere della vita mondana di Istanbul: Beyoglu.
Nei viali alberati della piazza e nelle strette stradine laterali è tutto un susseguirsi di teatri, bar, ristoranti, cinema, locali notturni e negozi alla moda.
Tantissima gente è a spasso questa sera.
Mi siedo a un tavolino di un bar all’aperto, mangio qualcosa e sorseggio una robusta grappa balcanica, osservando il passeggio sul viale.
Poi compero un bel sigaro e me lo fumo lentamente, in santa pace, e passeggio anch’io in mezzo a questa vivace umanità.
E gusto a fondo questa calda, tranquilla, splendida notte sul Bosforo.

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E’ molto tardi, quasi l’alba, quando raggiungo la tenda, saluto il proprietario del campeggio che, con una potente torcia e il fedele e fido mastino al guinzaglio, gira per controllare che tutto sia tranquillo. Mi concedo, finalmente, qualche ora di sonno, prima di iniziare il viaggio di ritorno.
Devo lasciare Istanbul e mi dispiace, perché questa città mi ha affascinato, per le emozioni che mi ha suscitato, per le sensazioni che mi ha fatto provare e che mi è difficile esternare.
Devo lasciare Istanbul e mi dispiace, perché non ho avuto la possibilità di visitare la sua parte asiatica.
Devo lasciare Istanbul e mi dispiace, perché non ho avuto la possibilità di verificare una leggenda: trovare la tomba di Annibale Barca, il grande condottiero cartaginese, il grande generale che osò sfidare l’impero romano e valicare le Alpi con gli elefanti e che la leggenda vuole che sia venuto proprio qui a morire, nel 180 a.C. (ma forse è meglio così, una leggenda mantiene il suo fascino solamente se non puoi svelarla).
Devo lasciare Istanbul e mi dispiace, ma… chissà, forse un domani…
Partiamo e ci dirigiamo verso nord-ovest, verso Edirne, l’antica Adrianopoli, città della Tracia all’incrocio di tre stati: Grecia, Turchia e Bulgaria. Ed è proprio verso la frontiera bulgara che puntiamo.

Il rientro
Le formalità di frontiera sono complesse: compilazione della richiesta di un visto speciale, controllo e verifica minuziosa ed esasperante dei passaporti, della patente internazionale, del certificato internazionale di vaccinazione, dell’auto e di tutto il bagaglio (provate a immaginare che ordine poteva esserci in auto dopo una decina di giorni di vita nomade esasperata!). E’ anche obbligatorio convertire una somma non piccola nella moneta locale (il “Lei”) a un tasso di cambio che rasenta l’usura.
Entriamo finalmente in Bulgaria con un permesso di transito speciale: possiamo attraversarla ma non pernottarvi. Prendiamo una specie di superstrada che attraversa diagonalmente questa nazione dei Balcani e arriviamo alla sua capitale: Sofia.

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Scarso traffico di auto e molto intenso traffico di biciclette. Passiamo davanti alla Cattedrale di Alexandr Nevskji, vediamo in lontananza i minareti della Moschea Banya Bashi. Ci fermiamo un poco sul corso principale e osserviamo la moltitudine di operai che rientrano a casa. Tutti visi tristi, poche persone che parlano. Anche i palazzi sono tristi, trasandati. I monumenti sono esteticamente pesanti, sgraziati e scontati nel loro classico stile russo-bolscevico. L’unica nota positiva sono le rose. Ogni aiuola, ogni spartitraffico, ogni giardinetto, è coltivato a rose.
Riprendiamo il cammino e raggiungiamo la frontiera con la Jugoslavia a Gradina.
Dobbiamo riconsegnare il visto e il permesso di transito e riconvertire la moneta locale in Dinari jugoslavi, naturalmente con un altro tasso di cambio usuraio. Lasciamo la triste Bulgaria e rientriamo in Jugoslavia che questa volta attraverseremo completamente al centro, quasi in diagonale. Sarà necessario fermarci un po’ meno perché ormai stanno finendo i giorni a nostra disposizione.

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La strada corre quasi parallela al fiume Nisava e percorriamo il canyon di Jeslanika, e passiamo Poirot, la cittadina famosa per la produzione dei kilim, i tappeti da preghiera islamici. Superiamo velocemente Nis e poi, scavallando varie colline e passando su strade secondarie, puntiamo verso Sarajevo. Verso sera ci coglie un furioso temporale. E’ ormai buio e piove talmente forte che io, alla guida come sempre, non riesco quasi a vedere la strada. Sarà un bel problema per la notte, non possiamo certo piantare la tenda in queste condizioni!
Dopo qualche chilometro troviamo una fattoria isolata, in mezzo al nulla. Ci fermiamo e bussiamo alla porta dell’abitazione. Ci apre un signore anziano e chiediamo il permesso di ripararci sotto la tettoia per la notte. Capisce al volo la nostra situazione e gentilmente ci fa parcheggiare l’auto sotto la tettoia del fienile e poi ci invita ad entrare in casa. Vive solo e ci offre una stanza al pianterreno dove poter stendere i nostri sacchi a pelo. Almeno potremo stare al coperto. Può darci anche qualche cosa da mangiare ma gli sono rimaste solamente le uova del suo pollaio. Insiste e accettiamo ben contenti e ci prepara subito una frittata di una decina di uova, un filone di pane e un fiasco di vino. Apprezziamo talmente la sua cortesia da spazzolare coscienziosamente tutto quanto ci è stato offerto. Dopo un ultimo bicchiere di vino e una buona fumata, ci infiliamo nei sacchi a pelo.
All’alba ci sveglia la luce di un bellissimo, caldo sole e dopo aver pagato volentieri cena e pernottamento salutiamo il cordiale padrone di casa e ripartiamo per Sarajevo.

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Passiamo dalla Serbia alla Bosnia Erzegovina e ci avviciniamo a Sarajevo. Purtroppo non abbiamo più tempo per visitare questa bella città dei Balcani, attraversata dal fiume Miljacka. Vediamo in lontananza i minareti che la ornano. In questo posto ci tornerò, spero, in un prossimo viaggio. E’ una promessa che mi faccio.
Dopo Sarajevo troviamo Banja Luka, con la gola della Vrabas, uno stretto canyon roccioso. Poi è tutto un susseguirsi di colline, boschi, pianure e villaggi fino a Bihac, sul fiume Una, caratterizzata da una imponente fortezza turca e dalla Moschea della Vittoria.

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Dopo alcuni chilometri ci fermiamo a Plitvice Jezera, i Laghi di Plitvice, una delle bellezze naturali dei Balcani. Ci troviamo nei boschi della Croazia, in mezzo a colline verdissime e ricchissime di acqua. La zona è caratterizzata da fiumi, torrenti, laghi e cascate: un parco naturale magnifico.
Da Plitvice ci dirigiamo a nord, verso il confine con l’Italia. Confine che varchiamo a Nova Gorica, la parte jugoslava di Gorizia. Una città tagliata in due alla fine della seconda guerra mondiale. Una città tagliata in due negli affetti, nelle famiglie, nelle amicizie. Una città tagliata in due dalla follia e dalla stupidità degli uomini. Ed è un taglio netto tra due mondi ora completamente diversi: democrazia e totalitarismo, capitalismo e socialismo, modernità e arretratezza.
Da Gorizia scendiamo spediti e veloci fino a casa.
Il nostro viaggio è terminato e, come ogni finale che si rispetti, sentiamo da una parte il sollievo per essere tornati a casa, dall’altra parte la nostalgia per la bella avventura che abbiamo vissuto.
Nel nostro piccolo siamo riusciti a incontrare tante persone, razze, religioni, modi di vivere: tanta ricchezza culturale e umana.
Poi resta il fascino del viaggio in sé. Mi rendo conto che non sono come Ulisse che anela alla sua Itaca. Per me, la mia Itaca è sì importante come luogo dove tornare per ritrovare gli affetti lasciati, ma è anche un luogo dove poter organizzare nuove partenze e nuove avventure.

 

Agosto, 1972

Con un sigaro, in una calda notte sul Bosforoultima modifica: 2020-04-28T19:17:06+02:00da Francesco.saldi