Frammenti

L'ultima stagione


Ancora una volta sono tornato nella mia terra: l’Alta Valtellina. La sento mia perché qui c’è una parte importante della mia storia, qui sono venuto tante volte e credo di conoscerla abbastanza bene, qui ho sperimentato la gioia e la soddisfazione di marciare nelle valli e salire sulle vette di queste splendide montagne.

A settembre, in montagna, si entra nell’ultima stagione dell’anno adatta alle lunghe camminate e alle esplorazioni. Presto verrà la neve e sarà il tempo degli sciatori.

Da un punto di vista personale anche per me questa potrebbe essere un’ultima stagione da poter dedicare ai miei viaggi. Sono a un bivio ed ho importanti decisioni da prendere. Ho 28 anni e un lavoro stabile che mi piace e mi interessa, ho tanti amici e amiche e proprio per una di queste provo un sentimento forte che mi spinge a dichiararmi per un futuro e lungo percorso assieme. Naturalmente questo comporterebbe un cambiamento drastico nella mia vita: dovrò smettere di essere un nomade, un viaggiatore solitario. Certamente viaggerò ancora, ma solamente come “turista”. E sarà tutta un’altra storia. Questo breve soggiorno servirà per fissare immagini e ricordi e per imprimere bene questa Terra nell’anima.

Sono arrivato qui a Bormio (1225 m.) con la mia vecchia Fiat 500 e con il solito zaino, pieno solamente dell’essenziale. Vado nel rione di Combo: è la zona di Bormio meno turistica, più rustica, e trovo una camera privata in affitto. È molto spartana, e a me piace così. La sera è calata da tempo e rimando a domani la mia uscita in questa cittadina che nel 1377 venne dichiarata “Libero Contado”, poi “Contea” e infine “Magnifica Terra di Bormio”. Concordo pienamente con questa ultima dichiarazione.

In cammino nella Contea

Al mattino ho subito una bella sorpresa: in strada mi trovo attorniato da una mandria di simpaticissime mucche in marcia. Stanno rientrando dagli alti pascoli estivi e tornano qui, alle loro stalle invernali, per trascorrere i mesi più freddi in un ambiente più confortevole. Combo mi piace proprio per questo suo aspetto rurale. Nella valle, tra i pascoli, si possono ancora vedere baite in legno, con stalle e fienili, antiche di secoli.

Ma questo rione presenta anche interessanti aspetti artistici. All’incrocio di alcune strade posso vedere piccole cappelle devozionali che spesso presentano gradevoli affreschi.

Passo vicino alla piccola chiesa del Sassello (chiamata anche della Pazienza) del XIV secolo, con un’unica navata e un piccolo e snello campanile. L’altra chiesa del borgo è dedicata a S. Antonio Abate ed è stata costruita nel 1368. È conosciuta anche con il nome di SS. Crocifisso perché vi è rappresentato in una scultura lignea del ‘500, opera di uno sconosciuto intagliatore della valle. La pala che raffigura S. Antonio è di Carlo Marni, un artista bormino che la dipinse nel 1642.

Mi incammino verso il ponte che collega Combo al centro della cittadina. È un antichissimo ponte a schiena d’asino e al centro, sulle spallette, vi sono due piccole cappelle, una di fronte all’altra, del 1300. Il ponte attraversa il torrente Frodolfo, impetuoso e gelido. L’acqua spumeggiante che sto guardando arriva dal ghiacciaio del Forno e, più a valle, si unirà alle acque dell’Adda. È molto piacevole passeggiare per queste stradine strette e tortuose, ricche di storia, di arte, di artigianato.

Sono molti i palazzi storici che hanno la facciata decorata da affreschi. Interessanti sono la sede storica del Ginnasio, del 1632, e la Torre degli Alberti.

Questo paese è sempre stato ambito da tutte le potenze per la sua posizione strategica, di snodo e incrocio per i commerci tra Italia e centro Europa. Violente sono state le contese tra gli Sforza, i Visconti, i Grigioni e gli Spagnoli. Queste lotte non hanno risparmiato nulla a Bormio: stragi, guerre, saccheggi, devastazioni, distruzioni.

Arrivo nella piazza principale dove ritrovo il “Kuerc”, l’antica tettoia che copre una serie di panche perimetrali dove si riunivano i capi e gli anziani per prendere decisioni e amministrare la giustizia.

Alle sue spalle ammiro la bella Torre delle Ore. È la torre civica, chiamata così perché vi è dipinta una meridiana di Menico Nesini. Sulla torre c’era la famosa “Baiona”, una grossa campana in bronzo, del 1300, che serviva per chiamare i cittadini a raccolta e avvertire in caso di pericolo.

Nella stessa piazza visito anche la chiesa dedicata ai SS. Gervasio e Protasio, patroni della città. Era già nota nel secolo VIII ma costruita su precedenti resti del IV secolo. Personalmente, però, preferisco la bella chiesa di S. Vitale, del XII secolo, di struttura romanica e con interessanti affreschi esterni. È piccola, l’interno è ben decorato, è fresca e silenziosa e si presta molto al raccoglimento e alla riflessione. Dopo tanto camminare e ammirare mi infilo in una trattoria del centro, che conosco da tempo. Un piatto di pizzoccheri, annaffiato da un buon Rosso Valtellina, il vino frutto di antico e sapiente lavoro completamente manuale, svolto in piccole vigne terrazzate ricavate su faticosi e arditi pendii. Un pranzo valtellinese sfama, consola, rallegra.

Dopo essermi sfamato, consolato, rallegrato, mi incammino verso Premadio. Una lunga passeggiata in mezzo ai prati, costeggiando il fiume e fumando con calma la pipa, mi permette di arrivare alla chiesetta di San Gallo, dalla storia millenaria. Purtroppo è sempre chiusa, ma da qui si ammira un bel panorama.

In questi pochi giorni dedico anche un’intera mattinata a visitare lo storico Palazzo De Simoni, ora sede del Museo Civico. Tra le tante opere visitabili ammiro, con interesse e piacere, l’ancona di Bartolomeo Paruta (1600) e quella di Malacrida (1400). Un calco di bassorilievo etrusco, recuperato nella chiesa di S. Vitale, è la testimonianza della lunga storia di questa valle. Seguono gli Statuti Civici della Contea e l’interessante biblioteca con importanti e rari volumi del XV secolo, e poi manoscritti, incunaboli e pergamene. Ci sono anche Atti dei processi alle streghe, a partire dal XVII secolo. Processi che finirono tutti in atroci esecuzioni. Per la verità, non credevo fossero così numerosi.

La chiesa-fortezza di Pedenosso

Con l’auto mi dirigo verso la Valdidentro e dopo alcuni chilometri mi fermo al paese di Pedenosso (1435 m.). Qui gli antichi viaggiatori e le merci prendevano la strada per l’Europa attraverso la Via Imperiale d’Alemagna. Anche questo era un importante centro da proteggere e lo testimoniano i resti delle Torri di Fraele che, alle spalle dell’abitato, facevano buona guardia. Questi resti sono di torri medievali ma costruite su antiche fortificazioni di epoca romana.

Alta sulla valle, su uno sperone di roccia, c’è quella che io considero la chiesa più bella di tutta la Valtellina. È la chiesa dei SS. Martino e Urbano, del XIV secolo (ci sono testimonianze del 1334) e rifatta nel 1685. È un raro esempio di chiesa-fortezza e vigilava su tutta la Valdidentro.

Il portone d’ingresso consente l’accesso non alla chiesa ma a un portico che la circonda e solamente da qui è possibile entrare nel luogo sacro attraverso un secondo portale. Il portico, con i suoi archi, serviva a controllare il territorio, avvistare i nemici e respingerli. Anche il campanile è una torre fortificata. All’interno vi sono numerose tele del ‘700, mentre il soffitto a cassettoni è rinascimentale e il confessionale è in stile barocco.

Una costruzione veramente originale. Percorrendo il porticato riesco a spingere lo sguardo su tutta la valle e le sue diramazioni.

Rifugio Branca

Raggiungo Santa Caterina Valfurva e imbocco la strada sterrata che mi porta fino alla Baita del Forno (2300 m.) dove parcheggio l’auto. Sono nel cuore dell’Alta Valtellina, nel Parco Nazionale dello Stelvio.

Prendo il mio fedele zaino e gli scarponi che mi hanno accompagnato durante tutti i mesi del servizio militare negli Alpini e poi in tutte le mie successive avventure sia in Italia che all’estero. Mi avvio sul sentiero che risale il corso del torrente Rosole, tra rocce e prati. È un sentiero agevole, poco ripido, che serve per sgranchirmi le gambe e per godere di un bel panorama. Qualche anno fa ho portato qui un gruppo di cari amici di Molinella e, tra le tante escursioni, abbiamo percorso proprio questo sentiero. Ricordo con piacere quella bella esperienza. Raggiungo abbastanza in fretta il Rifugio Branca, a 2433 m.

È in una posizione bellissima: un balcone con vista mozzafiato sul ghiacciaio del Forno che si staglia, bianchissimo, sullo scuro delle rocce. Il ghiaccio è percorso da crepacci dove, a tratti, assume una colorazione azzurra. Attorno ci sono cime molto belle: il Vioz, il Tresero, il S. Giacomo, il Palon de la Mare. I turisti sono molto pochi, la stagione è quasi terminata. Ben volentieri il gestore mi serve un piatto di polenta con luganeghe e un boccale di vino. Dopo il pranzo mi siedo nello spiazzo che guarda verso il ghiacciaio e lo ammiro a lungo fumando la pipa. Mi rimetto in marcia quando il sole comincia a tingere di rosa il cielo.

Rifugi Pirovano e Livrio, allo Stelvio

Ho voglia di respirare l’aria fine e fresca dei “tremila” e decido di tornare ai rifugi dello Stelvio. Dopo aver guidato lungo la serie infinita e snervante dei tornanti che caratterizzano questa strada, arrivo finalmente al Passo dello Stelvio (2760 m.), parcheggio e prendo la funivia per il Rifugio Pirovano (3050 m.) sulla vedretta Piana, sotto cima Negler.

Mi fermo mezzoretta per far abituare il fisico all’altezza e poi riprendo la funivia e raggiungo il Rifugio Livrio (3174 m.) sullo splendido ghiacciaio del Madaccio.

Ammiro a lungo le cime e le gole ai piedi del monte Livrio e, sullo sfondo, il monte Cristallo con la vedretta dei Vitelli. Prendo un buon the forte e caldo e vado a sedere sul grande terrazzo del rifugio rivolto verso il ghiacciaio.

Ricordo che anche qui ho portato in escursione i miei amici.

Il gestore mi noleggia un paio di ramponi da ghiaccio e i bastoncini da neve. Scendo sul ghiacciaio per una lunga camminata e contemplo un panorama unico: cime di roccia, di neve e di ghiaccio che si estendono oltre l’infinito dell’orizzonte, il manto candido delle vedrette e le varie sfumature di azzurro che caratterizzano i crepacci, che sono numerosi e anche un po’ insidiosi.

Pianto bene i ramponi nella neve e mi incammino verso Cima degli Spiriti (3465 m.) e verso il gruppo di Cima Tuckett. Il tempo è splendido, l’aria è pulita, leggera e frizzante e questa lunga escursione ritempra il fisico e l’anima.

Ma devo rientrare, in questa stagione le giornate sono già più corte e non posso farmi sorprendere dall’oscurità della sera. Dopo la camminata e dopo un doveroso e robusto spuntino sono costretto, a malincuore, a tornare a valle.

Bivacco Dosdè

Mi organizzo per un’ultima escursione. Al mattino presto riempio lo zaino con un cambio di biancheria, un maglione pesante, soliti taccuini e penne che non mancano mai, borraccia, coltellino “mille usi” e sacco a pelo. In piazza ho due impegni. Il primo è alla casetta delle Guide Alpine (che momentaneamente è anche casetta della Forestale) dove mi registro come escursionista diretto al Bivacco Dosdè e avviso che vi trascorrerò la notte. Prendono nota e mi confermano che il bivacco, naturalmente, è sempre aperto e agibile e che le previsioni meteorologiche, per quella zona, sono buone.

La seconda tappa è il negozio di alimentari dove di solito mi approvvigiono. Acquisto pane di segale, formaggio di malga, dadi e pasta da brodo, bustine di the e qualche candela. Unisco una bottiglia di buon Grumello. Infilo il tutto nello zaino e guido fino ad Arnoga (1870 m.) lungo la strada del Foscagno.

Lascio l’auto in un parcheggio e, zaino in spalla, mi incammino sul sentiero che si addentra nella Val Viola.

Seguo il corso del torrente Bormina, che nasce da Cima Dorgull, al confine con la Svizzera, e finisce la sua corsa nel fiume Adda, più a valle. Il sentiero prosegue a mezza costa e sale gradatamente ma senza risultare particolarmente impegnativo, almeno in questo primo tratto. È una bella giornata settembrina e si cammina molto bene. Il cielo è mutevole: a tratti sereno, poi velato, poi decisamente coperto e dopo un poco ricomincia a schiarirsi. Supero Baita Dosso, Baita Campo, Baita Caprena e il gruppo delle Baite Orsa. Un ponticello in legno mi sposta sull’altra parte del torrente e il sentiero mi conduce alla Baita Altumeira (2216 m.). Fino a questo momento ho camminato tra pascoli che ancora conservano il ricordo dei fiori estivi. Ho udito spesso il fischio di allarme delle marmotte e sono riuscito a vederne alcune, ben pasciute e pronte per l’imminente letargo, che hanno scavato la tana tra le fondamenta di vecchie baite abbandonate.

La luce del giorno è calda e luminosa ma ha già assunto la tonalità un po’ malinconica dell’autunno. Sono fortunato perché in certi punti posso vedere dei rododendri ancora fioriti, nonostante la loro stagione sia già terminata.

Da qui in avanti il paesaggio diventa roccioso e il sentiero, sempre più stretto, mi conduce tra cime bellissime, tutte alte oltre i tremila metri. Un paesaggio veramente stupendo.

Proseguo verso l’Alpe Dosdè, con vista sul ghiacciaio. Il sentiero ora è un po’ più impegnativo e cammino tra grossi massi e sfasciume morenico e, qua e là, qualche zona innevata. Passo vicino a Baita Pastore (2368 m.) e da qui posso ammirare la parete nord di Cima Viola (3374 m.) e Cima Saoseo (3265 m.).

Adesso il sentiero, appena accennato, finisce del tutto ma riesco a intuire il percorso che mi porta al Passo Dosdè (2824 m.) tra neve e rocce. Il cielo continua la sua alternanza di sole, velature, nuvole. La vista spazia sulla Val d’Avedo e, più in basso, sul Lago Negro. Contemplo cima Spalmo (3291 m .), Sasso Conca (3150 m.) e parte della Val Cantone. Finalmente sono arrivato al mio Bivacco Dosdè.

Dosdè è un nome che deriva dal latino “domus dei”, “la casa del dio” e si rifà ad antiche e fosche leggende legate a questa vallata. Come in ogni parte del mondo, anche qui in Valtellina la cultura popolare è ricca di entità fantastiche, mitologiche, che abitano ogni villaggio, valle o cima. Era un modo per giustificare la precarietà della vita in tempi duri, cupi, violenti e insicuri. In Valtellina questi personaggi sono soprattutto di tre tipi: i “Maghet”, folletti che amano infastidire i viandanti con scherzi anche pesanti; i “Kar Mort”, che cercano un po’ di vicinanza coi vivi e possono anche aiutarli; i “Konfinat”, anime che non hanno ancora raggiunto la loro destinazione e sono confinate qui in attesa di giustizia, e sono decisamente più inquietanti e pericolosi.

Il Bivacco Dosdè è una piccola casetta in muratura, un unico locale di 3 o 4 metri di lato, è di proprietà del CAI e in gestione alle Guide Alpine di Bormio ed è il posto più isolato, selvaggio e spartano di tutta la Valtellina. È costruito su una pietraia morenica desolata ma la vista spazia su cime, nevai e ghiacciai di grande bellezza. Dentro al bivacco trovo un tavolo, alcune sedie, un fornello a gas, un armadietto con un po’ di stoviglie e alcune brande a castello addossate a una parete. All’esterno, sul retro, c’è l’acqua fresca di una risorgiva.

Qui siamo in alto, esposti, il pomeriggio è ormai inoltrato e la temperatura sta precipitando. Mi infilo il maglione pesante sotto la giacca a vento. Ho camminato con calma ma sono, comunque, quasi cinque ore di marcia per un dislivello di ben mille metri e comincio a sentire un po’ di fame. Nel bivacco, naturalmente, non c’è elettricità e quindi approfitto dell’ultima luce del giorno per prepararmi la cena. Riempio d’acqua una pentola e preparo una calda minestra in brodo e poi vado con pane e formaggio di malga. Naturalmente la bottiglia di Grumello entra subito in funzione. La sera è scesa completamente e accendo un paio di candele che mi aiutano con la loro allegra fiammella.

Dopo cena esco e mi siedo su un masso. Il buio è totale ma una luna un po’ timida cerca di alleggerire questa oscurità: il suo chiarore illumina i ghiacciai e le zone innevate sparse sulle cime e nelle vallette. Ma c’è una bellezza immensa, indescrivibile: l’esplosione di stelle. Sono milioni di puntini tremolanti, che fanno l’occhietto, disseminati sul tappeto di velluto nero del cielo che si perde oltre l’orizzonte.

Sono nel vuoto assoluto e il silenzio è totale: è una notte magica. Seduto sul masso fumo lentamente la pipa e guardo, e ammiro, e rifletto, e mi sento piccolo piccolo in questa vastità. Mi viene spontaneo applicare la tecnica della meditazione che da tempo uso nelle Arti Marziali. Lo sguardo sceglie alcune stelle che tremolano lentamente, vuoto la mente, pacifico il cuore, concentro l’attenzione sulle due stelle e regolo il respiro: inspirazione, espirazione, inspirazione, espirazione, finché il vuoto all’improvviso si riempie dell’energia dell’Universo. Il respiro, la mente, il cuore entrano in sintonia con il ritmo eterno del Cosmo. E una tranquilla serenità e una nuova consapevolezza scendono in me.

Dopo, ricarico la pipa, fumo con calma e trovo difficile staccarmi da questo vuoto pieno di tutto. Rientro nel bivacco, lascio fuori il freddo della notte e mi stendo su una branda, nel caldo del sacco a pelo e spengo le candele.

Il primo chiarore dell’alba arriva presto. Mentre le cime e le valli sono ancora avvolte dal buio, il cielo si incendia di luce e di colori. Poi il sole sale lentamente e restituisce alla natura i colori che la notte aveva rubato: grigio e rosso alle rocce, verde agli alberi e ai prati, bianco alla neve e accende la luce nei ghiacciai. Non è un “altro giorno”, è “il giorno” perché qui, in questo vuoto selvaggio e primordiale, è sempre una nuova ed eterna Creazione.

Quando finalmente il sole si è arrampicato in cielo ed ha iniziato il suo lavoro, anch’io mi dedico al mio. Mi preparo un buon the caldo, forte e amaro, che sorseggio mangiando pane di segale e formaggio, pulisco e sistemo il bivacco e chiudo la porta.

Carico in spalla il mio zaino e la mia vita, un ultimo sguardo al magnifico panorama e mi rimetto in marcia.

Ho messo ordine nei miei pensieri, ho preso le decisioni giuste per il mio futuro ed ora la marcia mi sembra più lieve. Cammino lentamente, gustandomi ogni momento di questo percorso.

Cammino su neve, rocce, sassi e quando arrivo nei prati risento il fischio delle marmotte.

Ma non è più un fischio di allerta, di allarme, mi sembra piuttosto un saluto festoso e amichevole, quasi un “arrivederci”.

Recupero l’auto ad Arnoga, arrivo a Bormio e mi presento alla sede delle Guide Alpine dove comunico il mio rientro, ringrazio e lascio un contributo per l’ospitalità. Vista l’ora mi concedo una cena valtellinese, nella mia osteria del centro. Il giorno dopo approfitto della giornata soleggiata e mi incammino verso la Cresta di Reit, che domina Bormio e offre una bellissima vista panoramica sul paese e su tutte le vallate circostanti. Un’ultima e breve camminata nella Contea su sentieri rocciosi. Da qui si vede anche il San Colombano, il monte a sud ovest di Bormio. Colombano e Gallo sono i monaci eremiti che nel 600 lasciarono l’Irlanda e, dopo aver solcato le onde tempestose dell’Oceano, vennero a portare la fede in tutto il nord Europa. Sono numerose le chiese a loro dedicate, qui e in Svizzera.

A mezza costa della Reit vi sono i ruderi del Castello di San Pietro, una estesa zona fortificata risalente al 1200 e distrutta attorno al 1350 dalle truppe dei Visconti. Restano solamente alcuni mozziconi delle torri, ormai visitate solamente dal freddo vento del nord.

Ridiscendo e passeggio ancora un poco per il corso principale e saluto il paese.

Poi riconsegno la camera e riparto definitivamente per la Padania.

Non so quando potrò tornare ma sono sicuro che lo farò, anzi “lo faremo”, in due, anche se solo come turisti.

Alta Valtellina, settembre 1976