Come statue di terracotta

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Sono steso sulla spiaggia e finalmente posso riposarmi un poco.

Chiudo gli occhi e mi rilasso, mentre tra le dita lascio scorrere granelli di sabbia finissima, quasi fossi una clessidra, e ascolto il leggero sciabordio dell’acqua che accarezza la riva. Anche i miei compagni si riposano in silenzio, in un buio denso, totale. Qui il buio non è normale, è una sensazione tangibile, una coperta che ti avvolge e che può anche suscitare timore.

Siamo sulla riva di un piccolo lago, a 600 metri sottoterra, nel ventre del Monte Corchia, nelle Alpi Apuane.

Siamo in otto, una piccola pattuglia di esploratori del Gruppo Speleologico Bolognese del CAI. Il nome esatto di questo posto è “Antro del Corchia”, e non è per nulla agevole da esplorare.

Per poter entrare abbiamo camminato su un sentiero di montagna fin quasi a 1100 metri di altezza, fino a un piccolo antro seminascosto dalla vegetazione. È chiamato “buca del serpente” perché per entrare si deve strisciare come una serpe.

È l’ingresso ufficiale: benvenuti nelle tenebre!

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Una volta entrati inizia il lavoro duro. Dopo pochi metri si incrocia subito un primo ostacolo: un pozzo poco largo ma profondo una quarantina di metri, che dobbiamo scendere utilizzando le corde da alpinismo. Ci vuole tempo e calma perché lo affrontiamo scendendo uno alla volta, calandoci lentamente con una fune, mentre un compagno garantisce la tenuta di una seconda corda di sicurezza. Un percorso lungo molti chilometri, complicato, per nulla agevole: un continuo susseguirsi di profondi crepacci, anche questi da scendere con le corde; ampi corridoi dal fondo accidentato, dove è necessario aggirare macigni di ogni dimensione; troviamo immensi saloni, vere e proprie cattedrali di roccia, ma che possiamo raggiungere solamente dopo aver strisciato per terra in lunghi e strettissimi cunicoli. 

Il paesaggio è un ambiente carsico di grande suggestione, un alternarsi di poderose rocce, di profondi canyon, di gentili e delicate stalattiti e stalagmiti di varie misure e tonalità di colore. Ci sono sale con stalattiti enormi, altre con il soffitto completamente pieno di stalattiti sottilissime, fini come spaghetti. E poi colonne di roccia, archi, volte. Un ambiente che suscita profondo rispetto per le forze ancestrali della natura che si intuiscono continuamente all’opera. Un microcosmo particolare, scavato dall’acqua in milioni di anni e dove l’acqua ancora è al lavoro limando e ricamando con pazienza e incessantemente le rocce, con torrentelli, con cascate che è necessario superare appiattendoci contro le pareti e strisciando tra la montagna e il getto d’acqua cercando di non infradiciarci, e questo piccolo laghetto dove siamo approdati e dove ci siamo spiaggiati per un po’ di riposo.

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Abbiamo tutti spento le fiammelle sul casco per risparmiare acetilene e ognuno è immerso in proprie riflessioni.  Qui il silenzio è totale, primordiale, richiede rispetto. Anche noi siamo abituati a parlare con toni sommessi e cerchiamo di muoverci cautamente, quasi in punta di piedi. Non sono gesti voluti, sono spontanei come quando si entra in chiesa. Queste grotte, in effetti, sono il sancta sanctorum dove dimora e riposa Gea, la dea primordiale che, secondo la mitologia greca, rappresenta la potenza divina e creatrice della Terra. 

Nel silenzio medito e non posso non pensare che questa è la mia ultima spedizione.

Devo abbandonare l’attività speleologica per tanti motivi: dedicare più tempo al lavoro, che è sempre più impegnativo anche per i soventi viaggi sia in Italia che all’estero. Dedicare più tempo ed energie all’altra mia passione: le Arti Marziali, perché sono in una fase avanzata di allenamento e sto per concludere il passaggio al grado di Cintura Nera e sono necessarie più dedizione e costanza. Dedicare più attenzione agli affetti: le persone che mi vogliono bene ritengono che questa attività sia troppo pericolosa, forse non a torto, e non posso non tenerne conto. Poi, da un po’ di tempo, quando mi trovo a scendere in un pozzo profondo o in un crepaccio, aggrappato a una corda a trenta metri da terra e guardando in alto vedo solo il buio, guardando in basso vedo solo il buio, mi guardo attorno e scorgo solo nuda roccia illuminata dall’esile fiammella accesa sul mio casco, ebbene a volte mi chiedo “ma cosa ci faccio qui?”. Questo è preoccupante e forse è meglio abbandonare.

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Mi sono avvicinato alla speleologia cinque anni fa, assieme ad alcuni amici del gruppo di Molinella. Abbiamo cominciato quasi per passatempo, esplorando la Grotta del Farneto con semplici pile elettriche.

Esploratori della domenica, Giovani Marmotte in cerca di avventure. Dopo poco loro hanno abbandonato, io invece sono rimasto interessato a questo nuovo mondo faticoso e oscuro. Mi sono iscritto al gruppo speleologico del CAI e ho iniziato una serie di lezioni teoriche e tante uscite pratiche, di addestramento. Le prime volte in superficie, calandoci con le corde dal ponte di Sasso Marconi fin sul greto del fiume Reno. Poi imprese sempre più intense e coinvolgenti in grotta.

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Da anni pratico l’alpinismo e capisco le emozioni che prova un’aquila a sorvolare la bellezza di cime e ghiacciai. Da anni pratico nuoto subacqueo e capisco l’emozione che può provare un pesciolino quando scivola su fondali coloratissimi. Non potevo non scoprire le sensazioni che prova un ramarro quando si infratta sottoterra.

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Con questa squadra ho esplorato quasi tutto il complesso ipogeo del bolognese, nella zona tra la Croara e Ponticella: di nuovo la grotta del Farneto, con le sue antichissime tracce antropologiche, poi la grotta della Spipola, il Buco dei Buoi, l’inghiottitoio dell’Acqua Fredda, solo per citarne alcune. E spedizioni anche fuori regione, come questa del Monte Corchia, che più volte abbiamo esplorato.

Un’attività complessa: si è trattato di misurare tutti i cunicoli, le deviazioni, i pozzi, i crepacci, le sale, con metri a nastro, goniometri, bussole e altimetri. Tutti i dati sono stati inviati a Firenze, all’Istituto Geografico Militare, per la catalogazione e la mappatura ufficiale.

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Ed eccomi ancora qui, sottoterra. Un luogo che può suscitare ricordi e paure primordiali, ma che è anche il luogo giusto per riflettere e meditare, per scendere nel sottoterra del nostro Io, nei sotterranei del nostro animo e cercare di capire chi siamo veramente noi. Alla fine è un viaggio alla scoperta di se stessi.

Uno dei problemi della speleologia è il concetto di “tempo”. In superficie la variazione della luce del giorno ci segnala il trascorrere del tempo, lo sgocciolare delle ore lungo l’arco della giornata. Sottoterra questo segnale non c’è e quindi non esiste il tempo, forse non si invecchia nemmeno, ma si corre il rischio di lavorare un giorno intero credendo di aver trascorso solo qualche ora. Un altro problema è l’alimentazione: non possiamo portare zaini pieni di alimenti, perché siamo sempre impegnati a salire e scendere con corde o a strisciare in spazi angusti. Si impara ad essere “essenziali” e ci si sostiene con qualche manciata di frutta secca e tavolette di cioccolata tenute ben al riparo dall’altissima umidità presente in grotta.

Bene, il tempo del riposo e delle riflessioni è finito: è ora di ripartire.

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Con l’acqua del lago riempiamo le bombolette d’acciaio che portiamo appese al cinturone. Acqua preziosa, che cadendo goccia a goccia sui sassi di carburo di calcio sviluppa acetilene, il gas che un tubicino convoglia sul casco e ci consente di avere una bellissima e vitale luce.

Naturalmente la fase di rientro non è indolore. Bisogna marciare e strisciare a lungo per ripercorrere corridoi, cunicoli, e risalire con le corde i tanti pozzi e i crepacci. Si è già stanchi per tutto il lavoro svolto e la strada del ritorno è tutta in salita.

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Un’attività impegnativa sia fisicamente che psicologicamente e da svolgere sempre con la massima attenzione. Ognuno di noi sa cosa fare e come farlo e sa che un errore o la leggerezza di un momento può mettere in pericolo l’intera squadra. Qui è sempre valido il motto dei Moschettieri: “uno per tutti, tutti per uno”.

Dopo lunghe e faticose ore, dopo aver lavorato tutta la notte e buona parte del mattino, finalmente siamo fuori, abbandoniamo il regno di Plutone e Proserpina e, come mi succede tutte le volte, ricordo i versi del Poeta: “… e quindi uscimmo a riveder le stelle”.

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Il ritorno nel Tempo ci ricorda che è da un bel po’ che non mettiamo qualche cosa di sostanzioso sotto i denti.

Dopo aver ridisceso il lungo sentiero e stivato l’attrezzatura nel bagagliaio delle auto, ci precipitiamo nell’osteria più vicina.

Al gentile oste chiediamo vino e panini col prosciutto. Ci guarda un po’ perplesso e poi, imbarazzato, ci dice: “Vi consiglio panini con la mortadella, costano meno”. Questo ci fa capire che siamo proprio messi male! Chissà per chi ci ha preso!

È vero, siamo gente rude delle rocce, ma con un animo sensibile verso la natura e riusciamo a commuoverci guardando le tinte pastello di un tramonto. Ma capisco, conciati in questo modo sembriamo solamente un branco di troll sfuggiti al controllo della foresta. Sorridiamo e accettiamo il suo consiglio, l’importante è poter mangiare qualcosa. Ci sediamo in cerchio sul prato e divoriamo i robusti panini e intanto facciamo girare il fiasco di vino e il pacchetto di sigarette.

E poi ci sdraiamo sull’erba al luminoso Sole, amico Sole, splendido Sole che ci riscalda, ci asciuga, ci abbraccia, fa seccare il fango sui capelli, sulla tuta mimetica, sugli stivali, sul viso e ci sta trasformando in bellissime statue di terracotta.

Siamo stanchi, siamo sereni, siamo in pace con noi stessi e con il mondo, siamo giovani con un’unica, piccola, certezza: siamo immortali!

Attività speleologica, 1976

Come statue di terracottaultima modifica: 2020-05-23T19:32:12+02:00da Francesco.saldi