Kevin e gli altri

Non è facile raccapezzarsi tra le isobare di un dolore, nemmeno quando se ne è parlato rendicontando i dettagli. Se a questo si aggiunge che l’esercizio alla comprensione è soggetto a usura e che della perduta pazienza potrei farne una geremiade, nessuno potrà biasimarmi se vado per le spicce.

Senza neppure approfondire, ho ceduto all’ovvio e concluso che se un attore come Kevin Spacey accetta il ruolo di protagonista di un film sceneggiato da Eva Henger e prodotto dal di lei marito, ciò significa che ha rinegoziato al ribasso la reputazione da Oscar. Va da sé che non vedrò The Contract, e di Spacey terrò il perfido Frank Underwood di House of Cards e soprattutto il Lester ossessionato dalla giovinezza in American Beauty. Quel Lester che nel finale, con voce fuori campo, dice: “L’ultimo istante è lungo. Forse capirete cosa vuol dire”. Ecco, forse un giorno capirò la durata infinitesimale dell’istante fatale. O forse no, giacché non a tutti è concesso di riassumersi un’ultima volta. Ma prima di allora mi premerebbe capire, senza più sbattimenti, il perché di certe storture mentali. Umane, certo. E tuttavia imperdonabili.

Antonio Donghi, Il giocoliere, 1936.jpg

Antonio Donghi, Il giocoliere

Enjoy the Silence

Investigare il silenzio è la missione che si è data Nicoletta Polla-Mattiot:

«Il silenzio è stato spesso associato al ritiro spirituale o alla vacanza. Anni fa feci una ricerca statistica e sulle brochure turistiche la seconda parola più usata dopo “paradiso” era proprio “silenzio”. Ma quando è scelto e non imposto, diventa uno strumento che serve per comunicare, che valorizza la dimensione dialogica e l’ascolto. E che dà valore alle parole».

Già, il silenzio. La forma più bistrattata di comunicazione. Eppure qualcosa sta cambiando. Perlomeno sui social dove le silent reviews sono diventate il trend dell’anno. Speriamo non si tratti soltanto di un’alternativa furba alla sconsiderata sovrabbondanza di parole perché, qualora il cambiamento di rotta dovesse consolidarsi in un inedito minimalismo dialettico, esulterei di sollievo. Saper tacere misura chi siamo. E io sui silenzi ho costruito una reputazione.

Nella stanza del silenzio - Josway

La camera anecoica dell’Università di Ferrara. Lì il silenzio è di casa.

Tempus tacendi

Giovanni Raboni - Wikipedia

Questa è la mia dichiarazione d’amore nei confronti di un poeta del quale non avrei mai conosciuto la cifra se prima non lo avessi apprezzato come traduttore di Proust. Nel caso della poesia che segue, perlomeno in chiusura, Giovanni Raboni pare rivolgersi ai saturnini che trascorrono gran parte della vita in mestizia, quasi ignorassero l’esistenza di quell’orizzonte la cui linea, se sgombra da afflati poetici, si verbalizza in due sillabe: mor-te. Ma senza menare il can per l’aia, è lo Zingaro di Giacopini a restituire da par suo quel lampo empireo di luce: “La vita è sogno, ma concretamente, mica come dice il poeta. Oggi, non ieri. Ora e soltanto adesso, e mai così in passato, semplicemente. Le cose svaporano, i rapporti, i corpi, le voci: tutto svanisce. Stuff of dreams, ma stavolta sul serio, e fuor di metafora.”

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Tempus tacendi

Nessuno, credo, potrebbe seriamente mettere in dubbio l’importanza – l’importanza decisiva rispetto all’intero – delle ultime pagine di un romanzo, delle ultime battute di una sinfonia, degli ultimi minuti di una partita di calcio.

 

Tempus tacendi — una fitta quasi insostenibile di felicità al pensiero che un giorno o l’altro potrei davvero leggere Dickens e Tolstoj, andare al cinema di pomeriggio, ascoltare i quartetti di Beethoven e i Lieder di Schubert senza doverne rendere conto a nessuno.

Pensare all’anima – non per salvarla: per goderne.

 

È impossibile guardare il tempo senza vedere la morte, così come è impossibile guardare il mare senza vedere l’orizzonte. Uno, per non vederla, dovrebbe passare tutta la vita di profilo come l’one eyed jack, il povero fante monocolo delle carte da gioco. E il bello è che anche la morte, come l’orizzonte, è sempre alla stessa distanza.

Giovanni Raboni