I racconti dell’ombrellone

Wyatt Holding Polaroid in Front of Face, Orange County Airport, NY, 1998 by Rodney Smith | ArtCloud

In genere mi accompagno a prose dalle sintassi articolate, ma certi svolazzi, per sublimi che siano, non s’addicono ai pomeriggi agostani. Per cui, sfidando i miei stessi pregiudizi, mi sono portata in spiaggia delle pagine leggère. Che tali non si sono rivelate se non per la levità del narrare, restituito con esattezza filmica e desiderante. Una breve storia d’amore che il presente smonta, rimonta e coagula, prima di trasformare il vincolo in due rette parallele.

Quello che segue è tratto da un racconto di Riccardo D’aquila:

Albert si sorprese a scendere le scale di corsa. Non è che stesse davvero correndo. No, semplicemente notò che le infradito andavano veloci sugli scalini di cemento, che l’asciugamano piegato sul braccio ondeggiava leggermente e che gli occhiali da vista gli saltellavano sul naso. Si fermò, allora, chiedendosi il perché di quell’improvvisa fretta. La risposta arrivò insieme a un forte senso di imbarazzo. Era chiaro, si disse, e si sentì uno stupido […] La vasca della Spa rifletteva le luci soffuse della stanza nel suo tipico schema a vene incrociate […] Dal lato opposto a quello dov’era lui, una figura emerse poggiando le mani sul bordo di ferro, tirandosi su sulle braccia. I capelli neri le aderivano lungo la schiena e formarono un’onda perfetta […] Albert studiò il modo in cui la luce le toccava il viso, come formava quell’ombra leggera sotto il labbro inferiore e come faceva apparire quegli occhi neri ancora più neri. Era tutta stretta nel costume intero, ma le sue forme non erano così importanti. No, non in quel senso […] Eccolo, il motivo della corsa, si disse senza meravigliarsi. E si sentì di nuovo in imbarazzo, perché, pensò, si corre quando si è in ritardo a un appuntamento. Ma il loro non lo era. Lui aveva solo capito a che ora prenotare la Spa per vederla, per restare solo con lei in quella piccola area relax per due persone, punto. Quello che faceva non era altro che guardare qualcuno dal buco dei propri occhi, cercando di imprimere la sua immagine nel cervello. Quello non era un appuntamento, affatto. Come si chiamava, allora? Lavoro, si disse. Una volta, almeno. […] Però quel giorno non fu uguale agli altri.

«Posso?» disse una voce, dietro l’articolo che stava leggendo. Albert abbassò il giornale. Era lei. Sorrideva e indicava la sdraio accanto alla sua.

«Prego» rispose lui, tirandosi un po’ su.

Passarono un paio di secondi durante i quali entrambi restarono in silenzio. Lui seduto, lei anche, ma di lato.

«Lo sa», disse lei, «che è maleducato fissare?».

Albert abbassò leggermente il giornale, guardandola dietro le lenti.

«Sì, lo so. Chiedo scusa», rispose con un sorriso.

L’uomo tornò con gli occhi sul giornale e la ragazza rimase a fissare il ciuffo di capelli neri e grigi che gli usciva dal cappello.

Passò un intero minuto. Nessuno dei due parlò.

«È in vacanza?», fece lei.

Albert, questa volta, ripiegò il giornale.

«Sì. E lei?», rispose

«Sono in pausa, diciamo».

Albert si levò il cappello e iniziò a farsi aria sventolandolo.

«In pausa da cosa?», chiese.

«Dal lavoro. Sono una hostess. Sono atterrata l’altro ieri, aspetto il prossimo volo. E mentre aspetto…».

L’uomo annuì, grattandosi il petto sotto l’accappatoio.

«Dev’essere bello. Andare da un posto all’altro, intendo», disse lui.

«Non all’inizio. Poi ci si abitua».

Si guardarono. Gli occhi di lei neri come il marmo.

Albert sentì uno strano calore al viso.

«Odio gli aerei», fece.

«Non le piace volare?», chiese lei.

«Per niente».

«E come è venuto qui?»

«Con lo Xanax», rispose lui, sorridendole ancora.

La ragazza rise e lui la odiò, perché aveva una bella risata. Ma lei continuava a ridere e lui a sventolare. Poi solo il silenzio e qualche sguardo.

«Mi sta di nuovo fissando», fece lei.

«Mi dispiace».

Lei infilò una ciocca umida dietro l’orecchio.

«Parla molto bene l’italiano», disse.

«Grazie».

«Viene spesso in Italia?»

«A Milano, sì. Mia madre era di qui, ma ho vissuto per tutta la vita in America, che è dove è nato mio padre. E dov’è morto, anche».

«America dove?», fece lei, incuriosita.

«Chicago».

«Mai stata».

«Non si perde granché».

«Dice?».

«Dico. Altrimenti perché un americano dovrebbe imparare l’italiano?».

Lei rise poi tornò piuttosto seria.

«Perché lo fa?», gli chiese.

«Per comunicare».

«No, non quello».

«E che cosa?»

«Fissare».

Fece una pausa poi le rispose.

«Deformazione professionale, credo».

Anche la ragazza si fermò a riflettere.

«È un investigatore?», domandò lei, curiosa.

Lui rise.

«No, Ero un fotografo», disse.

L’altra incrociò le gambe.

«Era?»

«Ero, sì».

«È in pensione?»

«Cristo, sembro così vecchio?»

«No, no. Solo…cosa vuol dire che lo era?»

«Che non lo faccio più».

«E cosa fa, adesso?»

«Sono in vacanza».

«Pensa di trasferirsi in Italia?»

«L’ho già fatto».

«E dove?».

«Qui»

«A Milano?»

«No, qui».

«All’hotel Straf?»

«È bello, no? Dal balconcino vedo il Duomo».

«Vuole vivere in albergo?»

«Finché posso permettermelo, vostro onore».

Albert le sorrise.

«Mi scusi, non volevo essere invadente», gli fece.

«Sono io quello che fissa, non deve sentirsi in difetto».

L’idromassaggio della vasca si spense e con quello il ronzio di sottofondo. La musica rilassante era tutto ciò che sentivano.

«Mi chiamo Laura, comunque».

«Albert», fece lui.

L’uomo le staccò gli occhi di dosso e lei fissò il pavimento bagnato. Lui lo sapeva cosa doveva venire dopo e forse anche lei. Ma Albert restò fermo. Questo, pensò, assomiglia molto di più a qualcosa per cui poter correre. Ma presentarsi non è niente. La gente si presenta tutti i giorni. La gente si presenta anche quando non deve. La gente… […]

Era ormai notte quando la stava fissando, nuda, in piedi di fianco al letto, circondata dalla parete grigia in cemento, che guardava delle polaroid sulla scrivania in legno nero.

«Sono molto belle, queste», disse lei.

«Grazie. Sono un po’ vecchie», rispose lui, allungato sul letto al centro della stanza, con le ginocchia sollevate.

«Albert?», gli chiese.

«Dimmi».

«Perché hai smesso?»

[…]

«L’ho fatto per una vita. Scattare. Scattavo tutti i giorni, tutto il tempo. Paesaggi, all’inizio, poi donne. […] Ma qualche anno fa…non serve a niente, mi sono detto. Un giorno l’ho pensato e non ho potuto più smettere di pensarlo […] Così ho venduto tutto. Anche casa mia. La mia attrezzatura. Tutto quanto. Adesso cerco…di vivere le cose, davvero. Non so, ci sto provando». […]

Tacquero. Laura si allungò vicino a lui. Albert notò che era cupa. Lo vedeva dagli occhi.

«Vuoi scattarmi una foto?», disse, senza guardarlo.

«Non ce n’è bisogno».

«E invece sì».

«Che vuoi dire?»

La ragazza si girò verso di lui.

«Il mio volo… è domattina», disse.

Albert restò immobile. Un sorriso nervoso gli scavò il viso e si fissò i piedi immersi nelle lenzuola.

«Vuoi ricordarti di me, Al?», chiese lei.

«Sì. Io…sì», fece lui.

«Allora fammi una fotografia».

Albert le prese il mento.

«E tu?»

«Io?»

«Tu vuoi ricordarti di me?»

«Sì», gli disse.

Lui rotolò su se stesso e tese il braccio verso la scrivania che faceva da testata del letto. Aprì un cassetto e ne tirò fuori una scatola nera. Ci soffiò sopra e guardò dentro uno dei due buchi. Con l’indice premette appena il pulsante rosso.

«La cartuccia è ancora carica».

«Sì?»

«Sì, anche se non la uso da un po’».

«Come vuoi farla?», chiese lei.

Albert ci pensò su.

«Tu ne fai una a me e io ne faccio una a te. Ma non le guardiamo. Ci metteranno un po’ a svilupparsi. Le prendiamo e basta. Le guarderemo solo quando…».

«Quando saremo lontani», finì lei.

«Brava. Ci stai?»

Laura non era più cupa. Puntò gli occhi su di lui, il petto colorato appena di grigio, al centro, e la macchina stretta nelle mani grandi. Fissò l’obiettivo e sorrise. Anche se era triste.

Il bacio in Stazione Centrale durò poco. Dopotutto, si baciavano da meno di ventiquattr’ore e le bocche non avevano avuto il tempo di abituarsi l’una all’altra. Non si dissero granché, perché nessuno dei due sapeva bene cosa dire. Loro, come le bocche, si conoscevano da poco. Albert la salutò con la mano quando lei salì sull’autobus per Malpensa e Laura, di rimando, provò a sorridergli, nella sua divisa verde. Il giorno precedente era stato una parentesi, un breve inciso fatto di poche parole, ma calibrate, intense, impresse a fuoco.

Si guardarono finché fu possibile, finché lui riusciva a vedere la luce che la colpiva e lei a notare il cappello bianco in mezzo alla folla. Poi, in un momento, entrambi si persero. Ed era finita.

Albert passeggiò fino al parcheggio, dove lo aspettava il taxi che li aveva accompagnati […] Nella hall si lasciò cadere sul grande divano verde petrolio. Adesso poteva vedere la foto. Era il momento.

Il caso volle che la estrasse al contrario. Vide la scritta “Laura” fatta da lei, con un cuore vicino. Sorrise. Contò fino a tre. La girò.

Il cuore gli bloccò il respiro.

Bianco. Il bianco era l’unica cosa che vedeva. C’era qualche striatura grigia, sì, ma la polaroid era praticamente quasi solo bianca. Il cervello cominciò a camminargli alla velocità della luce. La batteria della cartuccia era carica, sì, ma era lì da tanto tempo. Gli acidi, certo, potevano essere scaduti, nel frattempo. Era un errore banale, da principiante. Un errore che non avrebbe mai commesso prima, quando…

Gli tornarono in mente le parole di Laura. Lui aveva tradito la fotografia. E ora lei aveva tradito lui. Non avrebbe mai più rivisto Laura. E, con la sua immagine, sarebbe svanito tutto il resto. Col tempo avrebbe dimenticato i suoi occhi neri, i suoi capelli e l’ombra sotto il labbro. La sua voce e la sua risata si sarebbero confuse con quelle di tutti gli altri. Il suo profumo sarebbe diventato l’ennesima fragranza che si nasconde nel retro del cervello e torna fuori solo quando la si percepisce di nuovo. Ma lui non l’avrebbe mai più percepita. Quante altre Laura avrebbe conosciuto? E quanti altri Albert l’avrebbero sentita ridere? Anche la sua foto era bianca, lì, da qualche parte nel cielo, sopra un aereo. Erano entrambe bianche. Come la luce che li aveva fregati, rifiutando di imprimersi sulla pellicola.

Pensò questo. Ma pensò anche altro.

Una volta scattava per vivere. E per vivere aveva smesso di scattare. Non poteva non aver imparato niente dal suo divorzio con l’arte. Anzi, questa era la prova, il suo esame finale.

Salì in camera e si affacciò dal balcone, godendosi il Duomo. Chiuse gli occhi e restò in attesa. Si sentì di nuovo come il giorno prima, abbandonato, ma felice, senza nessun motivo in particolare. Aprì gli occhi e lei non c’era. Non lì. Ma da qualche parte poteva sentirla. La polaroid, allora, gli sembrò solo un pezzo di carta. La fece a pezzi e la buttò al vento. Solo una cosa era certa. Non avrebbe più corso per raggiungere la Spa.

Life’s gonna do what it does