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Come cade la luce a San Francisco

Uno dei momenti più magici di tutto il mio viaggio è stato quello del mio incontro con la luce e l’architettura della città di San Francisco.
Quando sono uscito dalla stazione degli autobus, appena arrivato nella città per la prima volta, mi sono accorto subito di questa luce, di questi spazi, e ho avuto la conferma dentro di me, che quello era il posto giusto dove dovevo rimanere.
Non so spiegare il mistero dell’intensità di questa luce, che dona a tutte le cose un colore, una prospettiva, delle ombre che non ho mai visto da nessuna altra parte.
Non è poi vero ciò che a volte si dice di San Francisco, e cioè che è una città prevalentemente piovosa: C’è un periodo, durante l’anno, in cui le piogge la fanno da padrone, ma a parte questi 2/3 mesi, secondo me è la luce, è il sole a prevalere.
A volte, guardando verso l’infinito fotografico, “il lontano” per i nostri occhi, qui sembra che la luce sia come una sottilissima farina che si va tanto più aggregando e concentrando, quanto più le cose sono vicine a noi.
Un altro fenomeno riguarda invece le nuvole
Ora, dato che la Baia è naturalmente solcata, più o meno costantemente, dai venti, spesso ci sono grandi gruppi di nuvole che qui se ne vanno a spasso, molto più velocemente di quanto io non abbia mai visto fare ad altre nuvole, in altre città del mondo..
Tutto questo non ha niente di scientifico – non vuole essere scientifico, ed è anzi frutto forse della mia passione per questa città, che come capita con l’amore per una persona, per un animale, per una cosa, ci fa vedere ciò che vogliamo e ce le fa vedere più belle.
Ma aspetto sempre che qualcuno mi venga a dire: “ti sbagli, San Francisco è invece…”.
D’altra parte c’è un mezzo per misurare la velocità di spostamento o la grandezza di una nuvola?
Ce n’è uno che sappia valutare la bellezza dei colori di un luogo?
E se ci fosse, ce ne importerebbe qualcosa?
Felici osservazioni, della natura e del creato a tutti.

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Jesus is dark

Un’altra volta in cui ho rischiato qualcosa, è stata la seguente.
La differenza con le altre, è che qui ero maggiormente consapevole di ciò che stavo facendo.
In una area commerciale e centrale di Baltimora si stava svolgendo una specie di comizio, ad opera di un nutrito gruppetto di confratelli di colore, i quali andavano professando al pubblico le loro verità teologiche.
Immancabilmente, con un bel microfono, farfugliavano cose del tipo: “Jesus is dark”, le 12 tribù d’Israele che hanno portato il dissidio sulla terra, e via discorrendo.
Nel frattempo, un altro gruppetto di persone gli gridava contro: tra cui una anziana signora di colore, che contestava animatamente le verità dei confratelli, sostenendo, come si può vedere in foto, le tesi della Bibbia nelle sue mani.
La cosa che ho trovato molto democratica, in tutta questa scenetta, è stata la concreta possibilità di inveirsi contro, con tutta la propria rabbia, senza per questo doversi per forza mettere le mani addosso..
Mentre accadeva tutto ciò, mi ha avvicinato una vecchietta gentile, minuta, la quale, con un gesto veloce m’ha infilato in tasca un libercolo di genere religioso.
Quando l’ho preso in mano, gettando un occhio al testo, dalla lettura fugace ho capito il senso del gesto: “figliolo, salvati l’anima da questi pazzi invasati!”
Dunque mi sono risoluto a scattare per immortalare la scena, rischiando che il confratellone in foto mi confiscasse la macchina fotografica e qualche organo vitale….

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L’avventura della casa di Edgar Allan Poe

Una delle numerose volte in cui ho rischiato, per lo più incoscientemente, per la mia incolumità è stato il giorno in cui sono andato a piedi, a visitare la casa di Edgar Allan Poe, a Baltimora.
La casa si trova nel bel mezzo di un malfamato quartiere di colore della città.
Si tratta di una specie di casetta dei fantasmi, tutta fatta in legno, al centro di questo ghetto, costruito invece di case di mattoni.
Dunque, armato della mia borsa fotografica, ho attraversato la zona, ignaro, seguendo semplicemente le indicazioni della mappa.
Quando sono giunto alla casa di Poe, che è davvero inconfondibile, ho incontrato una bella poliziottona di colore, la quale mi ha guardato stupita.
L’ ho salutata cordialmente e le ho chiesto: “Do you believe it’s dangerous to go through the neighborough, walking?”, e lei m’ha risposto: “I don’t believe: I know it’s dangerous! ”
M’ha consigliato dunque di fare un altro percorso al ritorno.
Quando ne sono uscito, ho realizzato in un momento solo tutta la mia paura ed il senso di quegli sguardi dietro i vetri delle case, che mi avevano seguito all’andata.

ghetto baltimora
Così, forse come trofeo, forse come ricordo, ho fatto qualche timido scatto da lontano al quartiere..

La casa di Poe, che da anni è diventato un piccolo museo, è davvero opprimente: è così piccola e angusta, che per salire le scale ci si deve chinare.
La cosa più impressionante è la stanza dove pare lui scrivesse, in cima alla casa: a me ha fatto pensare ad una specie di gogna, per quanto sia stretta e scomoda, al punto che non ci si riesce a stare all’inpiedi.
Dalle illustrazioni che sono sui muri, si capisce come Poe vivesse circondato da fantasmi e demoni che lo accompagnavano, ora verso una nuova creazione, ora verso un incubo.

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Cosa ci sono venuto a fare a Los Angeles..

A Los Angeles ci sono arrivato una notte dei primi di agosto, era il ’97, con il solito Greyhound.
Quando sono uscito dalla stazione, guardandomi attorno, ho realizzato che mi trovavo nel bel mezzo del downtown di una delle più pericolose città del mondo, attorno alle ore ventitre..
Pochi passi dopo, ho letteralmente abbordato un tizio di colore: mi ha detto che era un autista, e gli ho chiesto di scortarmi-per piacere! fino alla prossima stazione dell’autobus urbano, che mi avrebbe portato fino all’ ostello.
L’uomo è stato gentile e mi ha accompagnato.
Camminando mi ha voluto però precisare: “amico, sono 20 anni che vivo a Los Angeles, quindi se mi metto a correre, tu corri appresso a me. Ok?”
Alla fermata ci siamo salutati ed è iniziata una tormentata attesa, visto il senso d’insicurezza che sentivo chiaramente gravitare nell’aria.
Dopo il passaggio veloce di un gruppetto di giovani “chicanos” ubriachi, è arrivato il peggiore incubo che una persona in attesa, su una banchina d’autobus di Los Angeles possa attendersi, a notte inoltrata.. è comparso dal nulla un uomo enorme, di colore, sui due metri di altezza, con grandi muscoli, numerosi tatuaggi, e senza maglietta!
Ha chiesto prima i suoi “spare changes” ad una vecchietta sui 90, la quale, data l’età, probabilmente, s’è potuta permettere di ignorarlo, poi si è rivolto a me, dopo averle gentilmente dato del “mother fucker!”.
In quel momento ho avuto una saggia intuizione, da vero grande viaggiatore (mi son detto da solo, molto più tardi): sono stato infatti particolarmente gentile e disponibile con l’uomo.
Cosa facile a dirsi, ma non a farsi, specialmente quando ti senti terrorizzato, in fondo al cuore.
Di norma e regola, la media della gente bianca, credo che tratti con indifferenza quella di colore che bazzica le strade, dunque, l’uomo deve essere rimasto colpito dal mio comportamento: questa è l’unica spiegazione che mi sono dato.
Infatti, visto come l’avevo accettato, s’è messo a raccontarmi di sé, in uno slang di cui capivo ben poco.
Fin quando, finalmente non è arrivato l’autobus, momento in cui l’ho salutato e lui, poco prima che salissi a bordo, mi ha voluto confessare, insistendo un po’ nel trattenermi la mano: “sai, stasera ero uscito di casa con l’intenzione di fare fuori qualcuno: sono contento d’avere incontrato te!”
Anch’io, gli ho detto, anch’io..

Un altro giorno sono arrivato fino a “Venice beach”, e camminando mi sono imbattuto nei famosi “bay-watch”, ma la mia esperienza di questi (diciamocelo) “bagnini” non è stata proprio delle migliori: il bagnino che ho tentato di fotografare io, infatti, a momenti me le dava e soltanto per il fatto che gli ho rivolto contro la mia macchina fotografica: ho provato ingenuamente a fargli qualche scatto.
Se non fosse stato per il suo amico, con in mano il surf, credo che probabilmente avrei smesso di fare foto in giro per gli States….

In giro per Venice, e un po’ ovunque per Los Angeles, si incontrano spesso piccoli set cinematografici.
Naturalmente, arrivato nella patria del cinema, non potevo non pensare di tentarlo anch’io!
Scovato dunque, sulla mia guida di viaggio, un indirizzo di una agenzia di “extra actors”, cioè che colloca figuranti, ho ben pensato di andarci.
Si comincia sempre dal basso..
Il problema è stato quello di arrivarci, fisicamente: l’agenzia infatti si trova sul Bourbank bvd., uno stradone che è mal collegato dai mezzi pubblici.
Così, in pieno agosto, ho dovuto sgambettare non poco, sotto al solleone impietoso di Los Angeles, per giungere alla mia destinazione.
Quelli dell’agenzia sono stati davvero gentili e mi hanno detto di tornare addirittura il giorno dopo, con tutti i documenti, che mi avrebbero fatto subito lavorare, per 50 dollari più un cestino-pranzo.
Al ritorno, stanco di camminare su questi stradoni sconfinati, ho deciso di arrischiarmi, e chiedere un passaggio ad un tizio con la barba, con una splendida decappottabile bianca.
Dopo che son salito è scoppiato a ridere dicendomi “you got lost, man!”.
Gli ho ripetuto più volte che non mi ero affatto perduto, che gli avevo chiesto un passaggio solo perché non mi andava di farmela di nuovo a piedi, ma lui ha insistito, sempre ridendosela della grossa e continuando a dirmi “you got lost, man! you got lost!”
Contento lui?!
Così ho deciso che Los Angeles era troppo grande per uno come me, troppo dispersiva, e che forse, fare l’attore, non era esattamente la mia strada.
Ho scattato una bella foto ricordo a questo immenso Bourbank bvd.: in memoria della mia avventura, della mia decisione di ripartire da L.A. e della sopraggiunta consapevolezza del fatto che nella “città degli angeli”, senza l’automobile non voli molto lontano…
(La posterò con quella del baywatch, appena la ritrovo..)

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Usa Trip 97/98 – L’inzio

C’ho pensato su forse una decina d’anni.
Una volta, il mio modo di vivere ideale, sarebbe stato quello di trovare un modo di viaggiare sempre, sostando in un posto per qualche tempo, lavorarci, conoscere un po’ di gente, scrivere, quello che mi passava per la mente, fotografare: e poi quando m’ero stufato ripartire.

Central Park

Central Park


Il miglior compromesso che sono riuscito a fare con me stesso, è stato invece questo pazzesco viaggio, negli Stati Uniti.
Un bel giorno di fine luglio, nell’ormai lontano 1997 – ancora l’11 settembre era lontano, e gli Usa un Paese molto più rilassato – mi sono fatto accompagnare da mia madre all’aeroporto e mi sono imbarcato, direzione New York.
Considerando la mia più totale incapacità di programmare qualsiasi cosa, all’epoca, in quest’occasione sono stato più che previdente.
Pensandoci, anni più tardi.
Infatti, ho seguito le indicazione di una organizzazione americana che aiuta gli studenti universitari a permanere un certo periodo negli Stati Uniti, ottenendo un bel visto di tipo J-1, con cui si poteva lavorare legalmente.
Ho fatto anche la provvista di tutti gli indirizzi di amici ed amici-di-amici, con parenti o conoscenti americani, a cui poter telefonare per qualche esigenza, al limite per chiedere una “night-stand”.
L’idea, inizialmente, era quella di arrivare a New York, starci per qualche giorno, comprarmi un bel biglietto “Ameripass” e farmi una specie di giro circolare degli States, tipo New York, Miami, Los Angeles, Seattle, ancora New York e poi, tornarmene a casa.Strada fumante a NY
Invece le cose sono andate molto diversamente e, a parte una quindicina di giorni di rimpatrio forzato, data la scadenza del mio visto, sono rimasto sul territorio americano per oltre 9 mesi!
La mia più grande paura, prima di affrontare il viaggio, era addirittura l’aereo!
Dopo il servizio militare, ed in seguito ad un attacco di panico in treno, avevo cominciato a soffrire a volte di claustrofobia, quindi avevo anche paura di volare.
Anche la notte prima di andare a Fiumicino, non ero riuscito a chiudere occhio per questa ragione.
Credo che durante il volo, devo aver trattenuto il fiato per tutto il tempo.. pensandoci, oggi.
Si capisce dunque che non avessi la ben che minima idea di ciò che mi poteva riservare quest’esperienza e cosa dovessi temere, veramente
Arrivato al Kennedy airport, sono stato subito contento di poter passare la dogana nella fila degli americani, e non in quella dei turisti: io infatti non mi sono mai sentito un turista, mi sono considerato sin dall’inizio un “viaggiatore semplice” .
La verità è che se hai un visto J-1, passi obbligatoriamente per la stessa fila riservata ai cittadini americani.
La prima cosa che mi ha colpito, salendo sull’autobus che dall’aeroporto arriva alla Grand Central Station, sono stati i colori e la luce degli Stati Uniti.
Per quanto so che si tratti di un’osservazione del tutto soggettiva, essi mi sono sembrati più intensi, più saturi, e in qualche modo anche più irreali di quelli che io avevo mai visto in foto e tv.
Quando poi ho preso il secondo mezzo, per arrivare ad Amsterdam Av., all’ostello dove avrei alloggiato la prima notte, ho avuto la prima sorpresa: a New York, come, credo, in tutti gli USA, quando entri nell’autobus devi per forza passare dalla porta anteriore e versare qualche spiccio in una macchinetta, vicino all’autista, che poi ti dà il biglietto.
E’ necessario però che tu abbia i soldi contati, o per lo meno qualche pezzo da un dollaro.
Sono salito, stracarico di bagagli, sudato e affaticato, e ho confessato all’autista di colore che avevo in tasca soltanto un pezzo da 10 dollari.
Egli s’è alzato in piedi, e lì per lì ho temuto che mi volesse cacciare o magari sgridare.
Invece, s’è aggiustato i pantaloni, ha preso il microfono – tutti i mezzi ne sono dotati – e ha detto: “Anybody can change 10 dollars to this gentleman?”
In breve, si sono alzate parecchie persone, e io mi sono apprestato a raccogliere l’invito di una gentile signora di colore, presso la quale mi sono poi seduto: così ho fatto il biglietto.
Lo stesso giorno, nel tardo pomeriggio, dopo aver parcheggiato il mio bagaglio all’ostello, me ne sono andato in giro per Broadway, scansonato e stanco, ma felice per il grande passaggio, appena compiuto.
Di quella giornata ho ancora in mente tre immagini precise: 1) l’arresto di un tizio di colore, sui sessant’anni, da parte di due agenti in mountain-bike, nei pressi di un negozio con la saracinesca abbassata; 2) un velocissimo pattinatore di colore con calzamaglia total-body, walkman e occhiali da sole spaziali, il quale, danzando e cantando, superava le auto lungo la Broadway: poi frenava, in tutta tranquillità nei pressi dei semafori, come fosse egli stesso un veicolo come un altro; 3) infine la mia prima conoscenza americana: una homeless che si è seduta per un po’ al mio tavolo, in un locale dove m’ero seduto per consumare il mio primo vero pasto americano.
Il suo nome era Jane: le ho promesso che le avrei mandato la foto che le ho scattato.
Non l’ho mai fatto perché purtroppo nel viaggio, e tra bagagli presi, spostati, ecc ho perso il suo indirizzo.

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