La lingua italiana ai tempi del coronavirus

   Concedendo loro un ascolto attento, oserei dire partecipativo, e in questo facilitati dall’assenza di quel brusio che in periodi normali si offre da sottofondo costante alle nostre vite, ti chiedi se il  linguaggio  di quegli esperti, la cui spocchia gliela leggi subito in viso, sia vittima di necrosi. E non lo dico con la petulanza di chi contesta il reato di mancata osservanza della consecutio temporum, ma con riferimento all’intelligibilità del loro dire perché – e penso che ormai tutti ne abbiamo fatto esperienza – molti dei signori deputati a far chiarezza sull’argomento che più ci sta a cuore, il Covid-19, pur sapendo di rivolgersi a una platea variegata che ovviamente non ha tutti i mezzi per afferrare al volo quello che blaterano, se ne fregano bellamente di essere efficaci vettori della comunicazione. A tal proposito, Francesco Sabatini, presidente onorario della Crusca, auspicando tra le altre cose che “il dibattito sulle debolezze e le deformazioni dell’istruzione linguistica” resti aperto, si è così espresso:

   “Con l’eccezione di alcuni scienziati che avvertono la serietà del problema e si fanno intendere, in larghe fasce e schiere dei parlanti attraverso i media si riscontrano abitudini linguistiche e paralinguistiche di questo genere: nei notiziari un parlare velocissimo e con pronunce affettate; costruzioni sintattiche aggrovigliate; argomentazioni monche; preferenza per termini inglesi scarsissimamente noti alla massa degli ascoltatori. Subito tre esempi dell’ultimo fenomeno: l’uso di smart working, che vuole segnalare la possibilità di condurre il lavoro con agevolazioni sugli orari e i luoghi. È stata proposta dagli esperti e qualcuno (il rettore dell’Università di Padova: siamo vicini a una delle zone rosse del contagio) ha felicemente accolto la traduzione in lavoro agile. Altro caso: è un’aberrazione l’uso di droplet per indicare le goccioline di saliva che emettiamo parlando. Ancora, non c’è affatto bisogno di chiamare caregiver i familiari assistenti”.

  Ora, non sarebbe preferibile lasciare gli avvitamenti narrativi, la nebulosità del pensiero pregresso alla prosa volta a compiacere la solitudine letteraria di chi la sceglie? Per tutto il resto meglio tornare ai saggi consigli della prof di scuola media che prima di ogni tema raccomandava: soggetto, verbo e complemento.

In alto un’opera di Emilio Isgrò

La lingua italiana ai tempi del coronavirusultima modifica: 2020-04-01T14:47:38+02:00da VIOLA_DIMARZO

6 pensieri riguardo “La lingua italiana ai tempi del coronavirus”

  1. Evvai!!! Per una volta la Crusca mi è simpatica (in fondo non si dovrebbe mai fare di tutta la crusca un cereale). Quant’è bello Sabatini quando frusta senza fare sconti, soprattutto quando si usano inglesismi a cazzo e solo per dare un’impressione che si sa di cosa si parla.
    p.s.: anche questo post segue il fil rouge della necessità di cambiare. Almeno nell’alimentazione. Più cereali :))

  2. Già la consecutio temporum potrebbe essere scambiata per assonanza per un coitus interruptus da parte di chi in conferenza stampa da Macerata o giù di lì osa una arditissima pronuncia CORONAVAIRUS. Gesù ci aiuti perché in male supremo non sta nel come ma nel cosa.

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