AFFABULAZIONI

I migliori sono fuori dalle liste


Non entrerò nel merito della polemica che in questi giorni sta investendo Roberto Saviano. Perché ne ho piene le tasche del suo vittimismo, della sua eterna aria da cane bastonato. Ha scelto le sue battaglie, le continui pure ma senza restare in attesa degli applausi. Detto questo, mi preme sottolineare altro: nell'elenco dei magnifici 97 (o giù di lì) che parteciperanno alla Buchmesse di Francoforte manca un fuoriclasse come Tommaso Giartosio, del resto mai presente nelle classifiche di vendita o nelle vetrine glam in cui tanti scrittori si prostituiscono senza vergogna. Ma Giartosio no, lui è qualcosa di diverso e di più grande. Anche di Saviano.

 Vive da solo: la compagnia degli umani è uno specchio dell'invecchiare. Ama, però, avere ospiti. Ne sta appunto aspettando due. Si è già fatto consegnare a casa la spesa, come quasi tutto ormai, e prepara insalate, riso, una macedonia. Tranne per qualche uovo ha paura delle proteine animali, teme che le bestie possano vendicarsi. Beve ancora molto latte freddo: non può fare troppo male se ogni giorno (anche oggi, ora) tanti adolescenti americani in piedi nella cucina cromata lo ingollano, lo fanno scorrere attraverso il torso e l'addome come una carezza di ghiaccio - e poi è così bianco, pulito. Prima che arrivino si lava di nuovo con cura, attento a passarsi una spugna nelle pieghe del collo e dell'inguine, i nuovi punti d'impluvio dei residui organici, l'odore dell'acido grasso omega-7: ormai non ha proprio nulla da invidiare alle tartarughe giganti delle Galapagos. Ogni trasformazione irreversibile lo spaventa e lo seduce. Anche la fine, pensa, sarà un altro sverginarsi. Spruzzandosi di colonia sorride nello specchio. È come se dovesse fare appello a un po' d'ironia per ammettere che, alla sua età, quelle gocce o il poliestere pastello della camicia non sono più qualcosa che occorra guadagnarsi o farsi perdonare. Gli sembra che qualcuno lo osservi, sempre più spesso da quando è solo. Qualcuno che vuole menarlo, magari per affetto. Come si faceva da ragazzi. Piegandosi di tre quarti verso la porta del bagno (ma senza togliere gli occhi dal riflesso) dice: «Dai, piantala». Poi guarda la porta, ora è vuota, figurarsi. Poco dopo, suonano. Sono studenti. Ha dimenticato i loro nomi subito dopo la telefonata. Preparano una tesi su uno scrittore che lui ha conosciuto, ma è subito chiaro che più che informazioni cercano il riverbero di un contatto reale: con lui, con lo scrittore defunto da anni, con altri personaggi a tutto tondo, con vite che ritengono piene come quelle che loro sperano di intraprendere. Vogliono soprattutto stargli vicino, strofinarsi contro di lui, incipriarsi di polvere dorata. Lui non vuole smentirli ma neanche ingannarli. La polvere in realtà non è mai stata dorata. Era polvere. Occorre vivere in luoghi polverosi. Limare il mito, per salvarlo. Cerca di farglielo capire. Fanno segno di sì ma non gli credono, non sono qui per credergli ma solo per sedere alla sua tavola come piccoli saprofiti allegri, sbocconcellare il suo pane, servirsi due volte di macedonia, e intanto vivere uno stupore. Anche lui però vive uno stupore quando guarda i loro visi omogenei, la guaina ancora elastica della pelle, il velluto delle ciglia - la bellezza dell'asino, pensa, così falsamente avvicinabile, così ovvia e così lontana, presente, perduta. Cerca di dare soddisfazione, ripesca aneddoti. Ha preparato delle fotografie, perfino un manoscritto con alcune poesie dell'amico scrittore, versi di cui non era affatto contento: ma lui è morto. «Perciò ne faccio quel che mi pare, capito?», borbotta. I ragazzi non l'hanno sentito, stanno fotografando tutto con i cellulari. Poi un istinto li fa andare via in fretta prima che il fascino ingiallisca in noia. È rimasto solo con l'amico. Ma non c'è nessun amico. «Lo so, lo so. Bella novità: in my head I paint a picture», dice. Nessuno gli risponde e già questa gli sembra una risposta, anzi una risposta articolata, esauriente, perfino verbosa. «Leggerò un po'», annuncia. In quel momento suonano alla porta. È la ragazza. Da sola. Lucente. No, non vuole entrare. Vuole lasciargli il suo romanzo d'esordio. Ma questa, lui lo sente subito, è solo una scusa, quella che lei ha dato in pasto all'amico che la aspetta all'enoteca dell'angolo. In realtà cerca qualcos'altro. Lo guarda con occhi attenti, come se avesse già avanzato la sua richiesta. Non è altra polvere dorata, e non è sesso, a lui poi? Non è essenzialmente sesso. È essenzialmente ripetergli il suo nome, perché i nomi sono importanti. «Mi chiamo Grazia». Lui non capisce. Non riesco a farle posto, pensa. Non l'ho capita, pensa ancora guardando la porta richiusa e il libro che gli è rimasto in mano. Si lascia cadere nella poltrona e legge per il resto del pomeriggio alternando il suo Rilke al romanzo della ragazza. Di Grazia, anzi. Buono, ma non abbastanza. Rilke, invece, un po' troppo. Ai vecchi tutto è troppo, certo. Ma il romanzo, dopo tre o quattro capitoli, gli pare vecchio, e Rilke invece sempre giovane. Perfino ingenuo. Per questo gli piace. È la freschezza dei classici. Asini per sempre! Ride, si guarda intorno, gli è riuscita bene questa! Ma fatica a sollevarsi dalla poltrona e subito si accorge che è tardi, il sole fruga il salotto in lunghi fasci orizzontali come un riflettore in cerca di fuggitivi. Ora sì che la polvere sembra dorata. Ma è sempre polvere, e quando farà buio sarà anche invisibile. A quest'ora il delivery avrà chiuso i battenti? Non importa, in frigo c'è sempre qualcosa. All'improvviso la frase gli sembra sbagliata. In frigo c'è sempre qualcosa. Oppure c'è sempre qualcosa in frigo? È un po' che non scrive nel suo taccuino. Butta giù un cancello di frasi.

in frigo c'è sempre qualcosa

c'è sempre qualcosa in frigo

qualcosa in frigo c'è sempre

c'è sempre in frigo qualcosa

in frigo qualcosa c'è sempre

qualcosa c'è sempre in frigo

Posa la penna con un brivido di disperazione e si affretta in cucina. Ma la luce due volte fredda piove verticalmente attraverso le griglie dei ripiani. L'invito ai ragazzi ha consumato le provviste fresche, e l'unica ormai è pescare dal congelatore un surgelato, per esempio una paella. Sulla scatola ha un aspetto decisamente stuzzicante, con lo zafferano i pomodori i limoni e i gamberetti che coprono l'intera tavolozza dei colori caldi. Ma purtroppo non c'è da farsi illusioni sul contenuto. Sarà commestibile, questo sì: ma vuoi mettere con il cibo fresco? «Per esempio una mela». Chi ha parlato. È come se il segnale elettrochimico nel cervello si fosse tradotto in un impulso cinetico nell'orecchio interno, e poi in quello medio, e in quello esterno. Come se l'idea avesse generato la voce che ha espresso l'idea di una bella mela lucente e stillante. Sente subito in quell'idea, e prima ancora nel suono mela, qualcosa di fatidico. La mela farcita di fosco tossico. Ma può una minaccia essere così prevedibile? Non vuole pensare che sì, la minaccia suprema è proprio quella più ovvia; la lama che cade sul collo è proprio quella che taglia la testa. «Che sarà mai», pensa infilando il cappotto, e la casa riecheggia: Mai. È uscito. Da solo. Non lo faceva da quasi un anno. In fondo alle scale è già pentito, subito dopo il tramonto s'è messa in cammino una tramontana che rode gli angoli dei palazzi. Ma ormai è tardi, e allora forza, un po' di spirito combattivo e ce la faremo, I go out by myself! Il silenzio tace. Si avvia. Sa di avere delle goffaggini da vecchio. Il cappottone lo inghiotte intero, la sciarpa fa i fiocchi, e probabilmente bottoni e asole sono sparigliati, ma finché la prende con ironia andrà tutto bene. Occorre un po' di complicità. Ma complicità con chi? La gente è poca e passa veloce, il giornalaio se ne sta andando, il fruttivendolo fa una smorfia quando se lo vede al banco con una singola mela e non vuole farlo pagare, ma lui insiste e alla fine lascia due euro. Di fuori fa ancora più freddo, tanto che è tentato di fare sosta al bar, anche per un ultimo quarto d'ora di bohème. Ma sa che la compagnia invisibile che ha sempre sentito al suo fianco da quando la ragazza, come si chiamava, è andata via, lì nel viavai degli avventori la perderebbe. Assapora ancora l'aria ferruginosa della città e riparte. Ritrova la porta di casa, sale piano le scale, prendendosi tutto il tempo che gli serve, e quando rientra tutto è come l'aveva lasciato. Siede al tavolo, taglia la mela (una Red Delicious), la monda, dispone i quattro spicchi a croce. Poi si ferma un momento. Allora dal piccolo spazio in ombra dove si congiungono i bracci della croce, tra i peli della calicina, sale a spirale un senso di angoscia che lo scrolla tutto, lo sbatacchia come la turbolenza causata da una colonna d'aria ghiacciata. Subito dopo è passata. Gli viene da dire di nuovo qualcosa - «Mi hai fatto paura», «Non mi hai fatto paura» - ma per la prima volta nel corso di quella giornata interminabile, per la prima volta da molti mesi a questa parte, pensa che è solo, che sta parlando da solo. E ha paura. «Ho paura». Tre giorni dopo un infermiere del Pertini sorseggiando un macchiato gli diagnosticherà abusivamente una polmonite, mentre le complicazioni cardiache gli verranno tenute nascoste senza necessità alcuna visto che dopo altri due tre giorni di ricovero avrà capito anche lui come finisce la storia, tanto da riconoscere subito nell'infarto lo stesso demone domestico che aveva via via stroncato tutti i maschi di casa almeno fino a suo trisnonno che all'età di Cristo attraversava di sbieco l'aia della fattoria in una sfolgorante mattina di luglio di fine Ottocento e cadeva inginocchiato per poi stramazzare faccia a terra nella polvere, che è poi solo polvere, e perdere il cappello, che rotolava via nel cortile lungo una meravigliosa spirale aurea, e ancora rotola: se non il cappello stesso, il verbo rotolare. Ora mangia la mela.

Tommaso Giartosio, Autobiogrammatica