Estate, tempo di letture in spiaggia: vero, purché l’intelligenza che istupidisce intervenga per regalarci l’illusione che un’infilata di ombrelloni e lettori fermi a trent’anni fa sia la realtà. La società è cambiata e ha cambiato modalità di omologazione: benché sia sempre vivo l’interesse per la vita dei vip e per gli scandali che ricordano come sia impossibile arricchirsi onestamente (Ferragni? No, il più fresco Avon), ora vanno di moda le serie tv a marchio true crime, la cui peculiarità è quella di raccontare in un’ottica revisionista eventi delittuosi che hanno avuto forte impatto sull’opinione pubblica. Non è un caso se solo qualche mese fa, a distanza di diciotto anni dai fatti, sia stata posta una pietra tombale sulla cosiddetta strage di Erba, tornata alla ribalta, e in aula, per via di ardite ricostruzioni giornalistiche supportate dalla difesa di Rosa Bazzi e Olindo Romano. Adesso è la volta dell’omicidio di Yara Gambirasio sul quale la docuserie Netflix ha riacceso i riflettori per riesaminare l’iter investigativo e processuale conclusosi con la condanna del “muratore di Mapello”. Ora, ammesso che gli autori abbiano calcato la mano arrivando a confutare delle prove scientifiche, la questione in sé non avrebbe rilevanza se non fosse che perfino un prodotto concepito per l’intrattenimento viene collocato di forza nel filone del dissenso al dissenso. Cortocircuiti del genere – che si vorrebbero dialettici ma sono solo censori – avvengono in tutti gli ambiti, e particolarmente in quello politico, ogni qual volta si profili un apparato critico che i guardiani dello status quo identificano come sovvertitore. In realtà, e a dirlo è il buon senso, per ridestare l’Occidente non basterà una voce fuori dal coro. Occorrerebbero dei bravi maestri, di quelli che un buon libro, ombrellone o meno, non tarda a disvelare. Talvolta basta anche un viaggio, purché tragga memoria dal sottosuolo.
P.S. Ci sarebbe anche la poesia ma essendo invisa ai più resta lettera morta. Eppure, almeno le voci più dirette non andrebbero snobbate. Una per tutte quella di Charles Simic che si riassume così:
Io scrivo poesie per annoiare Dio e far ridere la Morte. Perché voglio che ogni donna del mondo si innamori di me.
Tutti i libri del mondo
non ti danno la felicità,
però in segreto
ti rinviano a te stesso.
Lì c’è tutto ciò di cui hai bisogno,
sole stelle luna.
Perché la luce che cercavi
vive dentro di te.
La saggezza che hai cercato
a lungo in biblioteca
ora brilla in ogni foglio,
perché adesso è tua.
H.H.
Questo l’ho scritto io in un’altra vita 🙂
Quando eri incarnata in Hermann Hesse? 😉
Prosaicamente la posta in gioco è sempre la stessa da vari secoli o millenni: ci siamo illusi che la tecnologia ci aprisse le porte della conoscenza ma ci sbagliavamo. E la’ dove non può la conoscenza nemmeno la poesia arriva se non per raggomitolarsi e soccombere
vedrai che ci verrà in soccorso l’intelligenza artificiale :))
(saremo così lobotomizzati che scambieremo il suo avvento definitivo e apocalittico con quello del Signore)
Talvolta mi domando se sono rincoglionito uguale ai miei simili oppure un po’ meno oppure un poco più. Il risultato non cambia; se ancora riesco ad apprezzare uno scambio di vedute con un singolo umano , faccia a faccia, qualsiasi tipo di società più complessa mi urta e mi addolora, ragion per cui mi astengo dall’aggregarmi ad altri in numero maggiore di uno se non per tristi ragioni mercenarie. E mi sento meglio:)
A chi lo dici! il solo pensiero di rapportarmi a una folla (leggi 3 persone) mi toglie il respiro. Dipenderà anche dal fatto che soffro di stanchezza cronica, ma resta il fatto che gli scambi migliori avvengono tra due persone, si instaura una certa complicità che un numero maggiore anche di una sola unità non garantisce quasi mai. Quindi sì, sono d’accordo con te, ma ci stiamo estinguendo. Di buono c’è che abbiamo una visione molto chiara di quel che sarà e forse in punto di morte, qualora fossimo coscienti di esserlo, avremo un motivo in meno di rammarico.