Maschi da rivedere e correggere

Problematiche della sessualità maschile| Sessuologo| Padova

Nelle faccende di sesso i maschi sono sostanzialmente dei lestofanti. Boriosi oltre ogni umana sopportazione, se hanno intenzione di sedurti, non appena se ne presenta l’occasione lodano le proprie performance sessuali, e lo fanno anche dopo averti portato a letto senza neppure immaginare che, a giochi appena conclusi, la risposta non politicamente corretta al loro tronfio ti è piaciuto?, sarebbe: ma chi ca**o me l’ha fatto fare?

In quest’ottica impregnata di sorridente disillusione giacché il rancore non m’appartiene più, mi è piaciuta tantissimo la conclusione di un articolo del malinconico Trevi. Dovrebbero leggerlo tutti i maschi di cui sopra. In sostanza non cambierebbe nulla, ma forse qualcuno, appena più intelligente della media, potrebbe essere indotto a farsi un esame di coscienza. E magari chiedere scusa alla compagna di una vita.

“(…) pur avendo goduto di una immeritata fortuna in amore, ho sempre finito per procedere verso il polo opposto, perché è nell’amicizia che ho riconosciuto quanto di più simile alla felicità e al benessere interiore potesse toccarmi in sorte. Senza difficoltà, alle soglie della vecchiaia, posso ammettere di essere stato abbastanza scarso sia come amante che come marito: aspiro al titolo di ex ideale. E non credo di essere il solo. Mi piacerebbe organizzare un Ex Pride, e credo che sarebbe la più allegra, ironica, tollerante delle feste possibili“.

Emanuele Trevi

I cani del nulla

I cani del nulla - Emanuele Trevi - Recensione libro

Le 156 pagine de I cani del nulla hanno come perno Gina, “avanzo di canile municipale”, con le orecchie enormi e le zampe troppo lunghe. Tutt’intorno Emanuele Trevi, ironico, poetico e malinconico nel descrivere non solo la vita di Gina, ma anche la sua e quella della moglie. Ci si perde in questo libro, in senso buono.

Gina ha guardato la porta chiudersi. Si è prodotta in una scenetta di saluto, seduta in mezzo all’ingresso, scodinzolando rasoterra, allungando il muso, strizzando gli occhi. Vuole esprimere, con questa pantomima, acuta nostalgia per i suoi cari, così acuta e pura da farsi sentire prima ancora della loro assenza. È da pensare che in quel momento – ma non ne sono sicuro – Gina creda in sé stessa, nella sua capacità di commuoversi e commuovere. Sarò buona, sarò onesta, sarò degna di un maniero inglese, sembra dire, e dicendolo ci crede. E infallibilmente ci crediamo anche io e mia moglie. Diretti al cinema, o a cena fuori, col cuore leggero: come gente normale, ben radicata nel proprio mondo, nelle prime ore della sera.

Escogitiamo saluti teneri, rassicuranti, a effetto prolungato. Forgiamo su due piedi soprannomi, adatti alla delicata solennità del distacco. È un apice emotivo, una prova di nervi.

– Ciao, chicca, stai buona, – dice mia moglie.

– Ciao, cipolla, divertiti, – aggiungo io.

Lei allunga il muso, sull’attenti, e strizza gli occhi, come se volesse mettere in scena, lì per lì, una riuscita imitazione di un animale molto miope, e ci guarda fino a che la porta, descritto il suo arco, si chiude e ci esclude.

Ciao, chicca. Ciao, cipolla.

Sii buona. Sii chicca, sii cipolla.

Esisti buonamente.

Probabilmente Gina è ancora sincera, qualche minuto dopo. O almeno, non vuole uscire troppo presto da quel ruolo così intonato al suo carattere. Sa di avere tempo, sa che quando usciamo, di sera, non è per poco. Inoltre, aggiungo io, che la conosco bene, Gina sa pure che, in quei primi minuti di solitudine, conviene comunque non muoversi molto. Spesso, in quel breve lasso di tempo, ci capita di tornare sui nostri passi. Ad arraffare il portafoglio, le chiavi della macchina, una sciarpa. Farà bene, in tal caso, a lasciarsi trovare ancora lì, immersa nella sua inguaribile tristezza di animaletto abbandonato in un grande appartamento pieno di ombre. Non è ancora il momento di muoversi. Bisogna avere pazienza, bisogna che i due fessi siano chiusi in un cinema, imbottigliati nel traffico, immersi nella conversazione in un remoto appartamento di amici, per agire.

Perché l’animaletto triste sulla soglia si trasformi in una presenza malefica, infantilmente crudele, odiosa a sé prima ancora che agli altri, non è dato sapere. Il Dottor Gina e Mister Hyde, dico io, tra me e me. Lo sdoppiarsi della personalità, abbiamo constatato fin dai primi giorni di forzata coabitazione, produce in lei un terribile malessere. La troviamo, al ritorno a casa, in condizioni pietose – e difficilmente descrivibili. Acquattata vicino alla porta, o sotto un tavolo, rinuncia all’uso delle zampe, in tale circostanza, limitandosi (è una cosa da vedere) a strisciare nella nostra direzione, sottoponendo il suo corpo a una specie di ondulazione motoria da lombrico appena emerso dalla terra. Come ad accentuare l’aspetto verminoso, tiene gli occhi chiusi, desiderando in qualche modo annullare, o almeno mettere tra parentesi, le tristi evidenze della realtà circostante. Sacchi della spazzatura smembrati. Avanzi di rapine in cucina. Inspiegabili atti di sabotaggio: pile di libri e sedie rovesciate, panni sparsi sul pavimento, vasi di piante svuotati della terra.

Così, nel fango della vergogna, e nell’incarnazione contrita di questo ruolo da verme, si concludono molte serate di Gina la Triste, spiacevolissimo – a sé e al prossimo – tra gli animali”.

Emanuele Trevi, I cani del nulla

Qui un estratto

Pia Pera e la meraviglia delle piccole cose

Al giardino ancora non l'ho detto”: l'amore per la Natura in un libro di Pia Pera - Envi.info

Torna in una nuova edizione il libro di Pia Pera L’orto di un perdigiorno, questa volta introdotto da Emanuele Trevi che con Due vite, dedicato all’amicizia con la narratrice e Rocco Carbone, ha vinto il Premio Strega. Alcuni stralci dell’introduzione in oggetto:

[…]

“Considero L’orto di un perdigiorno, pubblicato nel 2003 a quarantasette anni, un vero e proprio nuovo esordio. Ma devo subito aggiungere a questa impressione un’osservazione a mio parere decisiva: anche nell’ultima – la più luminosa – stagione della sua vita, Pia rimase quello che era sempre stata, una scrittrice, e la sua lingua rimase quella della letteratura. Questo non equivale a dire che scriveva bene: ci mancherebbe, ma non è l’essenziale. Scrivere bene è relativamente facile; si può scrivere bene una legge, una dieta, un messaggio di WhatsApp, e ovviamente anche un libro sul proprio orto. La lingua letteraria è tutta un’altra cosa. La si può iniziare a definire in negativo: è un linguaggio che non può essere divorato dal suo argomento. Ovviamente ha pure lei un argomento, che nel caso di Pia è il suo orto, ma quello che conta è una specie di perpetuo slittamento. Il visibile allude all’invisibile, il dicibile è il codice cifrato dell’indicibile”.

[…]

“Dal punto di vista poetico, la metafora che sostiene questo libro è di quelle antiche, di ottima lega: l’atto della coltivazione e quello della scrittura possiedono analogie talmente sorprendenti che, senza nemmeno bisogno di esplicitarle, parlare dell’uno e parlare dell’altro è un po’ la stessa cosa. Il rettangolo dell’orto e quello della pagina bianca, omologhi nella forma, sono il luogo di un investimento, o meglio di una proiezione di contenuti psichici che possono maturare in maniera del tutto inaspettata”.

[…]

Complice un azzeccato andamento diaristico (che presuppone una totale ignoranza di ciò che sta per accadere) la scrittura del libro è lo specchio fedele di quella che evidentemente è una specie di scrittura dell’orto. Non manca una serie di fenomeni, anche negativi, che sono comuni all’esperienza dello scrittore e del coltivatore: le direzioni sbagliate, i troppo facili entusiasmi, i cattivi risultati che si ottengono copiando quello che fanno gli altri, ovvero trascurare di mantenersi fedeli al proprio stile. Tutto questo, per inciso, distanzia sotto ogni aspetto il libro dal genere del manuale, che per sua natura esclude tutto ciò che non è efficace per il conseguimento di un risultato. Ma non a caso, qui si parla dell’orto di un perdigiorno“.

[…]

Si può aggiungere che Pia, ai tempi in cui scrisse L’orto di un perdigiorno, si era avviata verso il periodo – ahimè troppo breve – della sua piena auto-realizzazione. Ciò significa che aveva trovato la strada per realizzare il compito più arduo che tocca in sorte a noi viventi, che non consiste nella cura di un orto o di un giardino o nella scrittura di un libro, ma nel sottrarsi alla tirannia dell’Io, che certo non può essere distrutto, ma almeno scalzato quanto più possibile dal centro. È per questo che, in una delle pagine finali, paragona l’orto a un mandala tibetano, simbolo del “divenire perpetuo della natura”, o della “ruota in cui danza Shiva”. Bellissima immagine: ma per essere veritiera bisogna arrivare a sognare, come fa Pia in questa pagina, che l’orto un giorno si coltiverà, per così dire, da solo, in un “meraviglioso ciclo di nascita crescita raccolto”, che non ha più bisogno delle mani amorose che hanno avviato il ciclo. È un sogno impossibile, ma per questa scrittrice romantica l’impossibile è una stella polare. Ma perché questo sogno sia credibile oltre che impossibile, bisogna che non ci sia più nessuno al centro della ruota: né noi, e nemmeno Shiva. È solo un centro vuoto che potrà dirsi realmente, pienamente fecondo”.

Emanuele Trevi

Paradiso in terra, paradiso terrestre. Non ricordo più dove, Kafka ha scritto che ci sarebbe da chiedersi non perché l’uomo abbia perduto il paradiso terrestre, ma perché non faccia nulla per tornarci. A lui, cittadino di Praga, forse è sfuggito che chiunque torni alla campagna, chiunque voglia per sé un giardino, è spinto da questo desiderio, di un ritorno all’Eden“.

Pia Pera, L’orto di un perdigiorno