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Magritte, capolavoro in vendita: Sotheby's porta all'asta L'impero delle luci - ArtsLife

Oggi ho ricevuto una telefonata strana, una di quelle in cui l’interlocutore ti chiede aiuto tra le righe. Per orgoglio? no, per pudore. In questi casi puoi far finta di niente testimoniando di non avere cuore, oppure dire domani ci penso io. Nel ringraziarti, l’altro trasforma il non detto in detto, e infine ci si saluta con palpabile biunivoco sollievo, mentre l’orizzonte s’appresta a farsi meno fuligginoso per la parte che ha cercato di reprimere la fisiologica resistenza a chiedere. Riaffiora così in te l’antica consuetudine alla centralità di certi affetti che talvolta la lontananza riduce in bozzetti e non di rado in scarabocchi. Ma il Tempo, da galantuomo qual è, risana pure i pozzi avvelenati, e quel che resta è al di qua delle colonne d’Ercole.

In alto, Magritte, L’impero delle luci

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Appena aperti gli occhi cominciai a domandarmi per forza d’abitudine se potessi aspettarmi qualcosa di bello da quel giorno. Gli ultimi tempi erano stati difficili; uno dopo l’altro tutti i miei beni erano passati allo Zio; ero diventato nervoso e insofferente e più di una volta ero rimasto a letto un giorno intero a causa del capogiro. Di tanto in tanto, quando la fortuna mi sorrideva, qualche giornale arrivava a pagarmi anche cinque corone per un articolo.

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Mi alzai e andai a perlustrare un fagotto nell’angolo dietro il letto in cerca di qualcosa con cui fare colazione, ma non trovai niente e tornai alla finestra.

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Com’ero scivolato in basso, sempre più in basso, negli ultimi tempi! Alla fine, senza sapere come, mi ero trovato a non avere più nulla, nemmeno un pettine o un libro da leggere quando mi sentivo troppo triste. Per tutta l’estate avevo spesso cercato rifugio nei cimiteri o nel parco del Palazzo Reale, dove mi sedevo a scrivere articoli per i giornali, una colonna dopo l’altra sulle cose più diverse, trovate strane, ghiribizzi, idee concepite dal mio cervello inquieto; nella mia disperazione sceglievo spesso gli argomenti più assurdi che mi costavano lunghe ore di fatica e non erano mai accettati. Quando un pezzo era finito ne cominciavo subito un altro e raramente mi lasciavo scoraggiare dai rifiuti dei direttori; continuavo a ripetermi che un bel giorno sarebbe andata bene. E davvero talvolta, quando avevo fortuna e veniva fuori qualcosa di buono, riuscivo a ottenere anche cinque corone per il lavoro di un pomeriggio.

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Aver qualcosa da mangiare in una giornata così limpida! L’impressione di quel lieto mattino mi soggiogò, provavo una contentezza irresistibile e per la gioia cominciai a canticchiare senza un perché. Davanti a una macelleria una donna con una cesta al braccio meditava su certe salsicce da comprare per cena; quando le passai accanto mi guardò. Aveva un solo dente in bocca. Nervoso e suscettibile com’ero diventato in quegli ultimi giorni, il viso della donna mi fece subito un’impressione ripugnante; quel lungo dente giallo pareva un ditino spuntato dalla mascella e lo sguardo che mi rivolse era ancora tutto pieno di salsicce. Persi l’appetito all’istante e mi venne la nausea.

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Trovai una panchina tutta per me e divorai avidamente il pane e formaggio. Mi fece bene; era un bel pezzo che non facevo un pasto tanto abbondante e a poco a poco cominciai a provare la stessa calma soddisfatta che si prova dopo un bel pianto. Divenni ardimentoso: non mi sarei contentato di scrivere un articolo su un argomento elementare come i crimini del futuro […] Ma quando volli prendere l’occorrente per mettermi a lavorare mi accorsi di non avere più la matita, l’avevo dimenticata al banco dei pegni, la mia matita era nella tasca del panciotto.

Knut Hamsun, Fame