La fine del tempo

   “Hanno un esoscheletro di un centimetro circa, sei zampe e piccole antenne sulla testa. Marciano in colonie alla ricerca di cibo, di solito carcasse d’animali. si muovono in sincronia, quasi fossero un unico organismo. Formano una schiera compatta che avanza nell’oscurità. Una marcia implacabile e silenziosa. Vivono su di me, da anni ormai. E stanotte sono centinaia. Le sento percorrere le braccia e le gambe, la pancia, il collo, il mento. Le sento inoltrarsi tra i capelli, infilarsi sotto le unghie, entrare nel naso, incunearsi nelle cavità degli occhi”.

[…]

   “Formiche meccaniche senza colore. Trasparenti, invisibili. Droni di ultima generazione, figli della frontiera cibernetica. Oppure spettri di una mente, incubi antichi di prima della fine del tempo. Formiche meccaniche senza colore. Trasparenti, invisibili. Non vanno via. Mai”.

[…]

   “Non so come arrivare a domani. Ho imparato a controllarmi, sono stato costretto a farlo. Domino il respiro, mordo le labbra, sorveglio i movimenti non appena il prurito inizia a montare. Attendo. Negli anni ha sempre funzionato. Sono grato a queste tecniche e alla costanza che ho avuto nell’applicarle. Ho imparato a padroneggiare il corpo e i pensieri, senza lasciarmi precipitare nell’angoscia. Autocontrollo, dentro e fuori. Ma stanotte è troppo. Stanotte non so come arrivare a domani”.

Guido Maria Brera, La fine del tempo

   Sono vittima di un pregiudizio. Feroce. Non posso leggere un libro scritto dal marito di Caterina Balivo della quale mi sfugge il senso del suo essere. Non lo dico per dileggio ma per la ferma convinzione che similes cum similibus facillime congregantur.