Che non sia più notte

Che la notte finisca

DAVID MARIA TUROLDO

CHE NON SIA PIÙ NOTTE

La notte è avanzata:
Dio, fa’ che la notte finisca,
che non sia più Notte!

(da O sensi miei, 1990)

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Quindici parole bastano a David Maria Turoldo per elevare questa sua-preghiera a Dio. La sua notte è quella lontana da Dio e l’alba è la sua rivelazione, si noti la sottile differenza tra la notte e la Notte con la maiuscola che regge tutta quanta la poesia: certo è diversa da questa notte che viviamo noi adesso, la notte del Covid-19 e delle libertà assenti, di questa dittatura sanitaria imposta dalla necessità. Ma ugualmente facciamo nostra la supplica di padre Turoldo: “fa’ che la notte finisca”.

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FOTOGRAFIA © FREE STOCK FOOTAGE

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LA FRASE DEL GIORNO
«Facciamolo ancora!». / Bello e meraviglioso sarà / oriens ex alto: / luce da luce / splenderà più del sole.
DAVID MARIA TUROLDO, O sensi miei

PASQUA

Se per una volta
cancellassimo l’odio
se abbracciassimo con l’anima
ogni colore e religione
se alzassimo bandiera bianca
davanti ad ogni provocazione
se guardassimo oltre al buio
dell’egoismo,
potremmo vivere appieno
il vero senso della pasqua,
che è fatto di pace e serenità.
Auguri di cuore.
(Silvana Stremiz)

dal webimages (1)

ALLA LUNA (poesia di Leopardi)

moon-47-gapALLA LUNA

O graziosa Luna, io mi rammento
che, or volge l’anno, sovra questo colle
io venia pien d’angoscia a rimirarti:
e tu pendevi allor su quella selva,
siccome or fai, che tutta la rischiari.
Ma nebuloso e tremulo dal pianto,
che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
il tuo volto apparia, ché travagliosa
era mia vita: ed è, né cangia stile,
o mia diletta Luna. E pur mi giova
la ricordanza, e il noverar l’etate
del mio dolore. Oh come grato occorre
nel tempo giovanil, quando ancor lungo
la speme e breve ha la memoria il corso,
il rimembrar delle passate cose,
ancor che triste, e che l’affanno duri!

Giacomo Leopardi

Canti 1917

https://it.wikisource.org/wiki/Canti_(Leopardi_-_Donati)/XIV._Alla_luna

Più soli (poesia di Umberto Saba)

Dove si ritrova il mare

UMBERTO SABA

PIÙ SOLI

Giungemmo dove si ritrova il mare,
con spiagge solitarie, onde turchine.
Dai due arsenali, da tante officine,
da Trieste che amiamo attraversare

tutta al ritorno, sempre più lontani,
e più nostri, in più deserta riviera.
Sopra uno scoglio nella rossa sera
seduti accanto, non l’abbandonavo
con lo sguardo, ma sempre l’affondavo,
sempre più invano nei suoi occhi strani
di luna che tra le nubi viaggia;
che mentre intorno a un’anima selvaggia
e ad una bella persona m’affanno,
i suoi pensieri chi sa dove vanno!

Da una nave tra molte altre ormeggiata
venne un suon di fanfara e si distese;
nei suoi occhi una lacrima s’accese,
rifulse sulla guancia imporporata.

(da Trieste e una donna 1910-1912, Mondadori, 1950)

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Due innamorati, Umberto Saba e la sua giovane moglie, Carolina Wölfler, che nelle sue poesie è semplicemente Lina. Ma la protagonista assoluta di questi versi è la città, Trieste, che emerge dal panorama per stagliarsi con le sue spiagge e le sue fabbriche marinare, con i suoi moli e le sue vie: “Né a te dispiaccia, amica mia, se amore / reco pur tanto al luogo ove son nato. / Sai che un più vario, un più  / movimentato / /porto di questo è solo il nostro cuore”.

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TRIESTE, MOLO AUDACE – FOTOGRAFIA © TRIESTE RACCONTA TRIESTE

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LA FRASE DEL GIORNO
La mia città che in ogni parte è viva, / ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita / pensosa e schiva.
UMBERTO SABA, Trieste e una donna


Umberto Saba, pseudonimo di Umberto Poli (Trieste, 9 marzo 1883 – Gorizia, 25 agosto 1957), poeta italiano tra i massimi del ‘900. Di famiglia ebraica, fu avviato agli studî commerciali, e fu per lunghi anni direttore e proprietario di una libreria antiquaria a Trieste. La sua poesia, quasi intimo diario e confessione, indaga le cose ultime, la donna, l’amore, il senso atavico del dolore. La sua opera è raccolta nel Canzoniere.

LA DOMENICA DELLE PALME

Una gran festa di campane

GIOVANNI TITTA ROSA

LA DOMENICA DELLE PALME

La Domenica delle Palme s’annunziava
con una gran festa di campane.
Cominciava il campanone della parrocchia,
che suonava in tre riprese lasciando
ogni volta nell’aria un vasto ronzio bronzeo
che si sperdeva sulle case e sugli orti
Fra l’una e l’altra ripresa tintinnava ilare e gentile
la campana d’argento della chiesetta di Santa Maria.
Squillava con un suono petulante e gioioso,
in quell’asciutto mezzogiorno che intiepidiva
l’aria col primo fiato di primavera…
Ogni cosa pareva ascoltasse immota;
gli alberi e le case, nella luce,
stavano come in una vuota attesa.

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È una Domenica delle Palme della memoria quella che disegna il critico letterario e poeta in proprio Giovanni Titta Rosa: un po’ come la nostra di questo 2020, cancellata dalle restrizioni dovute alla pandemia di Covid-19. E se ogni cosa pare ascoltare immobile nell’aria che finalmente si è fatta di primavera, resta questo senso dell’attesa che non è solo quella della Pasqua imminente, ma anche, per noi imprigionati dal virus nelle nostre case, quella della liberazione dall’incubo distopico che esso ha generato.

DISEGNO © FOX HOLLOW STUDIOS

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LA FRASE DEL GIORNO
il colore del passato / che ritorna ben vestito, / il color dell’infinito / e di ciò che non è stato.
MARINO MORETTI, Poesie scritte col lapis

 


Giovanni Battista Rosa, noto come Giovanni Titta Rosa (Santa Maria del Ponte, 5 marzo 1891 – Milano, 7 gennaio 1972), scrittore, poeta e critico letterario italiano. Collaborò con il Corriere della Sera, La Stampa, il Corriere Padano, Lacerba. Autore di prose e di poesie, fu insigne studioso del Manzoni e commentatore dei Promessi sposihttps://cantosirene.blogspot.com/

JIM HARRISON – RITORNO da giorno di primavera

 

Giorno di primavera

JIM HARRISON

RITORNO

Il sole scalda i listelli del granaio,
una pozzanghera di ghiaccio all’ombra dei gradini;
il bracco di mio zio
saltella
attraverso il grano d’inverno,
verde fresco verde freddo.
Il mulino, fuori uso da tempo, stride
e ruota nel vento.
Giorno di primavera, troppo rumoroso per parlare,
quando le ossa si stancano della loro carne
e vogliono qualcosa di meglio.


(da Canzone semplice, 1965)

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È il languore della prima primavera, il suo primo tepore, il protagonista di questi versi del poeta statunitense Jim Harrison, quando ci si trova ad essere parte della nuova stagione della natura e si cresce e si cambia anche noi con essa.

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GAIL DARNELL, “MULINO DI COLVIN RUN IN UN POMERIGGIO DI PRIMAVERA”
https://cantosirene.blogspot.com/

Poesie per aprile

PIERLUIGI CAPPELLO

APRILE, PARCO GIOCHI

D’aprile, da piccolo
gli alberi mettevano mitrie
alzavano le teste in lunghe
lunghe liturgie
e tempio era il silenzio
luminoso delle nuvole;
oggi
un mezzo aprile di tanti anni fa
per tutto questo silenzio
nessuno nasconde la testa nelle mani
seduto, metto le tempie nella chiarìa
di un cielo
che li vorrebbe amati
amati tutti, ognuno da qualcuno;
ciascuno invece scuote la sua cenere
e vedo ombre che passano vivendo
in festa come fossero vissute
orfano di tutti i moventi
la primavera è guardarne il riflesso
sulla peluria degli avambracci al sole.

(da Mandate a dire all’imperatore, Crocetti, 2010)

Pierluigi Cappello (Gemona del Friuli, 8 agosto 1967 – Cassacco, 1º ottobre 2017), poeta italiano. La sua vita è stata gravemente segnata da un incidente stradale occorsogli quando aveva sedici anni: dallo schianto della moto di un amico contro la roccia uscì con il midollo spinale reciso e una perenne immobilità. Ha scritto numerose opere, anche in lingua friulana.

https://cantosirene.blogspot.com/

Girotondo in tutto il mondo

https://www.filastrocche.it/contenuti/girotondo-intorno-al-mondo-2/Girotondo in tutto il mondo

girotondo-bambiniFilastrocca per tutti i bambini,
per gli italiani e per gli abissini,
per i russi e per gli inglesi,
gli americani ed i francesi;

per quelli neri come il carbone,
per quelli rossi come il mattone;
per quelli gialli che stanno in Cina
dove è sera se qui è mattina.

Per quelli che stanno in mezzo ai ghiacci
e dormono dentro un sacco di stracci;
per quelli che stanno nella foresta
dove le scimmie fan sempre festa.

Per quelli che stanno di qua o di là,
in campagna od in città,
per i bambini di tutto il mondo
che fanno un grande girotondo,
con le mani nelle mani,
sui paralleli e sui meridiani…

Gianni Rodari

https://maestramary.altervista.org/poesie-e-filastrocche-di-gianni-rodari.htm

Poesia di Mario Benedetti

 

Città e campagna

da Umana gloria (2004)

Mi sento nel giro che facevi a prendere la legna,
nel rumore del camion che va perchè si possa entrare
in trattoria durante l’ora di pausa: nei pensieri
che accompagnano la terra da togliere in cantiere.

Lo scavo è lo sguardo che lo tiene, quando si va via la sera,
e volendo ci si può chiedere com’è stata, che cosa, la giornata:
restare in una melodia o con un disegno più nervoso
e impossibile.

Così mi penso nelle parole che risalgono il cortile,
dopo averti sentita nell’aria che ti affaticava: e un po’ intorno
come una sera d’aria tra le pietre e sulla campagna.

Dove la neve è occuparsi di che cosa sono le erbe e i sassi,
rimanere sulle cose per un po’, nel bianco della neve:
con le piane che avevano il tuo sguardo grande,
tu che diventavi le giornate, lavoro e prati di un mondo.

https://www.gironi.it/poesia/benedetti.php

Nota

di Alida Airaghi

Garzanti ha da poco pubblicato Tutte le poesie di Mario Benedetti (Udine, 1955), poeta schivo e non conosciuto quanto merita, che dagli anni ’70 ha seguito un suo percorso autentico e originale di scrittura, fedele a una interpretazione umile e partecipe della realtà e del proprio vissuto.

Il volume raccoglie per la prima volta le sue opere più rappresentative, da Umana gloria (2004) a Pitture nere su carta (2008), fino a Tersa morte (2013) e all’inedito Questo inizio di noi (2015), ed è prefato da tre illustri poeti e amici (Antonio RiccardiStefano Dal Bianco, Gian Mario Villalta), che sottolineano con affetto e stima non solo la qualità letteraria dei versi di Benedetti, ma anche la tensione etica che li anima, radicata nei dati sofferti della sua vicenda biografica.

La madre originaria di una Slovenia impoverita, il padre invalido, il mondo contadino di Nimis con la sua lingua non esportabile, il terremoto del’76, gli studi a Padova e il trasferimento in una Milano proletaria e indifferente, la malattia autoimmune che si aggraverà nel corso di tutta l’esistenza per evolvere poi in sclerosi e infine nell’ictus che lo costringe oggi a una vita dimidiata, solitaria, impossibilitata a esprimersi: motivi sufficienti a spiegare «l’energia fredda e compressa e mista di intransigenza» di questo autore, i «sentimenti di inadeguatezza, inappartenenza e precarietà», la «durezza» e lo «smarrimento» di cui parlano i suoi commentatori.

In un’intervista radiofonica del 2012, Mario Benedetti diceva di sé «Sono nato malato… anche da bambino… avevo sempre qualcosa»: ma la sua pare al lettore una malattia più dell’anima che del corpo, l’impossibilità di adattarsi al reale, il sentirsi eternamente fuori luogo, in uno stato di perenne provvisorietà.

Se leggiamo le poesie tratte da Umana gloria (quale gloria, c’è da chiedersi, se non quella sconfortata e avvilita della pura sopravvivenza), troviamo ripetuto il simbolo del muro: scrostato, “strappato”, che più che a proteggere serve a rinchiudere, a limitare, a imprigionare. Intorno, erbe, sassi, campi da dissodare, la fatica di un lavoro pesante e senza parole. L’infanzia, regno mitico del ricordo, è malinconia e stupore, un domandarsi impauriti perché si è sulla terra, a fare cosa e come, maldestri nei gesti e nell’espressione: «non so come dire», «Dove sono? / io dove sono?», «perché sono qualcuno?», «Servirebbe guardare da lontano, pensare che si guarda. / Pieno un pomeriggio di dormiveglia voglio stare», «Mattine senza sapere di essere in un posto, dentro una vita / che sta sempre lì». Le persone si muovono con lentezza e rassegnazione; sono i nonni, i genitori, il fratello, e altre comparse di cui si citano i nomi, tanti nomi paesani oggi in disuso (Dino, Vanni, Agostino, Ernesta, Rina, Giacomino…) quasi fossero a disagio anche nel solo sentirsi chiamare.

Se il poeta si allontana dal paese per andare in altre città più grandi, o all’estero (la Bretagna e il mare del Nord tornano spesso, con i loro freddi) rimane comunque estraneo ai luoghi, confuso, in attesa di una identificazione che non arriva mai, senza alcuna volontà introspettiva o di scavo psicologico. Il lessico semplicissimo, lo stile volutamente dimesso, la sintassi sconvolta, con frequenti anacoluti e tautologie, sembrano voler sottolineare l’incapacità di adeguarsi alle aspettative di chi legge.

Questa volontà spiazzante e provocatoria della lingua è tanto più evidente in Pitture nere su carta, in cui Benedetti approda a una scrittura sincopata, scarnificata, quasi celaniana, che denuncia l’assurdità del vivere, poiché è la morte che alla fine vince, e tutto si dissolve nel turbinoso rincorrersi di anni, secoli, millenni, di cui solo i musei, i cimiteri e i reliquari manterranno testimonianza: «Ma nessuno è qualcuno, niente la notte, nessun mattino», «Infinite mattine, infinite notti. / Va dolce il nulla, // il dolcissimo nulla», «Non l’ascolto, sta la veglia, senza. / Carriole di muri, non raccontate». Il verso diventa balbettio, chiede soccorso a termini stranieri, alla pittura di Goya, di Cézanne, di Mondrian, alla storia e alla preistoria, alla teologia: «Rinnegato il canto. / Gli altari. / Perché tutti possano udire».

La riflessione sul tempo cede il passo, nell’ultima raccolta Tersa morte, al pensiero ossessivo della morte, al disfacimento dei corpi che diventano ossa, teschi, putridume, assediati in ospedali e case di riposo, tra personale impaziente, cateteri, diarree. Il poeta, o il suo sosia (poiché non è lui davvero che fa visita al padre, alla madre malati, agonizzanti: il dolore lo costringe a uscire da sé, a costruirsi una controfigura), si muove come sonnambulo, in una incomunicabilità totale con gli altri per pudore e vergogna della propria fisicità, aspettando una liberazione o una condanna: «Morire e non c’è nulla vivere e non c’è nulla, mi toglie le parole», «Il gas dei corpi, / i vestiti smangiati, i femori, / le mascelle, i denti, il loro sorriso, / il bacio dei denti, senza labbra», «Non è valsa la pena affaccendarsi».

Siamo sostituibili, irrilevanti, e nemmeno la poesia ci salva, come ammoniscono questi versi testamentari e purtroppo profetici: «Non saprai di essere morto, / non sarai, quel nulla che nella vita diciamo / non sarai, non ci sarai più, non saprai di te. / Perfetta assenza. Non distrarti, non eludere / la pura inconcepibile assenza, non distrarti», «Ma io nella mia vita non ho scritto nessuna poesia, / io nella mia vita non ho letto nessuna poesia. / E questa nessuno l’ha scritta, nessuno l’ha letta».

https://www.nazioneindiana.com/2018/01/12/poeti-appartati-mario-benedetti/