DIVINA COMMEDIA

Modulo Denuncia Molestie subite


Modulo Denuncia Molestie subite :

             

Costretti a rendere noto,la diffamazione,il prelievo dei nostri Alias-oppure noti come nick-per lasciarsi delle note moleste su post di un iscritto in questa Comunità più volte segnalato e oscurato come persona molesta.

Abbiamo segnalato cosa avviene al gestore di libero,mentre i nick dei nostri amici aumentano su quel blog,con note diffamatorie e non idonee al nostro pensiero di anni ospiti su internet vissuti con correttezza e Giustizia

Quel blog stranamente è ancora presente in questa Comunità addirittura in 3 copie con diverse immagini.

Ci hanno risposto che ?

Noi invece Vi ricordiamo che?

Se i nostri nick possono essere prelevati da chiunque,c’e un sistema tecnico informatico a cui dovete provvedere a rendere più sicuro per i nostri dati-il nostro nick ci rappresenta nel web in molti casi è il nostro documento per farci riconoscere,qualcuno deve ????

QUALI AZIONI COMPIERE NEI CONFRONTI DI UN PROFILO FALSO ?
Chi crea profili falsi sui social network si rende quindi responsabile nella maggioranza dei casi di due reati : quello di sostituzione di persona e quello di diffamazione aggravata. Circa il primo, integra il reato di sostituzione di persona (art. 494 cod. pen.) la condotta di colui che crea ed utilizza un “profilo” sui social network con l’immagine di una persona che ne è del tutto inconsapevole con lo scopo di appropriarsi dell’identità altrui e far cadere gli altri in inganno (evidenzia sia il fine di vantaggio, consistente nell’agevolazione delle comunicazioni e degli scambi di contenuti in rete, sia il fine di danno per il terzo, di cui è abusivamente utilizzata l’immagine). Per il secondo, la condotta del ricorrente, oltre al reato previsto dall’articolo 494 del codice penale, integra anche la diffamazione aggravata ai sensi dell’articolo 595, comma 3 dello stesso codice, sotto l’aspetto dell’offesa arrecata «con qualsiasi altro mezzo di pubblicità» diverso dalla stampa. Per approfondimenti in tema di diffamazione sui social [ click qui ]. (*) Il Dispositivo dell’art. 494 del Codice penale recita che: “Chiunque, al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, induce taluno in errore, sostituendo illegittimamente la propria all’altrui persona, o attribuendo a sé o ad altri un falso nome, o un falso stato, ovvero una qualità a cui la legge attribuisce effetti giuridici, è punito, se il fatto non costituisce un altro delitto contro la fede pubblica, con la reclusione fino ad un anno.”

Le violazioni agli Standard della community includono:

  1. Atti di bullismo o intimidazioni: contenuti intenzionalmente diretti a una persona allo scopo di umiliarla o metterla in imbarazzo; reiterati tentativi di contatto nonostante la persona abbia manifestato chiaramente la volontà di non essere contattata.
  2. Minacce dirette: minacce reali alla sicurezza pubblica e personale, minacce credibili di danni fisici, specifiche minacce di furto, atti di vandalismo o altri danni economici.
  3. Violenza e sfruttamento sessuale: contenuti che minacciano o promuovono violenza o sfruttamento sessuale, incluse le richieste di materiale a sfondo sessuale, qualsiasi contenuto sessuale riguardante minorenni, minacce di condivisione di cose intime che desideri mantenere private (come immagini o video) e la proposta di prestazioni sessuali

Il gestore di un sito web risponde per i contributi diffamatori pubblicati da altri, anche non anonimi, purché ne sia a conoscenza. Così sembra aver stabilito la quinta sezione penale della Corte di cassazione, con sentenza n. 54946 depositata il 27 dicembre 2016.

In breve, la vicenda, per quanto si riesce a comprendere dalla sintesi che ne fa la Corte: nell’agosto del 2009 un lettore pubblicava su un sito internet un commento offensivo nei confronti di un soggetto che stava per ricoprire una carica importante a livello nazionale e ne allegava il certificato penale. A distanza di pochi giorni, lo stesso lettore inviava per e-mail lo stesso certificato penale al gestore del sito. Quest’ultimo – a quanto pare – si limitava a non cancellare il giudizio offensivo, fino a quando non veniva disposto il sequestro preventivo della pagina. La Corte d’Appello, riformando la sentenza di primo grado, condannava il gestore per concorso nel reato di diffamazione a mezzo internet, riconoscendo altresì un elevato risarcimento. L’imputato proponeva ricorso per cassazione, rilevando tra l’altro di non aver contribuito alla pubblicazione e di aver avuto conoscenza della sua presenza in rete solo con l’applicazione della misura cautelare.

Nel rigettare l’impugnazione, la Cassazione individua in capo al gestore una responsabilità a titolo di concorso in diffamazione per il sol fatto che egli avrebbe «mantenuto consapevolmente l’articolo sul sito, consentendo che lo stesso esercitasse l’efficacia diffamatoria» fino a quando non è stato coattivamente rimosso. A tale conclusione, se si è ben compreso, la Corte giunge valorizzando due accadimenti: la ricezione della e-mail dall’autore del commento “incriminato” e la pubblicazione di un altro articolo, questa volta a firma dell’imputato, ove vi era un espresso riferimento al precedente scritto a firma del lettore.

In sostanza, il principio che sembra esprimere la Corte è che il titolare di un sito web può essere ritenuto direttamente responsabile di diffamazione se non si attiva per impedire che uno scritto diffamatorio, pubblicato e firmato da un soggetto terzo, permanga online in quanto, così facendo, consente l’aggravamento delle conseguenze del reato.

Per quanto riguarda la strada penale, il reato ipotizzabile è quello di sostituzione di persona, punito dall’articolo 494 del codice penale con la reclusione fino ad un anno, procedibile d’ufficio. La giurisprudenza ha ammesso che il reato possa commettersi a mezzo internet, attribuendosi falsamente le generalità di un altro soggetto, inducendo in errore gli altri fruitori della rete, procurandosi i vantaggi derivanti dall’attribuzione di una diversa identità, anche semplicemente l’intrattenimento di rapporti con altre persone o anche il soddisfacimento della propria vanità, ledendo così l’immagine della persona offesa. Accanto a questo reato, che è contro la fede pubblica, ci possono essere anche altri illeciti penali che si intersecano, come frodi informatiche (l’art. 640 ter recentemente introdotto nel nostro ordinamento indica espressamente “il furto o indebito utilizzo dell’identità digitale in danno di uno o più soggetti”).

Sul piano civilistico, in questo caso sarebbe applicabile l’articolo 17 del decreto legislativo 70/2003 in recepimento della direttiva 2000/31/CE) che prevede la responsabilità del prestatore del servizio a informare l’autorità giudiziaria o quella amministrativa qualora sia a conoscenza di presunte attività o informazioni illecite riguardanti un suo destinatario del servizio. Quanto accaduto  costituisce inoltre una violazione evidente del suo diritto al nome (art. 6 del codice civile). È poi applicabile il GDPR (general data protection regulation – regolamento UE 679/2016) che prevede proprio la sua applicabilità ai social provider esponendoli ad azioni dirette da parte degli interessati e anche a sanzioni applicabili nei loro confronti: si arriva sino a 20 milioni di euro o al 4% del fatturato mondiale annuo se la sanzione massima dei 20 milioni è troppo bassa in relazione alle dimensioni dell’impresa.
Quindi, la terza strada è quella del Garante della protezione dei dati personali. Lo strumento è azionabile inoltrando tramite raccomandata a/r (o PEC) una richiesta di accesso ai propri dati personali direttamente alla sede europea del social network, specificando la richiesta di tutti i dati che lo riguardano, informazioni, fotografie, profili aperti a suo nome e di conseguenza la cancellazione e il blocco del falso account e dei dati illecitamente inseriti. Il diritto è previsto dall’art. 7 del D.lgs 196/2003 e rafforzato dal nuovo Regolamento UE 679/2016, direttamente applicabile dal prossimo 25 maggio. In caso di mancato riscontro si può agire direttamente avanti all’Authority di protezione dei dati personali.
Le responsabilità dei social provider sono dunque precise, il problema subentra nella celerità di vedere applicato il proprio diritto. “Forse dovremmo cominciare a pensare che la dimensione che si trova sui social non è solo privatistica” dice Lisi, “Tutti questi servizi che ci vengono offerti stanno diventando servizi essenziali della nostra vita. Non c’è separazione netta tra digitale e reale. I social dovrebbero essere identificati come prestatori di beni essenziali. L’Unione europea dovrebbe cominciare a disciplinare questi rapporti facendo evolvere la loro connotazione giuridica privatistica verso una connotazione di natura pubblicistica”.
    FONTE WEB-NORMATIVE DI LEGGE VARIE- SEGNALAZIONE PER SOSTITUZIONE DI PERSONA