Canzoni senza tempo ” Paint it, black “dei Rolling Stones by Jankadjstrummer

 

stones

Paint it, black – Rolling stones, aftermath, 1966

Il suicidio della stilista Wren Scott compagna di Mick Jagger mi ha ricordato un brano leggendario degli Stones “Paint it, black” che tratta proprio della morte e del dolore di un uomo che ha visto morire la sua fidanzata. La canzone venne pubblicata come singolo ed inserita nell’album “Aftermath” del 1966. Già alla pubblicazione, il disco ebbe qualche strascico polemico perchè nel titolo fu inserita dalla casa discografica una virgola  quasi a cambiare il senso delle parole tanto da farle suonare offensive e razziste quindi da “dipingilo nero” a  “Dipingilo, nero”; storicamente eravamo in un periodo in cui erano forti le tensioni per questioni razziali, specie in USA, dove il disco ebbe un successo inaspettato. Il tema della canzone è chiaramente la morte, ma senza che vi sia stata una particolare fonte di ispirazione. Quando è stato chiesto a Mick Jagger da dove provenisse l’idea della canzone, ha risposto: “I don’t know. It’s been done before. It’s not an original thought by any means. It all depends on how you do it.”, trad. “Non lo so. E’ già stato fatto prima. Non è un pensiero originale in ogni caso. Tutto dipende da come lo fai”.  Un ragazzo depresso per la morte della compagna esprime tutto il suo dolore iniziando con una metafora “I see a red door and I want it painted black” , la porta rossa è il suo rosso cuore che  diventa nero per la difficoltà nell’accettare la perdita della persona amata. Il ricordo è fisso, doloroso ed è difficile scacciarlo dai propri pensieri (I have to turn my head until my darkness goes). Rivede il corteo del funerale e la giovane morta che sta per essere seppellita circondata di fiori  “I see a line of cars and they’re all painted black / With flowers and my love, both never to come back”, c’è poi l’immagine degli amici e parenti che non riescono a guardare negli occhi il ragazzo che dal canto suo vorrebbe sparire per non affrontare la triste realtà. C’è anche il senso di frustrazione per la morte improvvisa e per non essere riuscito a far niente per evitarla.  “If I look hard enough into the setting sun / My love will laugh with me before the morning comes” qui c’è una altra metafora che divide gli ascoltatori, sarà il paradiso che accoglie la ragazza o l’alba di un nuovo giorno che scaccia i ricordi che hanno affollato la notte del protagonista? Si tratta, comunque, di un testo molto toccante che coglie l’essenza del dolore tanto che risulta molto facile immedesimarsi nella malinconia del protagonista. “Paint it, black” è uno dei brani più riusciti dei  Rolling Stones tanto che è stata coverizzata un po’ da tutti anche in Italia, alla fine degli anno ’60,  furono registrate due versioni italiane del brano, dagli Avvoltoi e da Caterina Caselli che ne fece un successo discografico;  inoltre fu inserita in molte colonne sonore, una fra tutte  “Full metal jacket” di Stanley Kubrick, anche se, come abbiamo visto, la canzone non tratta assolutamente di guerra, in qualche modo, da subito, fu associata al Vietnam. Un ultima curiosità sul brano: è’ stato anche il primo singolo in cui fu utilizzato il sitar indiano che dà al brano un alone di misticismo orientale.

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Lee “Scratch” Perry, Mad Professor & Robotics. Una notte speciale sulla collina del Poggetto a Firenze. ‎Modifica

Lee “Scratch” Perry, Mad Professor & Robotics. Una notte speciale sulla collina del Poggetto a Firenze.

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Lee “Scratch” Perry, Mad Professor & Robotics. Una notte speciale sulla collina del Poggetto a Firenze.

Sulla locandina il concerto è fissato alle 21:30 del venerdì 24 febbraio alla Flog di Firenze, sede storica della rassegna invernale Vibranite, che porta in città il meglio del raggae, del dub e del ruggamaffin sia nostrano che mondiale. Questa sera si esibiscono 2 personaggi incredibili, il maestro e il discepolo del raggae e della Dub-Music , Lee Scratch Perry + Mad Professor & Robotics. Lee “Scratch” Perry, uno dei pochi artisti Reggae arrivati al traguardo del Grammy Award, si deve a lui lo sviluppo e la diffusione di questo genere musicale sia in Giamaica che nel resto del mondo, come si deve a lui la produzione dei maggiori artisti giamaicani da Bob Marley  ai Wailers; la sua attività, spesso, ha  precorso i tempi e le tendenze diventando il punto di riferimento di tanti musicisti Dub pur non disdegnando di tanto in tanto di  esibirsi in concerto a dispetto della sua veneranda età di 76 anni. Dietro il nomignolo di Mad Professor si cela, invece, Neil Fraser, un artista poliedrico della seconda generazione raggae anche lui produttore e collaboratore dei grandi del raggae e dub.  Arriviamo col mio amico Pietro intorno alle 22:15, lui continua a ripetermi che l’orario alla Flog è molto flessibile ed ha ragione, entriamo nella grande sala, non siamo più di 100 persone, molti al bar a bere birra, qualche ragazza che si muove sinuosa e ondeggiante al ritmo sincopato del raggae che proviene dalla Jah Station Sound, un dj set che vede alla consolle il grande jaka Dj molto conosciuto in città come conduttore di una trasmissione radiofonica  “ Bongo Bongo” incentrata sulla musica e sulla cultura raggae. Ci avviciniamo anche noi ad un gruppo di ragazzi che balla e non possiamo non dondolarci al ritmo in levare, chiacchieriamo un po’, il tempo passa, gli artisti si fanno attendere, si è fatta mezzanotte ed è ancora dance hall, ore 0:20 finalmente qualche musicista sale sul palco ad accordare gli strumenti, Mad Professor si posiziona dietro il mixer e finalmente parte la musica, la sezione ritmica è perfetta, il basso disegna un cerchio di suono rallentato che segue il battito del cuore mentre una tastiera birichina batte sui tasti
e dà il tempo di una musica intrisa di spiritualità, non si può fare a meno di chiudere gli occhi e farsi cullare da questi suoni; scema il primo brano di Mad Professor, mi guardo intorno e miracolosamente  vedo la sala stracolma di gente, non capisco da dove sia uscita, qualcuno a dispetto del divieto rolla canne di marijuana incurante del “ proibizionismo” , l’odore acre della ganja è nell’aria, c’è molta gioia, rilassatezza, i tantissimi giovani che si accalcano sotto il palco sembrano scolaretti, nessuna intemperanza ma voglia di condividere uno stato mentale, di godere di momenti di catarsi collettiva magari sognando una spiaggia colorata caraibica. I brani scorrono veloci senza soluzione di continuità, i musicisti sono molto professionali ma anche loro si lasciano andare dimostrando di “ sentire” la musica, di amarla con il cuore e la mente. Siamo in attesa della leggenda del raggae, dello sperimentatore vulcanico, dello scopritore di talenti, si abbassano le luci, un faro colorato viene puntato sul palco, si intravede una figura che arranca verso il centro del palco, che trascina un trolley, sembra uno che si trova li per caso, è lui il grande nome della storia del raggae, Lee “Schratch” Perry, il padre del dub, colui che tra le altre cose ha collaborato con i Clash, con i Beastie Boys, un eterno ragazzo abbigliato di rosso, con una felpa azzurra di acetato con la scritta ricamata “ITALIA”, scarponi argentati con incollati degli  specchietti e con il suo leggendario berretto carico di gadget di ogni genere che guadagna la scena, in sottofondo il raggae, mi soffermo a guardarlo e mi sorprende il suo sguardo rilassato, le sue profonde rughe scolpite da 50 anni di impegno e di musica,è eccezionale vederlo in azione, percorre a passi felpati continuamente il palco muovendosi con estrema leggerezza dispensando strette di mano a tutti, sorrisi, sono stregato da questa atmosfera coinvolgente, gesticolando canta, dirige la musica, catalizza gli sguardi verso di lui chiedendo ed ottenendo grande rispetto delle sue tradizioni, della sua religione e di tutto quello che è riuscito a fare nella sua lunghissima carriera. Non posso fare a meno di immortalare questi momenti, fotografando, registrando spezzoni dello show perché probabilmente non rivedrò più tanta umanità ma anche tanta bizzarra ironia.
A controllare il suono del mixer è rimasto  Mad professor, il maestro dell’elettronica che ha il preciso compito di creare un suono avvolgente che valorizzi la voce imperfetta di Perry. E’ un canto semplice il suo, richiama le radici (roots), quella Mama Africa che attende il ritorno di tutti i suoi fratelli neri. Il pubblico sembra aver rallentato la danza per concentrarsi su questa figura minuta, capace  di comunicare sentimenti universali quali l’uguaglianza tra i popoli, la libertà, il misticismo, un predicatore che gira il mondo per portare anche qui a Firenze la sua bandiera di pace. Il finale è un apoteosi di suoni, lo spettacolo è durato un po’ più di un ora, lui scompare dal palco col suo trolley così come vi è arrivato, veloce come il passaggio di una stella cometa.

Dal vostro Jankadjstrummer


 

“La rivoluzione non sara’ trasmessa in tv” Gil Scott-Heron (Chicago, 1/4/ 1949 – New York, 27 /5/ 2011)

“La rivoluzione non sara’ trasmessa in tv”.

Gil Scott-Heron (Chicago, 1/4/ 1949 – New York, 27 /5/ 2011)

Eravamo all’inizi degli anni ’70  quando Heron incise questo grido di battaglia diventato poi  l’inno dei ghetti neri delle periferie d’America dove era forte la discriminazione e la voglia di riscatto dei giovani, lui diventa, quindi,  la voce, la poesia,  lo spoker word cioè il Dylan dei neri che recitata su basi musicali soul e jazz; l’improvvisazione, per lui, diventa un tratto distintivo, l’impegno civile, la denuncia ma anche la vita di tutti i giorni viene trasposto in musica con molta originalità per quei tempi, tanto che ne  ricava uno stile, un modo di essere che diventerà, poi, il RAP che ora conosciamo. Oltre che per il suo attivismo militante afroamericano  Heron ha avuto il merito di rinnovare la musica nera, con una serie di album che lo portarono al successo e, soprattutto, influenzarono una intera nuova generazione di musicisti che, dalla fine del decennio, iniziarono a percorrere le strade del rap seguendo il suo insegnamento. «Non saremmo qui a fare quello che facciamo e come lo facciamo senza il tuo lavoro», ha commentato Chuck D dei Public Enemy, così come hanno fatto moltissimi altri artisti hip hop ( Eminem,Beatsie Boys) che hanno voluto tributare l’ ultimo omaggio al poeta/musicista. Iniziò a incidere musica nel 1970 con l’album Small Talk at 125th & Lennox con uno stuolo di musicisti jazz. L’album includeva Whitey on the Moon un brano in cui si scagliava  contro i grandi mezzi di comunicazione posseduti dai bianchi e dimostrava l’ignoranza della middle class, tenuta all’oscuro dai reali problemi delle grandi città. Poi Pieces of a Man del 1971 in cui i brani tornano ad essere canzoni con una struttura classica con poche parole in musica e senza sermoni recitati liberamente. Il suo più grande successo fu nel 1978, “The Bottle”, prodotto insieme al suo eterno collaboratore Brian Jackson, che arrivò in vetta alle classifiche R&B. Durante gli anni ottanta Scott-Heron continuò a pubblicare canzoni, attaccando di frequente l’allora presidente Ronald Reagan e la sua politica conservatrice: “L’idea riguarda il fatto che questo paese vuole nostalgia. Essi vogliono tornare indietro quanto possibile – anche se è solo fino alla settimana scorsa. Non per affrontare oggi o domani, ma per affrontare il passato. E ieri era il giorno dei nostri eroi del cinema a cavallo che arrivavano a salvare tutti all’ultimo momento. Il giorno dell’uomo col cappello bianco o dell’uomo sul cavallo bianco – o dell’uomo che arrivava sempre per salvare l’America all’ultimo momento – arrivava sempre qualcuno per salvare l’America all’ultimo momento – specialmente nei film di serie B. E quando l’America si ritrovò in difficoltà ad affrontare il futuro, cercarono persone come John Wayne. Ma dato che John Wayne non era più disponibile, si risolsero per Ronald Reagan – e questo ci ha messo in una situazione che noi possiamo solo guardare – come un film di serie B” (Gil Scott-Heron, “B” Movie) Poi, dal 1985 in poi, è iniziato il declino e la crisi dovuta soprattutto all’uso di droga, che lo ha allontanato dal mondo della musica, portandolo a rescindere il contratto con la sua casa discografica Arista e ad essere dimenticato dai grandi media. Nel 2001 Gil Scott-Heron fu arrestato per droga e per violenza privata, poi la morte della madre, la povertà e la cocaina lo portarono in una spirale negativa. Uscito di prigione nel 2002, Gil Scott-Heron lavorò con i Blackalicious e apparve nel loro album Blazing Arrow. Negli ultimi anni passò molti problemi giudiziari sempre legati all’uso di droga, era tornato, in grande stile, alla musica nel 2007 e poi nel 2010 pubblicò il suo primo album dopo dieci anni di silenzio, “I’ m new here”,  che ho recensito da queste pagine e che la critica e il pubblico accolse favorevolmente. A proposito del suo brano di maggiore successo “The Revolution Will Not  Be Televised” mi piace ricordare che, a distanza di un quarantennio, questo invito a mollare lo schermo e scendere in piazza, si sarebbe trasformato, in “The revolution will be tweeted”, cioè nella capacità dei social network di costruire e rappresentare in piena autonomia la rivolta dei giovani iraniani, tunisini ed egiziani; inoltre The revolution will not be televised, e’ il titolo di un libro dedicato alle potenzialita’ democratiche di Internet, scritto dall’intellettuale Joe Trippi vicino ai democratici americani). “La rivoluzione non sara’ trasmessa in tv/ la rivoluzione non andra’ in replica, fratelli/ la rivoluzione sara’ dal vivo”.

Discografia essenziale

  • Small Talk at 125th & Lenox Ave. 1970 Flying Dutchman Records
  • Pieces of a Man. 1971 Flying Dutchman Records
  • Free Will. 1972 Flying Dutchman Records
  • The first minute of a new day – The Midnight Band. 1975 Arista Records
  • From South Africa to South Carolina. 1975 Arista Records
  • It’s your world – Live. 1976 Arista Records
  • Bridges. 1977 Arista Records
  • Secrets. 1978 Arista Records
  • The Mind of Gil Scott-Heron 1979 Arista Records
  • Real eyes. 1980 Arista Records
  • Reflections. 1981 Arista Records
  • Moving target. 1982 Arista Records
  • Tales of Gil Scott-Heron and his Amnesia Express. 1990 Arista Records
  • Glory – the Gil Scott-Heron collection. 1990 Arista Records
  • Spirits. 1994 TVT Records
  • I’m new here. 2010 XL Recordings

R.I.P.  da Jankadjstrummer gil gil2

I POOH di PARSIFAL – TIMIDE STERZATE DI PROGRESSIVE by Jankadjstrummer

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I Pooh di Parsifal

Solo un paio di anni fa, a tutto avrei pensato tranne di dover scrivere un articolo sui Pooh, ma spesso accade che la nostalgia e le insistenze dei lettori tirano brutti scherzi; cosi ripesco un disco che bene o male ha accompagnato i giovinetti degli anni ’70 alle prese con i primi amori. Nelle feste in casa dei liceali era immancabile l’ LP Parsifal dei Pooh. La particolarità di questo disco sta nel timido tentativo, peraltro rimasto tale, di accostarsi alla nuova onda del  progressive. Questo album si compone di otto brani  melodici accompagnati dall’orchestra e da una suite di oltre dieci minuti che si ispira proprio a Parsifal, un dramma sacro di Wagner in cui la religiosità, il misticismo si coniuga con l’eroismo ma anche con i sentimenti. Proprio questa suite rappresenta per molti un bell’esempio di progressive proprio per la composizione ben articolata del  brano, in realtà non sono molto d’accordo con questa definizione perché ritengo che forse è più corretto parlare di pop-sinfonico con arrangiamenti ben costruiti che elevano la famosissima coppia “ Facchinetti-Negrini “, capaci di scrivere testi mistici e fantastici ed una buona musica pop. Ma Camillo Facchinetti detto Roby, Donato “Dodi” Battaglia, Stefano D’Orazio e Bruno Canzian in arte Red hanno sterzato solo per un attimo verso la sperimentazione, verso l’underground progressive scegliendo un itinerario molto più facile, che li ha portati ad un successo che dura da oltre 40 anni   ( è del 1968 “Piccola Katy” ). Ma veniamo alla suite Parsifal: dolci accordi di pianoforte danno il tempo alla narrazione del racconto che si diluisce fino alla ricerca dell’infinito. Il cavaliere senza macchia e senza peccato è alla ricerca del Sacro Graal, simbolo cristiano mistico che rappresenta  la ricerca del soprannaturale  e della vita eterna,  ma quando incontra la donna amata intesa come la vita terrena decide di rinunciare alla sua missione, e di concedersi definitivamente  alla sua amata (“le tue armi al sole e alla rugiada hai regalato ormai, sacro non diventerai“). L’amore terreno che si contrappone al sacro che in questo caso era la sua missione eroica. Torniamo però all’inizio del disco “L’anno, il posto, l’ora…” ha un testo direi epico, con una bella introduzione di chitarre arpeggiate acustiche ed elettriche molto ben congegnate. Il brano si compone di  due parti, la prima più eterea e sognante che è una metafora dell’amore irraggiungibile sfiorato solo per un attimo, con un lirismo straordinario che si fonde magnificamente con la musica , (“l‘anno il settantatrè il posto il cielo artico, l’ora che senso ha, d’estate è sempre l’alba, l’incontro di ogni giorno con l’immensità credo finisca qua) poi un crescendo di immagini che denota una prolungata attesa alla ricerca della bellezza da rivedere almeno per un istante in modo che possa imprimersi  e suggellarsi nella mente “suoni di vento e d’acqua che fermare vorrei… ma non c’è tempo ormai“, fino  a fondere in un crescendo corale sia con il suono che con la voce “e non dite a lei: non lo rivedrai, dite: non si sa, forse tornerà“, Ma come è accaduto per Parsifal la canzone, apparentemente semplice, è sempre in bilico tra il trascendente, il mistico e la vita reale, quella vera, quella vissuta, nella seconda parte infatti tornano le immagini nitide del quotidiano : “all’orizzonte là, il sole è un occhio immobile, è notte ma la notte qui d’estate è solo una parola” prima che un coro concluda con un bel fendente ben assestato affascinata e stanca la mia anima va, verso la libertà“.  Parlare degli altri brani che compongono questo lavoro diventa un pò superfluo: “Solo cari ricordi” è un branetto beat molto leggero che si ricorda per un assolo di chitarra finale., si ricorda ancora meno “Io per te per gli altri giorni”. Poi due ballate d’amore molto gradevoli in cui è ben in evidenza la chitarra e il piano “La locanda” e  “Lei e Lei”. La seconda facciata si apre con “Come si fa”  che si caratterizza per un bell’arpeggio di chitarra che apre il brano. “Infiniti noi” è un classico dei Pooh ben costruito per il successo di pubblico mentre in “Dialoghi” è molto bella la chitarra arpeggiata che poi diventa sottofondo del canto. Credo che le due perle del disco, l’apertura e la chiusura  valgano ad annoverarlo come l’unico lavoro dei Pooh meno commerciale, più di ricerca che la premiata azienda sia riuscita a sfornare. Un album romantico, epico che lavorando sulle immagini prova a descrivere emozioni e stati d’animo ancora sinceri.

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RIASCOLTATI PER VOI – JEFF BUCKLEY – Grace – 1994. by Jankadjtrummer

 

she’s the tear that hangs inside my soul forever…lei è la lacrima che resterà sospesa nella mia anima per sempre…  (Jeff Buckley, “Lover, you should’ve come “, dall’album Grace, 1994)

“Questo ragazzo è talento puro, deve essere nostro!” Sentenziò il responsabile della Columbia records quando assistette ad una esibizione di Buckley. Jeff Buckley classe 1966 era figlio della violoncellista Mary Guibert e del cantante Tim Buckley. Jeff iniziò a suonare la chitarra da bambino, era la sua grande passione. Suonò in vari gruppi ma solo nel 1990 avvenne la svolta: fu invitato a New York, ad un raduno di commemorazione del padre Tim deceduto per overdose, li incontrò il chitarrista Gary Lucas ( già nel gruppo di Frank Zappa )  con cui iniziò un vero sodalizio che lo portò, nel 1994,  alla pubblicazione del suo disco manifesto “Grace”. Purtroppo, oltre alle doti vocali, suo padre gli aveva lasciato in eredità anche un destino nefasto, e così, all’età di trent’anni, morì annegato in un fiume a Memphis. Rimetto sul piatto questo magnifico disco d’esordio di Jeff, 10 tracce suddivise tra canti liturgici e angelici  di forte impatto spirituale e ballate pop/rock/soul sorprendenti, un disco che non esagero a definire “pura Arte “. “Mojo Pin“, il pezzo che apre questo lavoro, corre  tra gli arpeggi delicati della chitarra di Gary Lucas, rullate di batteria e la voce quasi sussurrata ed  eterea di Jeff che man mano prende corpo fino a straripare e prendere il sopravvento sugli strumenti, un testo in cui l’amore non è mai banalizzato; Grace, la title track, rappresenta il viaggio contrastato tra la santità e gli inferi, che è resa immortale dalla progressione vocale di Buckley  che cambia di intensità e umore fino all’urlo finale che è da pelle d’oca. Il pezzo nasce da un sogno in cui una ragazza di colore si spara di eroina durante un rito voodoo. Il testo poi però diventa narrazione di sé stesso, “Grace” è una delle canzoni più belle di tutti i tempi. È Jeff che parla alla sua Rebecca di ciò che accadrà. I bellissimi versi iniziali recitano: “C’è la luna che chiede di restare/ abbastanza a lungo perchè le nuvole mi portino via,/ sento che la mia ora sta arrivando/ ma io non ho paura…“. Buckley si ferma. Poi sibila: “afraid… to die”! sembra una profezia della sua fine. “Last Goodbye” è una canzoncina senza pretese ma che diventa  struggente e poetica con la sua voce, rappresenta il lato più pop di Jeff, dove il termine “pop” va inteso nella sua accezione più nobile.. Dopo i tre primi gioielli di produzione propria ci presenta una cover di”Lilac Wine“, fa suo un testo malinconico in linea con uno “stile Buckley” una melodia che esalta le qualità di interprete di Jeff, che stavolta abbandona gli acuti per cantare in maniera più dolce perché la canzone richiede un’intensità quasi religiosa, un crescendo morbido del canto tra gli arpeggi di chitarra di Lucas. “So Real” emana un’atmosfera cupa, con i rintocchi grevi del basso e della batteria e le note della chitarra quasi dark, è certamente un brano rock “immediato”, ma non per questo ha qualcosa in meno degli altri: anche qui infatti Jeff si conferma grande interprete, grande compositore, grande autore di testi. La seconda cover: “Hallelujah“, pesca nel classico repertorio di Leonard Cohen, Jeff, qui,  tocca livelli di intensità interpretativa altissimi tanto che ritengo  la sua personalissima versione di gran lunga superiore all’originale. Proseguendo ci porta da un’atmosfera mistica ad una triste, malinconica: “Lover, You Should’ve Come Over” sale lentamente d’intensità, nel frattempo ti penetra nel cuore e nel cervello e ti sembra di veder passare il  corteo funebre, i tristi parenti con le scarpe bagnate dalla pioggia. “Lover” è la canzone d’amore di Jeff Buckley, una magnifica interpretazione che rende onore a delle liriche poetiche, da ascoltare e riascoltare più volte. “Corpus Christi Carol” ed “Eternal Life” sono due brani  di natura opposta il il primo è un canto religioso, sacro, il secondo è invece sorretto da chitarre impazzite quasi blasfeme. Solo sussurrata la prima. Un enorme grido di dolore la seconda; la sensazione è che il contrasto fra la violenza di questo pezzo e la pacatezza di quello precedente, rappresentino le due anime di Buckley.  La chiusura del disco è un’altra gemma, “Dream Brother“. Il testo è ancora una volta pura poesia, e la musica passa dall’arpeggio iniziale, quasi orientaleggiante, a un intermezzo strumentale di notevole interesse.Di tutte le canzoni di Jeff, questa è quella che più risente dell’influenza del padre Tim, sia  musicalmente che nel testo: rivolto a un proprio amico, Jeff lo prega di non lasciarsi morire, perché altrimenti i suoi figli sarebbero andati incontro allo stesso destino che Tim riservò a lui. Il disco straborda di candore, di purezza ma anche di tragedia, musicalmente Jeff prende il jazz, il soul, il punk  generi all’apparenza inconciliabili e riesce a tenerli insieme, credo che sia questa la sua genialità e la sua arte. Lui un ragazzo vissuto in forte solitudine, ha cercato qualcosa su cui aggrapparsi e l’ha trovato in Rebecca la musa ispiratrice di almeno la metà delle canzoni, la donna che definisce angelo terreno, che lotta affinché gli uomini rimangano con lei, qui sulla Terra, in mezzo a quest’inferno che è la vita (“Wait in the fire”), ma la tragedia incombe, lui sente che la morte arriverà presto a prenderlo, perché il destino così ha deciso. Non voglio essere retorico ma credo che sia impossibile ascoltare questo disco senza  provare un pizzico di commozione, senza  lasciarsi andare a riflessioni sulla propria vita, sui propri sentimenti, senza vagare con la mente e scavare nelle proprie inquietudini e nei propri dolori. Grazie Jeff.

Buon ascolto da JANKADJSTRUMMER

Discografia essenziale

  • 1994 – Grace
  • 1998 – Sketches for My Sweetheart the Drunk ( postumo )
  • 2007 – So Real: Songs from Jeff Buckley ( raccolta)

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RISCOLTATI PER VOI – PINK FLOYD – Wish You Were Here, my crazy diamond by Jankadjstrummer

RISCOLTATI PER VOI – PINK FLOYD – Wish You Were Here

Remember when you were young, you shone like the sun, shine on you crazy diamond!

L’anno 1975 è il periodo di massima creatività e di popolarità per i Pink Floyd, reduci dal successo planetario di The Dark Side of the Moon, escono con un altro capolavoro, un album in cui cambiano gli ingredienti classici del gruppo, qui si trova una grande tristezza e una sincera malinconia per l’abbandono forzato, a causa dei suoi disturbi mentali, di Syd Barrett, storico componente del gruppo,. L’album è dedicato a lui, vengono ripercorsi riferimenti ed episodi del passato, si tratta di un tributo sincero a colui che ha contribuito alla grandezza e alla fama del gruppo londinese. Ieri sera ascoltavo, in macchina, Virgin Radio ( che consiglio  agli appassionati di rock), la conduttrice, introducendo il brano “wish you were here dei Pink Floyd, raccontava che durante la registrazione del disco, lo stesso Barrett, visibilmente provato a causa della malattia, fosse passato in studio per ascoltare alcuni brani, lasciando i suoi vecchi compagni sconvolti e in lacrime nel vederlo in quello stato, a quel punto pare che David Gilmour imbracciò la sua chitarra acustica e intonò alcune note blues e qualche strofa che sarebbero state la base del brano ‘Wish you were here‘, una delle canzoni più conosciute e amate dei Pink Floyd (‘running over the same old ground, what have we found? the same old fears – wish you were here‘) L’album, nei 44 minuti di eccellente musica, non mostra nessuna specifica dedica, ma il titolo, “Vorrei che tu fossi qui” è molto esplicito. Nel brano Roger Waters ha scritto: “… Come vorrei che tu fossi qui. Siamo come due anime sperdute che nuotano in un vaso di pesci, anno dopo anno, ricoprendo gli stessi vecchi posti. Cosa abbiamo trovato? Le stesse vecchie paure. Come vorrei che tu fossi qui… “. Quest’invocazione viene rafforzata in ” Shine On You Crazy Diamond” (Brilla, tu pazzo diamante) il brano che apre e chiude l’album dice più o meno questo: ” …Tu hai raggiunto il segreto troppo presto, hai gridato per la luna. Brilla, tu pazzo diamante… Nessuno sà dove sei, quanto lontano o vicino… Ammucchia più strati e ti raggiungerò là. Brilla tu pazzo diamante. E suoneremo all’ombra dei trionfi di ieri, e navigheremo sulla brezza di ferro. Su dai, tu ragazzo bambino, tu vincitore e fallito, su dai, tu minatore di verità e delusione, e brilla!... “.  “Syd è sempre stato avanti con i tempi” dice il  batterista Nick Mason, “Ad un certo punto si è lanciato avanti cosi precipitosamente creando un profondo baratro tra il normale e l’anormale. Fai presto ad impazzire quando ti trovi completamente isolato, quando non trovi nessun filo comunicativo tra te e il mondo che ti circonda”.  Ma veniamo all’ascolto del disco: parte un lieve suono di organo e mellotron che con un sintetizzatore in crescendo traccia un leggera melodia che scorre piano fino a che la Fender di Gilmour prende le redini per condurci da sola verso un sogno onirico piano piano scompare il sottofondo dell’organo e del mellotron è l’inizio della prima parte della maestosa   ‘Shine on you crazy diamond” che apre e chiude la magia. La Batteria e il basso entrano in veloce crescendo e la chitarra si unisce al fraseggio del brano, qui Gilmour e soci sono ispirati c’è tanto sentimento nella esecuzione, Roger Waters inizia il canto: ” Ricordi quando eri giovane, brillavi come il sole”, poi la frase ” Brilla, tu pazzo diamante” eseguita a più voci con estrema potenza. Nel ritornello torna la limpidezza della chitarra Fender. Gilmour e Wright si spalleggiano, accompagnati dal sax, fino alla dolcissima chiusura. Rumori metallici e un basso in perfetta stereofonia a cui si aggiunge il suono di una chitarra acustica in perfetto stile Floydiano, apre al brano “Welcome To The Machine” (Benvenuto alla macchina). Ritorna il mellotron e il sintetizzatore si concede ad assoli accompagnato da un basso saltellanti. Incursioni di timpani e una chitarra acustica ci porta verso la fine del brano che avviene con rumori di porte che si chiudono e fruscii è il brano più psicadelico dell’album che richiama i primi lavori del gruppo. Una bella chitarra rock, il basso, la batteria e il sintetizzatore aprono la seconda parte del disco il brano si intitola ” Have A Cigar” (Prendi un sigaro) ed è cantato da Roy Harper. Il lavoro di tastiera passa ora al mellotron e al piano elettrico, poi un assolo di chitarra che viene più tardi accompagnato dal sintetizzatore e dal mellotron e la musica si allontana, due chiacchere sensa senso, note classiche e chitarra acustica ci introducono a “Wish You Were Here”. Batteria, basso e piano accompagnano una bella chitarra acustica che fa da base ad un testo particolarmente triste incentrato sull’ abbandono. Un fruscio  del vento che ricorda l’album “ Meddle”  segna l’inizio della seconda parte di  “Shine On YouCrazy Diamond” condotta dal sinth accompagnato chitarra ritmica, basso, batteria; una “steel guitar” dialoga con il sinth fino al ritorno dell’inizio del disco. A questo punto vi consiglio un riascolto del disco per cogliere le tante sfumature di questo capolavoro del rock. Wish You Were Here si può definire un disco perfetto sia nei testi che nella musica, un concept album incentrato sull’assenza: della parola, ma anche dell’individuo e del pensiero. Voglio segnalare, infine, la bella copertina del disco: due mani meccaniche che si stringono l’una con l’altra, e due uomini ( uno quasi torcia umana ) che si stringono la mano, un gesto convenzionale utilizzato solo per routine senza mai coglierne il vero  valore.

Buon ascolto o riascolto da JANKADJSTRUMMER

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IN VIAGGIO CON LA CAROVANA DI SERGIO CAMMERIERE

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IN VIAGGIO CON LA CAROVANA DI  SERGIO CAMMERIERE

Ascolto volentieri chi mi consiglia dei dischi così quando in una e-mail il Dr Nac mi proponeva l’ascolto di questo “Carovane” di Sergio Cammariere e di scrivere un eventuale recensione, mi sono detto “ beh sicuramente non è il mio genere, si tratta di un cantautore da piano bar che è gradevole ascoltare mentre si amoreggia con la propria amata o si sorseggiare un drink, ma niente più, ma proviamo.

Le note di copertina danno conto di un nugolo di musicisti ospiti nel disco di cui la maggior parte di estrazione jazz,  Fabrizio Bosso (tromba e flicorno), Xavier Girotto (sax baritono e soprano), Luca Bulgarelli (contrabbasso), che la dice lunga sul suono che vuole ottenere il cantautore crotonese.

Non mi resta che montare su questa Carovana e sentire dove mi condurrà, spero verso territori musicali inesplorati. Il disco si apre con la title track “Carovane” caratterizzata da un testo poetico che termina con un verso che colpisce “La tesi di cui qui trasformo in canto / il segno che rimane e non consola / la mela da cui Eva staccò il morso / più mi perdo e più mi riconosco” accompagnato da un assolo di sax veramente notevole. Già questo brano allarga gli orizzonti, il testo raffinato affidato al paroliere Roberto Kunstler,( che firma credo tutti i testi del disco), suoni orientali di sitar donano una inconsueta magia al brano. Il secondo pezzo “Insensata ora” apre in maniera superba, percussioni, piano e flicorno che lasciano il posto alla voce di Sergio e al suo consueto modo di cantare che risulta uguale a se stesso. Cosa che non accade nel brano “Senti” anch’esso pregno di percussioni e suggestioni orientali, ma questa volta la voce è intensa, un canto d’amore addolcito da una sezione di archi pregevole. Certo la sua non è una svolta artistica radicale questo lavoro si divide tra brani vecchia maniera e  brani riconducibili a questo nuovo percorso. Con il terzo pezzo si torna alle atmosfere jazzate che ben conosciamo “Senza fermarsi mai”,  di nuovo si concede solo le percussioni in perfetto stile sudamericano, Poi  “I quadri di ieri”, un balletto di piano, sax e gli archi che chiudono il brano, dominato nel testo da una profonda  nostalgia “ Nei quadri della nostra giovinezza c’è un colore dominante / nel cielo che descrivere non so / le fughe verso mondi immaginari / dove fingere non puoi indifferenza” E’ il solo pianoforte di Sergio C. ad introdurre uno dei brani più originali dell’intero lavoro “La mia promessa” in cui la poesia si intreccia perfettamente alle sonorità orientali, del sitar e del tampur, regalandoci un brano davvero pieno di fascino. “Quanti cieli limpidi vedrò / e costellazioni su di noi / questo cielo infinito che brilla per noi / e anche lì dove vivi risplende per te”. Il disco continua con  “Non c’è più limite” un brano dignitoso supportato da un buon ritmo di tromba e chitarra elettrica  ed un testo che affronta il destino dell’uomo in questo mondo privo di regole  “Varanasi”, invece, è un brano solo strumentale, il pianoforte, nelle mani sicure di Cammariere, è reso vibrante, ottime sono le percussioni che lo accompagnano. Poi due brani “Paese di finti” e “Storia di un tale”: la prima è uno  swing, pieno di invettive dove ce n’è per tutti: “finti di calcio o di politica in tv / democristiani e leghisti / ma il sesso rimane tabù, / finché la notizia di quel presidente in mutande / fa il giro del mondo e diventa una cosa che fa / di un’hostess qualunque una diva una celebrità” un brano al limite del qualunquismo contro questo Paese “di destra o di sinistra cosa importa / la storia è come un tunnel senza uscite / ma il palazzo del potere sai che di porte non ne ha”. Poi “Storia di un tale”, malinconico ricordo dell’amicizia di due giovani che sognavano la rivoluzione e correvano dietro alle utopie ambientaliste, la canzone è sicuramente autobiografica parla di Lui e del paroliere  Kunstler che hanno percorso un cammino di amicizia e di collaborazione iniziato tanti anni fa.  Si continua con il brano  “Tre angeli” un brano fuori dagli schemi con un testo in stile medievale  e con gli archi ben in evidenza  è decisamente originale “Tre angeli sulla strada tra nuvole e paradiso / camminano sul tempo ancora non diviso e piangono quando è sera / le vittime della guerra e si alza la bandiera per tutti sulla terra / e il secondo dice è strano / ma nessuno ha la risposta / tutto è falso tutto è vero tutto gira senza sosta / il terzo resta zitto si limita a guardare / la strada che finisce dove comincia il mare” Il disco chiude con “La rosa filosofale” qui  le parole sembrano tratteggiare ampi orizzonti che derivano da una ricerca spirituale che porta verso nuovi interessi, è senzaltro il brano che preferisco quello più caratterizzante, parte con sonorità arabeggianti  eteree  e ci conduce per mano verso un misticismo introspettivo: “L’altro è un concetto infinito / se tu sai che Io è un altro” e poi “Dentro sento il soffio del vento / altre volte mi osservo / altre volte invece mi interrogo / sulle cose che di me poi non so”.“Carovane” è un disco importante, ben suonato, con testi accattivanti è particolarmente elegante, Cammariere con questo suo quarto lavoro si ritaglia un pezzo importante nel panorama dei nuovi cantautori italiani.

Buon ascolto da Jankadjstrummer
Tracklist:

* Carovane
* Insensata ora
* Senti
* Senza fermarsi mai
* I quadri di ieri
* La mia promessa
* Non c’è più limite
* Varanasi
* Paese di finti
* Storia di un tale
* Tre angeli
* La forcella del rabdomante
* La rosa filosofale

SHANTEL – LA BEATIDUDINE DI UNA FOLLA ETEROGENEA by Jankadjstrummer

SHANTEL – LA BEATIDUDINE DI UNA FOLLA ETEROGENEA

Stefan Hantel meglio conosciuto come Shantel viene da Francoforte ed è un DJ che deve la sua fortuna alla  passione per le orchestrine di ottoni zingari; la sua maestria sta nel miscelare  i battiti elettronici con le fanfare tradizionali tipiche dei Balcani. DJ Shantel ha iniziato inserendo nei ritmi elettronici, squisitamente da discoteca, la tromba di Boban Marković e costruendo un suono molto singolare e godereccio. Se vogliamo, nel suo genere, è un pioniere e ha saputo costruire un concetto nuovo di musica da ballo, il suo Bucovina Club è, ormai, itinerante e riesce ad attrarre folle di giovani accomunati dalla voglia di divertirsi e ballare con sonorità contaminate . Shantel  nel 2007 è uscito con un  disco intitolato “Disko Partizani” un album che getta le basi su un nuovo concetto di musica pop che  rappresenta, secondo me, il suono della nuova Europa che concentrata nel mezzo del nostro vecchio continente, ha però subito influenze dalle nuove frontiere che si estendono a tutte la Mitteleuropa, a Sud-Est, alla Grecia e  alla Turchia.  Disko Partizani è un lavoro corale, una grande performance,  una schiera di musicisti provenienti da sud-est Europa e da Shantel stesso che si insinua in diverse tracce con  inattese ed eleganti incursioni. Sono molto cariche e divertenti  le sue esibizioni dal vivo, Shantel ha scritto la musica originale di “The Edge of Heaven”, il nuovo film di Fatih Akin che ha  vinto un premio all’ultimo Festival di Cannes. Invito all’ascolto a chi volesse approfondire, scaricate e non vi pentirete.

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Willy De Ville, il pirata del rock (Stamford, 25 agosto 1950 – New York, 6 Agosto 2009)

Willy De Ville, il pirata del rock

(Stamford, 25 agosto 1950 – New York, 6 Agosto 2009)

La scomparsa di Willy DeVille è passata un po’ in sordina perché  il personaggio non era così famoso da invadere la carta stampata e la TV, ma per chi lo ha amato la sua perdita ha lasciato il segno. La sua avventura iniziò nella New York  nevrotica ed elettrica dei Ramones, dei Talking Heads e dei Television, di fine anni 70 sul palco del leggendario  CBGB, il club che ha visto nascere il fenomeno punk. Il suo gruppo si chiamava Mink  De Ville ma solo lui ne incarnava l’anima. Magrissimo capelli lunghi, camicia da corsaro e orecchini, il meticcio Willie si presentava sul palco per proporre un rock ibrido, contaminato, un mix di punk e musica latina, violenza ma anche poesia e lirismo, suoni forti e taglienti a cui si contrapponevano  morbide  ballate, un genere che sarebbe diventato una delle sue migliori espressioni. I primi album dal 1977 al 1981 («Cabretta», «Return To Magenta», «Le Chat Bleu») fanno emergere  un grande artista con una forte componente di  versatilità. Il suo motto era fare una musica con più ispirazioni, da «cane randagio» come si definiva. Non era un «chicano» come si poteva pensare ascoltando molti dei suoi brani. Era nato infatti a Stamford, nel Connecticut, sua nonna era un’indiana irochese, ma c’era in lui anche sangue irlandese e basco. Queste radici, in qualche modo, devono aver contribuito a farne un musicista eclettico. Successivamente  pubblica «Coup de Grace», uno degli album migliori della prima parte di carriera. Il cambio di etichetta coincide con il  cambio definitivamente del nome da Mink De Ville a Willy De Ville, trova definitivamente un suo stile personale che gli regala di discreto successo con l’album «Miracle» del 1987. Trasferitosi a New Orleans nel 1988, è influenzato dallo stile e dal suono  prodotto dalla prima colonizzazione francese (la musica cajun e lo  zydeco) e il R&B della zona del Delta, pubblica, quindi,  «Victory Mixture» (con la presenza di grandi musicisti di quell’area) e «Loup Garou» (1995). Dalla Louisiana un nuovo trasferimento, questa volta in New Mexico, con un ritorno a musiche ispirate alle tradizioni del Sud degli Usa e alle melodie di ispaniche. Tra i brani più famosi della sua lunga carriera c’è la bellissima e latina «Demasiado Corazon» (in Italia usata come sigla di Zelig) ma anche una versione «mariachi» del classico «Hey Joe» di Jimi Hendrix. La sua vita privata non è stata molto fortunata. Sposato tre volte, le sue due prime mogli sono entrambe morte. Willy De Ville era tornato a vivere a New York dal 2003. La sua carriera si chiude con il suo ultimo album “Pistola”, del 2008, un album dignitoso forse meno ispirato degli altri, ma gradevole. A tutti gli appassionati di musica resto il ricordo di un musicista atipico capace di stupire per versatilità e genuinità musicale, da riascoltare i suoi album migliori, in particolare quelli di inizio carriera o il live del 1993. Personalmente di lui mi resta il ricordo del suo concerto di Firenze, nella splendida cornice del Piazzale Michelangelo, in cui il pirata con la chitarra sguainata come una spada, sulla prua del galeone, mi ha traghettato  verso posti esotici e sconosciuti perché in quel concerto antologico aveva  accantonato  le cupe sonorità per recuperare quelle ballate solari e vibranti che avevano caratterizzato tutta la sua produzione degli ‘80, sfoderando una  voce energica, viva e tanto maledettamente black.                                    Thank you Willie  da JANKADJSTRUMMER

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PATTI SMITH – SETTEMBRE 1979 LA SACERDOTESSA DEL ROCK IN CONCERT – Jankadjstrummer

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“Gesù è morto per i peccati di qualcuno, ma non per i miei” dal brano GLORIA album HORSES.

Qualche anno fa Patti Smith era a Firenze all’inaugurazione di una mostra fotografica retrospettiva, peraltro bellissima, dedicata a  Robert Mapplethorpe suo primo compagno, morto di AIDS negli anni ’80, in quell’occasione rilasciò una intervista in cui senza troppi preamboli definì Firenze la sua Woodstock, lei, affascinante icona del rock, vestita con una giacca di pelle da uomo, capelli in disordine, con un sorriso sornione ma  sincero. Si riferiva al concerto fiorentino di 40 anni fa, il più importante della sua carriera, che ha avuto lo stesso valore di Woodstock, quella sera – disse – io e le migliaia di persone presenti abbiamo vissuto il rock come espressione di libertà, come affermazione di se stessi. Fu un gigantesco e corale “ io ci sono”. Anche io, con una miriade di amici, ero allo Stadio Comunale, parto dalla “mia” cronaca, dal modo in cui ho vissuto l’avvenimento e come sono stato segnato dalla sua musica. Un’avventura personale che ha coinciso con quella di migliaia di giovani  ora adulti, almeno anagraficamente, perché Patti Smith è uno dei pochi nomi del rock che può veramente vantarsi di aver inciso sulla storia e sul costume del nostro paese. Era settembre del ’79 i giornali annunciarono il mini tour di Patti Smith con un alone di mito, ricordo i giornali di sinistra Lotta Continua e il Manifesto uscirono con due paginoni interni in cui si parlava di poesia e rock e si beatificava la sacerdotessa del rock,  questo contribuì a fare crescere l’interesse di tantissimi ragazzi che facevano ben sperare in un nuovo inizio, nonostante la consapevolezza del mondo ormai cambiato, della situazione politica e sociale Italiana ormai deteriorata, dove il terrorismo, la morte di Moro, i movimenti allo sbando, gli ideali di libertà erano ormai svaniti. A questo  richiamo rispose  Firenze, con un bagno di folla, in nome del rock, un bagno di folla che avrebbe dovuto spazzare vie le scorie negative di una generazione, ma che segnò invece, l’inevitabile declino. Il mio approccio con la cantante-poetessa fu l’ascolto di una versione di Hey Joe che trovai in una compilation di musica pre–punk americana nel 1977 e poi l’ascolto in radio di una grande cover di Gloria dei Them di Van Morrison. La mia curiosità ha fatto il resto, l’acquisto dell’album Horses in un negozio di Firenze di dischi usati dietro il Duomo, un libro di  poesie, poi aver letto sulle mie riviste di musica rock , di cui ero un forte consumatore, che i suoi ispiratori erano  Arthur Rimbaud, Pierpaolo Pasolini e William Burroughs, personaggi, per me, intellettualmente molto affascinanti e straordinari. Era una ventata di novità e di interesse, Patti Smith incarnava la migliore tradizione del rock ribelle che ritornava a farsi sentire. Non aveva nessuna tecnica ma dotata di una voce straordinaria, era al tempo stesso profeta ma contraddittoria nelle sue esternazioni, quello che si può definire una artista “ americana “ priva quindi del rigore intellettuale e politico che in quegli anni era dominante. Entrammo allo stadio dopo aver costituito una comitiva di amici, una trentina di  persone, tutti studenti universitari provenienti da più sedi, tutti molto eccitati e pieni di entusiasmo, ci eravamo organizzati per dormire quella notte, a casa di una nostro amica, almeno 15 persone in 2 stanze, ma era bello così!  Sul prato sotto un sole ancora cocente eravamo già più di trentamila,gli spalti già pieni, era chiaro che, questa volta non era un concerto di musica e di divertimento ma c’era una febbrile attesa su quello che avrebbe detto la nostra sacerdotessa, che sermone ci avrebbe recitato. Il concerto iniziò all’imbrunire, era settembre, la musica potente, la sua voce che fendeva l’aria, eravamo un po’ lontani dal palco ma riuscivamo a vedere lei che si contorceva, ricordo il suo corpo accovacciato con le mani che impugnavano il microfono con aria di sfida, sotto il palco un gran fermento, fischi e lanci di ogni cosa, il popolo del rock non gradì affatto la bandiera americana tesa sul palco, né la voce di sottofondo del papa buono Albino Luciani trasmessa in uno stadio accaldato, lei che arringava la massa umana intimando un “ seduti” che non arrivava mai, la gente avrebbe voluto sentire ben altro, una incitazione, una proposta, una utopia, parole di rivoluzione, avrebbe voluto sentire che la forza della poesia e del rock che nasce dal ritmo dei neri importati dall’Africa con il sangue e la sofferenza, si trasformano in rock’n’roll e lotta. Anche io rimasi un po’deluso, anche se appagato dalla musica, perché i discorsi tra un brano e l’altro puntualmente tradotti in simultanea da una ragazza australiana con noi al concerto, non andavano nella direzione da me sperata, tuttavia  la serata fu splendida e la compagnia era quella giusta.  A distanza di 35 anni ho rivisto un suo concerto al Sashall, tutta un’altra atmosfera, tanti capelli grigi, un po’ di nostalgia, ma molta buona musica per le mie orecchie specie nella riproposizione di brani di rock classico riletti da Patti Smith con la sua inconfondibile originalità nell’ album Twelve del 2007, fino alla apoteosi di Because the night e People have the power.

JANKADJSTRUMMER

DISCOGRAFIA ESSENZIALE
Twelve  ( 2007)

Gung-Ho (2000)
Gone again (1996)
Dream of life (1988)
Wave (1979)
Easter (1978)
Radio Ethiopia (1976)
Horses (1975)

Non ci sono video di quella notte, c’è però questo spezzone del concerto di Bologna sempre del settembre 1979, la scaletta era simile ma non c’è la magia, il clima e il pathos del concerto di Firenze.