Mi osservo le scarpe, sono bianche e nere del tipo sportivo, il nuovo capo continua a parlare, sembra un fiume in piena che gongola dei flutti e dei mulinelli creati dalle proprie parole.
I miei colleghi muovono la testa ritmicamente un po’ verso su e un po’ verso giù, forse fanno qualche esercizio per la cervicale che dovrei imitare per non incorrere in problemi prossimo-futuri.
D’un tratto il suono monocorde cambia, smette il tono amichevole e mi spara una domanda come una volta facevano i professori con gli alunni un poco disattenti, per vedere se stanno seguendo la lezione. Alzo lo sguardo, sfodero uno dei miei irresistibili sorrisi e inizio a parlare.
Vomito parole come un vulcano incontinente, come la folla all’uscita dallo stadio dopo una sconfitta, come milioni di spermatozoi lanciati a bomba per raggiungere l’agognato ovulo.
Ora i colleghi sono fermi. Bloccati. Hanno smesso gli esercizi. Trattengono il respiro a mo’ di pranayama e il capo è lì, attonito. Sapeva che ci sarebbero stati problemi e che sarei stato io l’angelo infedele a portare la cattiva novella.
Sembra smarrito, all’angolo, in balia dei colpi a salve… ma è un combattente esperto, lo avevo intuito, incassa perché sa che la fine del round è vicina e non potrò reggere a lungo quel ritmo.
Si sfila gli occhiali, li pulisce con una cravatta color oro che non avevo notato fino a quel momento
e poi mi invita in un prossimo incontro a quattr’occhi.
Che posso fare? Accetto, mi zittisco e ricomincio ad osservare le mie scarpine belle belle.
Neanche a dirlo, ho avuto problemi prossimo-futuri ormai vecchi e stanchi anche loro.