“Una stanza tutta per sé” di Virginia Woolf

“Per tutti questi secoli le donne hanno avuto la funzione di specchi, dal potere magico e delizioso di riflettere raddoppiata la figura dell’uomo.”

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“Una stanza tutta per sé” di Virginia Woolf

Una stanza tutta per sé” di Virginia Woolf è un lungo ed esaustivo monologo. Con attenzione ai dettagli, con curiosità, l’autrice ci fa sbirciare nel processo creativo della sua mente. Questo lavoro è un espediente per parlare del tema riassunto nel titolo “una stanza tutta per sé”.
È una frase del nipote di Jane Austen in riferimento alla zia scrittrice che ritroviamo nel libro che ha scritto su di lei. “È sorprendente (il fatto che scrivesse), poiché non aveva uno studio personale in cui isolarsi e la maggior parte della sua opera è stata scritta nella stanza di soggiorno comune, soggetta a ogni sorta di interruzione casuali.” E su questa considerazione ruota tutto il monologo-saggio della Woolf, ossia la grave assenza di opere femminili (nella letteratura, ma anche nelle altre arti) prima ancora dell’800: forse, sostiene l’autrice, perché esse non avevano uno spazio tutto per loro in cui riversare i propri talenti.

La società elisabettiana, per esempio, non era ben disposta ad accogliere lavori di matrice femminile,perché non era previsto che una donna uscisse fuori dallo schema di figlia-moglie-madre. Soprattutto,però, bisogna ricordare che la loro vita era articolata in un modo tale che solo chi aveva mezzieconomici ben sicuri poteva dedicarsi all’hobby della scrittura. Tutte le altre con una discretaeducazione, ma senza una rendita, potevano solo ritagliarsi spicchi di tempo in cui dedicarsiall’imbrattare fogli.

Le arti letterarie erano una prerogativa maschile e chi dell’altro sesso osava emulare, e perché no migliorare, questo campo con il suo contributo veniva accolta generalmente con molti pregiudizi. Come dice la Woolf, non perché pensassero che la donna fosse da meno perché il pensiero, così formulato, è sbagliato. Non si accusavano le donne di essere da meno, ma si lodava il talento naturale del mondo maschile: “quel desiderio profondo non tanto che lei sia inferiore, quanto che lui sia superiore”.

Sono poche le donne che riescono a emergere da questi limiti. La stessa poetessa Annie Finch, contessa di Winchilsea, evidenza come tale aspirazione sia mal vista:

“Ahimé! La donna che tenta la penna
è stimata creatura tanto presuntuosa
che nessuna virtù può redimere il fallo”.

Eppure si deve anche a questi primi passi, spesso disprezzati, se molte autrice sono diventate quelle icone della letteratura che noi conosciamo.”Perché i capolavori non nascono solitari e isolati; sono il risultato di molti anni di pensiero comune, il pensiero del corpo popolare, per cui dietro quella singola voce c’è l’esperienza della massa.

Questo è un lavoro introspettivo, che indaga e ricerca come le donne siano state relegate ai margini della creatività perché spesso ritenute senza molti talenti. Virginia Woolf ci mostra come spesso l’agiatezza economica e l’appartenenza al giusto sesso siano state la carta vincente per far conoscere la poesia, il romanzo, la pittura, perché “il poeta povero […] non ha uno straccio di opportunità”.

Cosa resta dunque a chi oggi vuole scrivere? La consapevolezza di essere una creatura fortunata, soprattutto se donna, perché se guardiamo indietro c’è chi ci ha spianato la strada. Se non ci fossero state le Austen le Bronte e le stesse Woolf difficilmente oggi le donne saprebbero che non solo sono capaci di scrivere, ma che lo fanno anche bene.

E avere una stanza tutta per sé non è dunque più una necessità, ma sicuramente una piccola conquista.

“I Viceré” di Federico De Roberto

“La storia è una monotona ripetizione; gli uomini sono stati, sono e saranno sempre gli stessi.”


La morte della principessa Teresa apre la questione dell’eredità nella nobile famiglia siciliana conosciuta come i Viceré. Un testamento che spoglia dell’intero patrimonio la legittima successione del maggiore, il principe Giacomo, rendendolo coerede con il conte Raimondo, prediletto dalla madre. Non solo: altri lasciti agli altri cinque figli che creano tumulto in una famiglia già smembrata dall’autorità materna fin troppo severa con tutti.

E i lettore inizia a conoscere i vari membri di una famiglia nobile, fiera di esserlo, consapevole di occupare un posto importante nella società antecedente all’Unità d’Italia. I due fratelli Angiolina e Ludovico, destinati alla vite ecclesiastica facendo credere loro, fin da giovani, che tale destino è il più auspicabile, ma di fatto è solo un espediente per non dover creare e disporre la dote per loro. Poi c’è Chiara, contraria al matrimonio, ma poi innamoratissima, fino all’esagerazioni, verso il marito, oppure Lucrezia, testarda nel voler sposare un facoltoso giovane senza sangue nobile nelle vene, che poi si pente della propria scelta; sullo sfondo Ferdinando, chiamato dalla madre “Babbeo”, dedito a ogni capriccio la mente gli possa suggerire nella sua isolata casa di campagna.

Poi le macchinazioni del primogenito Giacomo, per riprendersi con gli inganni ciò che è suo di diritto, così maltrattato dalla madre tanto da non rendersi conto del ripetersi di tali errori nemmeno con suo figlio Consalvo. I divertimenti di Raimondo, infine, la sua superficialità ai danni dei sentimenti di chi lo ama, la sua fredda voglia di essere sempre del partito contrario a chi vuole solo aiutarlo per il suo bene.

101909917_311296596541808_3052397042102960128_nI Viceré” di Federico De Roberto è un romanzo che parla al lettore delle vicissitudini, più o meno serie, di una grande e antica famiglia, ma non solo. Pone l’accento sulla questione politica della Sicilia di metà ottocento, del Risorgimento, con la caduta dei Borboni a favore dei Savoia, intrecciando gli eventi noti con quelli degli Uzeda. Una famiglia nobile, con radici spagnole, con un alto senso di sé che contagia tutti.

Stravaganti e impopolari, amati e criticati, i Viceré affrontano i cambiamenti politici di pari passo con quelli familiari. Ed è Consalvo, la nuova generazione, il ragazzo che fa valere la democrazia solo per mascherare la sua voglia di primeggiare, che riassume bene i tratti degli Uzeda:

 “Ma la storia della nostra famiglia è piena di simili conversioni repentine, di simili ostinazioni nel bene e nel male.”

È il racconto di una famiglia orgogliosa che si interfaccia attraverso i suoi membri, da una generazione all’altra, che ci mostra il passaggio spesso più polito che reale verso una nuova realtà dinastica senza dimenticare il forte attaccamento alla “roba”, ai testamenti, alla superbia che si nasconde dietro a un casato.

A parte alcune espressioni un po’ obsolete per il lettore moderno, “I Viceré” ha la forza di incantare il lettore attraverso i suoi protagonisti e le loro sorti. Colpisce le tradizioni legate alle famiglie che raccoglievano il patrimonio per un unico erede, destinando gli altri figli a scelte imposte, come la chiesa o una vita priva di affetti di una famiglia propria.

Un libro maestoso, un racconto che non si dimentica di nessuno, che non crea né eroi né cattivi, perché l’uomo può essere entrambe le cose, ma spesso di lascia solo guidare dal proprio interesse.

“L’uomo senza inverno” di Luigi La Rosa

“Gustave Caillebotte vi si avvicinò, riconoscendolo come si farebbe con un destino.”

Gustave Caillebotte è poco più che un ragazzino quando si ritrova davanti al dipinto di Manet, Le déjeuner sur l’herbe. Un quadro incompreso, beffeggiato, ma che per lui è quasi una rivelazione. Le sensazioni provate davanti al colore, al soggetto, alle atmosfere del quadro gli parlano di una realtà e di un talento che forse la sua epoca non è pronta a capire. Ed è sempre molto giovane quando sente il bisogno di riprodurre su un foglio ciò che i suoi occhi e la sua mente vedono, anche se vorrebbe fosse un segreto. Le aspettative della famiglia Caillebotte non contemplavano, infatti, quella di vedere il maggiore dei loro tre figli trafficare con pennarelli e tele come uno di quegli artisti che popolavano i café parigini. Cosa può, però, l’uomo davanti a un destino e un talento già tracciato?

La narrazione de “L’uomo senza inverno” di Luigi La Rosa“, è scandita dalle quattro stagioni che segnano, in maniera figurativa, i momenti salienti della vita dell’uomo e dell’artista.

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Gustave Caillebotte, Autoritratto (Olio su tela, 1892)

Così nella primavera e nell’estate troviamo Gustave giovanissimo, un ragazzino che scopre il canto delle sirene fatto di colori e tavolozze. Un nuovo mondo, una nuova percezione della vita attraverso le prime pennellate che si scontrano con le rigide aspettative della sua famiglia. Un arco temporale scandito dalla scoperta della pittura e dalle palpitazioni legate alla scoperta di sé, del suo corpo e della sua anima. Una primavera che vede l’uomo lasciare dietro di sé le spoglie dell’adolescente e far sbocciare, lentamente, i petali del pittore, attraverso un mondo che vortica intorno ad artisti il cui nome oggi ci fa emozionare: l’amicizia con Monet, Renoir, i battibecchi con Degas, i consigli di Manet. Tanti nomi illustri, tanti universi che fecero della Parigi dell’epoca il prato fertile dove l’arte si impose con nuovi schemi.

Ogni scena è una pennellata che La Rosa regala ai suoi lettori: ci sono i toni chiari e soffusi dell’infanzia, le tinte fosche delle dure scelte di vita e i colori accesi della passione per la pittura. Un quadro di sensazioni che fanno a gara con quelle dei colori delle tele di Caillebotte, una cornice per una vita trascorsa a omaggiare l’arte della pittura, fra i contrasti e le incomprensioni.

“Gridare che l’arte non era affatto una passione ma l’unico mestiere che da qualche tempo sognava di svolgere non sarebbe giovato a granché. Gustave sapeva che suo padre non avrebbe capito.”

Un uomo a tratti solo, nonostante l’affetto per i fratelli, la voglia di non deludere il padre, nonostante l’amore spesso riposto nelle persone sbagliate. Importante sarà nella sua vita la figura di Anne/Charlotte, una donna che verrà identificata di volta in volta come la sua amante, la sua concubina, come un’arrampicatrice, come un donnaccia, ma che forse conobbe come pochi i segreti di un uomo che aveva un’anima complessa che la sua epoca non poteva comprendere.

Caillebotte è un pittore che lotta per trovare la propria dimensione, per far si che la sua arte non sia solo la copia di quella in circolazione. Il suo nome, nell’autunno che l’autore delinea nel suo romanzo, viene associato a quella degli Impressionisti, termine coniato con disprezzo ma che noi associato a un’ampia corolla di capolavori che l’arte ha prodotto. Eppure Caillebotte non sembra esserne l’esponente principale. I suoi quadri sembrano a tratti delle vere fotografie, dai colori accesi, dai temi apparentemente simili a quelli riprodotti dai pittori suoi colleghi. Fu sicuramente il mecenate di un gruppo di artisti che non erano stati compresi e l’aiuto finanziario di Gustave fu l’ancora di salvezza per molti di loro.

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“Les raboteurs de parquet” (olio su tela, 1875)

Fra le sue opere sicuramente la più identificativa è quella intitolata “I piallatori di parquet” dove l’artista ritrae, con una luce e una forza vibrante, i lavoratori alle prese con la rifinitura dei assi di legno. La potenza e il gioco delle luci in questo quadro lascia senza parole. È una novità, un respiro nuovo in una panoramica di lavori che non osano tanto. Nel libro si assiste, quando Gustave vede per la prima volta gli operai a lavoro, all’incontro di un uomo, non solo quindi l’artista, con qualcosa che non può governare:

“Aprì la porta oltre la quale gli uomini lavoravano senza prevedere che quella visione lo avrebbe cambiato. La aprì con delicatezza, con innocenza, e colmo di un segreto stordimento, perché è così che si va incontro all’amore. Sempre. Solo che lui non poteva ancora saperlo”

La lettura del romanzo mi ha travolta, incatenandomi alla storia con una potente presa sull’anima. L’autore riesce con il suo stile curato, mai fronzoloso, a farti calare nelle atmosfere parigine dove impari a conoscere Gustave ragazzino, dove assisti alla crescita dell’artista e dove, infine, accompagni il pittore sulla soglia di un inverno che non vivrà mai. Suggestivo, infatti, il titolo, che allude alla giovane età, forse più per noi che per l’epoca,  in cui Caillebotte muore, lasciando l’arte, e i suoi protetti, orfani di in genio troppo poco conosciuto.

E ciò che resta a fine lettura è un’emozione che si arrampica sul cuore e la voglia di conoscere ancora di più questo personaggio forse troppo in fretta messo da parte. Ma nessuno muore davvero solo perché non esiste più sulla Terra.
Per conoscere un’artista bisogna conoscere le sue opere. Gustave Caillebotte è ancora lì, fra le pennellate di quei quadri che gli sono sopravvissuti.

“Jane Austen” di Virginia Woolf

“Jane Austen è dunque padrona di emozioni molto più profonde di quanto si creda. Ci esorta ad aggiungere quello che manca.”


Poco più di cinquanta pagine per delineare un profilo noto a molti, ma conosciuto da pochi. Jane Austen viene esaminata insieme al suo mestiere di scrittrice da un’altra grande autrice vissuta dopo di lei: Virginia Woolf.

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Jane Austen di Virginia Woolf

Si tratta di una breve raccolta dove sono stati riuniti stralci dedicati alla Austen contenuti in The Common Reader, Una stanza tutta per sé e in Books and Portraits.

Un breve saggio, una riflessione significativa sulle fatiche della donna che voleva diventare autrice in un’epoca in cui era sconveniente farlo.

La Woolf cita autrici che prima delle più note Austen o Bronte hanno osato, o sperato, scrivere. Un talento e un’inclinazione derisa e sbeffeggiata dall’altro sesso, ma anche dalle stesse donne. Non era semplice voler fare la scrittrice quando, ci ricorda la Woolf in un suo noto lavoro, non “si ha una stanza tutta per sé”.

Agli uomini del suo tempo non era chiesto che talento per poter fare i romanzieri, per le donne, invece, la consapevolezza che il loro lavoro potesse essere accettabile pur essendo, appunto, solo delle donne.

“Gli scrittori donna dovrebbero aspirare all’eccelenza ammettendo con coraggio i limiti del proprio sesso.”

Il ritratto che  Virginia Woolf fa di Jane Austen non è privo di critica, né è cieco davanti ai meriti di talento da imputare magari alla Bronte, piuttosto che a lei. Eppure, ci dice, la Austen non scriveva sotto l’impulso della frustrazione o della rabbia così come avevano fatto le autrici che l’avevano preceduta, né come farà più tardi la Bronte.
Jane Austen scrive nel suo pacifico mondo di calma e sa cogliere qualcosa di speciale anche nelle scene più quotidiane, le uniche, dopotutto, che conoscesse davvero.

Poche pagine,  queste, per assaporare il genio di una scrittrice che elogia quello di un’altra. Difficile farsi un’idea di chi fosse in realtà l’autrice di Orgoglio e Pregiudizio senza sbagliarsi di molto, traendo conclusioni affrettate così come ha fatto spesso la critica successiva.
Come si legge alla fine di questo piccolo volumetto, “vogliamo ricordare che Jane Austen scrisse romanzi. Sarebbe utile che i suoi critici li leggessero“.
Buona lettura.

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LabisbeticaDora

“Leila” di Antonio Fogazzaro

“Se desidero di morire è perché la febbre che ho voluto combattere, che ho sperato un momento di vincere, questo febbre che ha nome di Leila si è rincrudita, mi arde, mi consuma e non la combatto più.”

"Leila" di Antonio Fogazzaro

“Leila” di Antonio Fogazzaro

Lelia, alla morte del fidanzato, viene accolta, come una figlia adottiva, dalla famiglia di lui. Un gesto che mira a renderla, quasi, una reliquia vivente del povero defunto Andrea  che pone, nell’animo della ragazza, molto astio sia nei riguardi della sua famiglia natia, che secondo lei l’ha venduta, sia nei riguardi di Marcello Trento e consorte, i genitori del fidanzato. A inasprire i rapporti si aggiunge l’arrivo alla Montanina, così chiamata la residenza dei Trento, di Massimo Alberti, amico di università di Andrea. Su di lui ci sono progetti da parte del signor Marcello che spera, ma odia sperarlo in memoria del figlio deceduto, di poter vedere Lelia ammogliata con lui, nonché sua erede.

Ma gli equivoci sono dietro l’angolo e le dolce mire di Marcello, o di Fedele, la signora della Villa delle rose, incontrano degli ostacoli che non avevano considerato. Intorno a Massimo, infatti, circolano voci diffamanti relative ai suoi studi teologici che sembrano eretici al ben pensate clero della luogo dove il romanzo è ambientato, ma soprattutto è in Lelia, chiamata in maniera affettuosa Leila dal defunto Andrea, l’ostacolo maggiore, nel suo orgoglio, nella sua paura di lasciare che qualcuno la conosca come la creatura complessa e fragile che è.

Lelia è mal guidata dal suo orgoglio: crede di vedere in Massimo un arrivista, un cacciatore di dote. Ma è anche l’orgoglio del giovane, la sua volontà di non cadere in balia di quella bellezza che già l’aveva turbato solo vedendo la ragazza in fotografia, a porre un punto d’arresto nella loro conoscenza. Si potrebbe dire che sono i silenzi a costruire i muri nei rapporti fra queste due anime passionali che si cercano, ignorando le affinità e ingigantendo le avversità.

“Ella si fece allora un concetto esagerato del proprio amore, lo misurò insieme alla pietà,senza distinguere.”

Le donne di Fogazzaro non sono figure delicate in balia degli eventi. Già con Marina in Malombra si era visto come le sue protagoniste hanno un carattere forte, una volontà e un’indipendenza che non sono preludio di un futuro femminismo. L’autore riconosce loro la scelta di poter vivere seguendo l’istinto, a torto o a ragione. Non sono più le eroine dei libri femminili di fine ottocento, non sono le vanesie sciocche donnine facili agli svenimenti. Sono donne di carattere, sono complesse creature che s’ingannano fra le voci del cuori che lottano con quelle della ragione.

Un romanzo che pone l’attenzione del lettore anche sugli argomenti prettamente religiosi di dottrine al limite dell’eresia che pure non interessano la protagonista, ma danno voce a personaggi minori, spesso gretti, spesso nella convinzione di essere nella Grazia divina senza averne, però, nessun merito. Le figure di don Emmanuele o don Tita, offrono un confronto esemplare rispetto all’anima più mite di don Aureliano, amico di Massimo e collante fra le due realtà, fra quella di lui e quella di Lelia. E rispecchiano sicuramente le idee dello stesso Fogazzaro per quanto riguarda il suo credo.

La prima edizione del libro è datata 1910 e nello stile di Fogazzaro si ravvede la scelta linguistica di un tempo a noi lontano. La lettura sembra artificiosa per noi che siamo figli di una generazione inzuppata di emoticon; la scelta di modi di dire, di fare, di proporre una frase potrebbe apparire obsoleta. Eppure c’è tanta poesia, c’è tanta semplice narrazione in queste pagine che la lettura procede svelta, leggera e scorrevole come il fluire delle acque che nel romanzo fanno da cornice agli eventi.

Un libro che scava nell’animo umano mettendo a nudo fragilità e paure. Ma anche la forza dettata dai sentimenti disinteressati che rendono i protagonisti reali nella trama fittizia di un romanzo d’altri tempi.
Buona lettura.

 

“Le amiche di Jane” di Annalisa De Simone

“E tuttavia, a dispetto di quanto si dica, le prime impressioni non sono sempre le più attendibili.
Nei romanzi, come nella vita.”


Molti pensano che la parola ‘fine’ porti a chiudere un romanzo e a scordarsi di lui. Non è vero, o meglio, non lo è per i libri belli e che hanno tanto da dire anche fra le righe. E quelli di Jane Austen fanno parte di questo gruppo.

La cara zia Jane ha, ahimé, scritto pochi romanzi, ma le sue storie aprono scenari che molti autori hanno saputo cogliere e sviluppare (spesso immaginando un seguito, altre volte inventando avventure per la stessa Jane).

2970066Annalisa De Simone, nel suo “Le amiche di Jane” (Marsilio Editore) fa qualcosa del genere, analizzando le figure principali dei lavori della Austen, a partire dal più noto, Orgoglio e Pregiudizio, rapportandoli ai casi che la coinvolgono nella vita reale.

Si parte da George Wickham, l’ufficiale apparentemente perfetto che sembra avere solo un difetto, ossia essere povero, soprattutto se paragonato all’altero e freddo Mr Darcy. Due uomini diversi che portano Elisabeth Bennet a sbagliarsi, a ricredersi e a rivalutare tutto man mano che il suo cuore e la sua mente fanno ordine dentro di sé.
E gli esempi vissuti in prima persona dall’autrice permettono di confrontare la finzione e la realtà e gli strani intrecci che spesso gli uniscono.

Si procede vagliando le parole, le situazioni, il pensiero di un’epoca che l’autrice ha intessuto cercando nella vita di tutti i giorni. In molte sue eroine si intravede forse il vero volto di Jane Austen? Forse sì, se si pensa alla voglia di non abbattersi di Lizzy, o alla silenziosa maturità di Anne Elliott, di Persuasione.

Così il lettore approfondisce gli aspetti già noti di romanzi senza tempo che appaiono moderni sotto l’analisi precisa e accurata della De Simone.

In questo lavoro si esamina lo stile di Jane, le sue intenzioni, le sue peculiarità; si ribadisce la genialità di una scrittrice che ha raccontato il quotidiano entro mura domestiche creando trame che poco avevano a che fare con i libri dell’epoca.
Avete mai letto le autrici che Jane Austen ha letto? Dalla Radcliffe alla Burnes, tutte hanno raccontato di protagoniste nobili, indifese e alle prese con un riscatto sempre vantaggioso. Sono tutte sante e piene di tutte le virtù.  Quelle di Jane Austen, invece, sono imperfette, inciampano e sbagliano, un po’ come Elisabeth Bennet e le “sue prime impressioni”. Quelle di Jane sono storie verosimile, dove non sempre tutto fila liscia o segue uno schema. Nessuno viene estremizzato, nemmeno gli antagonisti perché “anche i cattivi, nelle sue storie, sono capaci d’amore.

Questo libro mi ha completamente catturata. Leggere di Jane, e leggere un lavoro così profondo, mi ha fatto bene dentro. Queste pagine non elogiano, ma spiegano senza pretese quel mondo fatto di inchiostro e carta che ha condizionato la vita di una giovane donna che non aveva soldi, ma doveva sposarsi per poter sopravvivere. E che invece fa tutto l’opposto. Rinuncia alla sicurezza economica data da un matrimonio di interesse perché sa che non potrà mai essere felice senza sentimento.
Voleva scrivere.
E lo ha fatto cercando quel riscatto che la sua società le ha negato, sopratutto perché era una donna.

“Le eroine di Jane Austen sono chiamate a una prova comune: conoscere se stesse e, soltanto in seguito, rendersi disponibili a conoscere l’altro.”
Jane si conosceva bene, trovando se stessa nelle pieghe dei suoi libri.

“La bisbetica domata” di William Shakespeare

“Abbassate allora la cresta, non c’è scopo, e mettete le mani sotto il piede dello sposo”.


Caterina è la maggiore delle figlie di Battista Minola, ricco cittadino di Padova. Bella, intelligente e con molte virtù è, tuttavia, una vera bisbetica: un carattere scontroso, sempre pronta a ribellarsi anche alla volontà paterna di ammogliarla prima di sua sorella Bianca. Caterina, però, non demorde e fa scappare i pretendenti che, pure, sono attratti dalla sua dote.

Non Petruccio, però, un gentiluomo di Verona che non si lascia abbattere e impaurire dal difficile estro della ragazza. Anzi, fin dall’inizio del corteggiamento, e anche dopo il matrimonio, riesce a tenerle testa facendo leva su un gioco dei contrari, e una serie di privazioni, che confonde e stupisce la bella bisbetica.

"La bisbetica domata" di William Shakespeare

“La bisbetica domata” di William Shakespeare

La bisbetica domata” è una commedia in cinque atti divetente, spiritosa, fatta di equivoci e travestimenti come è uso sempre fare William Shakespeare. Così, mentre la bisbetica viene domata, il lettore segue anche contemporaneamente i tentativi di Gremio, Ortensio e Lucenzio di entrare nelle grazie di Bianca, secondogenita di Battista.

L’opera è stata composta fra il 1591 e il 1593 circa e pone l’accento sulla condizione femminile nel periodo in cui viveva l’autore. Oggi il fatto che un padre ceda le figlie come fossero merci farebbe inorridire, come del resto anche l’ideale di un matrimonio combinato. La mia amata bisbetica, ahimé, non cambia per amore o perché riconosce i suoi sbagli, ma solo perché ripagata del suo stesso brutto carattere e messa davanti a una vita fatta di privazioni. Lei, alla fine, cede davanti a quelle prove cui la sottopone Petruccio, suo marito, per domarla: l’immagine che ne viene fuori è che la donna, Caterina in questo caso ma il discorso si estende anche a tutto il genere, si domabile solo in virtù di ricchezze e agi.

“Ecco come uccidere una moglie con le gentilezze, così spezzerò il suo umor pazzo e caparbio”

(Petruccio, Atto IV, scena II)

Non si può che leggere l’opera cercando di calarsi nel periodo storico, senza farsi palladini dei diritti della donna. Non sarebbe questo il contesto adatto per contestare usi e costumi di un’epoca lontana dalla nostra.

Locandina de "La bisbetica domata" del regista Franco Zeffirelli del 1967

Locandina de “La bisbetica domata” del regista Franco Zeffirelli del 1967

Segnalo anche il film di Franco Zeffirelli del 1967 con la bella e brava Elisabeth Taylor e Richard Burton nei panni dei protagonisti.

La cara e simpatica bisbetica è, tutto sommato, una donna forse capricciosa che vuole essere guidata, anche se appare così selvaggia. È sicuramente un’opera che cattura il lettore, che gli strappa un sorriso e che conferma la bravura del grande Shakespeare, pronto, ogniqualvolta, a mostrarci le debolezze e la bramosia dell’animo umano.

“Le cronache di Teseo” di Davide Bottiglieri

UN EROE.
IL MITO E LA LEGGENDA CHE PRENDONO VITA


“Finché il Fato non manifesta il suo volere,
il destino appartiene all’uomo”


Teseo, nato dall’amore fra Etra, figlia del re di Trezene, e il dio Poseidone, è il mitologico eroe destinato a regnare dopo Egeo, re di Atene. Un semidio la cui fama cresce insieme alle imprese a cui viene sottoposto per raggiungere i suoi obiettivi.

Teseo ed Etra - Laurent de La Hyre - 1635/1640

Teseo ed Etra – Laurent de La Hyre – 1635/1640

Dopo aver recuperato il sandalo e la spada del re, sotterrati in un luogo nascosto fino al giorno in cui il giovane potesse recuperarli e reclamare il trono, Teseo deve raggiungere la capitale ellenica.
Può farlo seguendo la via del mare, la più sicura, o quella di terra, dove tuttavia, molti pericoli sono di vedetta per ostacolare il suo cammino. La scelta di un eroe, però, non può mai essere quella più facile.
Da Perifete il licantropo a Sini il Golem, sfidando la Gigàt Fea e scontrandosi con Scirone il lievitano Teseo si fa strada verso il suo destino, usando la forza e l’intelligenza, ma anche i suoi poteri da stregone che, di volta in volta, gli conferiscono armi e magie delle divinità greche o di eroi del passato.
Molte sfide e tranelli attendono il giovane principe ateniese divenuto anche famoso per aver ucciso il mitico Minotauro, annidato nel labirinto dove nessuno era in grado si uscirne vivo.

4132geGjmfLLe cronache di Teseo” di Davide Bottiglieri, edito da Les Flaneurs Edizioni, raccoglie le imprese del mitico eroe greco restituendocele attraverso una chiave di lettura che si avvicina molto al fantasy.
Il Teseo di queste storie è uno stregone, abile nella magia che gli permette di vincere i mostri che incontra lungo il suo cammino. Un eroe molto vicino alle figure che i ragazzi seguono attraverso i cartoni animati, dotato di una spada e di incantesimi che attiva quando ne ha più bisogno. Un ragazzo protetto dagli dei, ma che si fa strada anche grazie alla sua voglia di annientare le presenze demoniache che infestano la sua Terra.

Bottiglieri ci restituisce uno dei miti più famosi della mitologia greca e lo fa rispettando le origini stesse della storia, attraverso uno stile accattivante che emula i cantastorie che, fino all’avvento dei libri e del cinema, intrattenevano la gente narrando degli eroi del passato.
Scegliere di riproporre vicende più che note è sempre un azzardo, sopratutto per chi si lascia tentare dal metterci del suo mentre prende vita la storia. Con Davide Bottiglieri non si corre, però questo rischio: le sue “Cronache” rendono il giusto omaggio al mito vero e proprio, senza che questo ne risulti modificato o alterato.

Teseo, insieme a Ercole, Perseo, Giasone e a Ulisse, fa parte di un ciclo di avventure che da sempre affascina l’uomo. Un eroe, spesso un semidio, che deve sconfiggere un destino avverso, o deve realizzare un cammino già previsto dagli oracoli; un uomo spesso dotato di ingegno, aiutato dagli dei, provvisto di astuzia e nobile coraggio. Un esempio per i contemporanei, un mito per i posteri.

In una società dove le divinità erano capricciose creature troppo simili ai loro imperfetti figli mortali, le figure come Teseo erano un baluardo di luce nelle tenebre dell’inciviltà, dove a regnare forse non erano solo i mostri scaturiti da Echidna.
Gli eroi erano spesso chiamati a risolvere questioni terrene, frutto dell’avidità o della stoltezza umana, dimostrando che un vero eroe è colui che sa anche arrendersi, oltre che vincere.

Astuzia e forza sono le armi di un valoroso paladino, ma spesso è la volontà e la saggezza che guidano i passi di chi è stato designato dagli dei

A tale proposito è molto significativo un capitolo del romanzo che vede Teseo affrontare ancora una volta un ostacolo nel suo viaggio verso Atene.

Quando, infatti, cade nel tranello di Procuste (che dà ospitalità ai viandanti, condannandoli a un sonno di incubi senza risveglio) l’eroe dovrà fare i conti contro le sue paure più nascoste, fino a sfidare se stesso in una lotta impari dove tuttavia c’è una lezione da imparare:

“la grandezza sta nel saper prendere la decisione giusta. Un grande uomo può anche non essere un uomo grande. Un grande uomo fa la cosa giusta.”

Un eroe, dopotutto, è colui che sacrifica se stesso per un bene maggiore.

Buona lettura.

“Volevo una quarantadue” di Tiziana Irosa

“Maledetta Cenerentola e tutte le sue colleghe! Per fortuna adesso ci sono le fiabe moderne, dove le principesse si salvano da sole e i principi azzurri sono esseri goffi e buffi, più vicini alla realtà.”


Allegra è una trentacinquenne dalle origini siciliane che vive a Bergamo. È circondata da amici e familiari affettuosi. Una giovane donna, insomma, come molte altre e come tante alle prese con il dramma che affligge un po’ tutte: perdere peso. Potrebbe puntare sulla sua intelligenza, la sua allegria e ironia, e sulle altre doti che la rendono speciale, ma lei, guardandosi allo specchio vede solo “un volto da bambola con il corpo da foca”. È un chiodo fisso, un traguardo per accettarsi e sentirsi bene con se stessa. Diete, corsi di fitness, rinunce e sacrifici che non portano a niente, fino a quando qualcosa la spinge a fare sul serio.
Un’email mandata all’indirizzo di posta sbagliata le fa conoscere telematicamente Richard, un giovane uomo che da subito si mostra interessato a lei. Inizia fra i due un carteggio divertente, volto a conoscersi e a farsi conoscere dietro allo schermo di un display perché Allegra teme di essere troppo grassa, troppo poco attraente per piacergli. Questo le dà la spinta giusta per perdere peso e riconciliarsi con se stessa, anche se sembra che il destino abbia in serbo per lei qualcun altro. Infatti, mentre attente il misterioso Richard per conoscerlo di persona, ecco incontrare Killian durante una festa: un uomo affascinante, determinato a entrare fra le sue grazie. Cosa è giusto fare? Seguire il filo che conduce al misterioso destinatario delle sue email o dare una chance a qualcuno che è presente, fisicamente, nella sua vita? E se il Fato si diverte a mischiare le carte in tavola, l’amore può mettere tutto al posto giusto.

"Volevo una quarantadue" di Tiziana Irosa

“Volevo una quarantadue” di Tiziana Irosa

Questo romanzo è una ventata di buonumore e freschezza. Quella di Allegra potrebbe essere la vita di tutte noi, a prescindere da quale sia il nostro obiettivo. Fra le pagine di questo libro c’è la voglia di affrontare con sarcasmo e spirito la vita quotidiana di chi non è né un’eroina né un modello da seguire. La protagonista è una di noi, insomma, con tutti i difetti che ci trasciniamo dietro. Una storia piacevole dove si ritrovano le situazioni alla Bridget Jones e si possono leggere email come nel ben libro di Cecilia Ahern “Scrivimi ancora”.
Molto interessante lo scambio epistolare tramite email fra Allegra e Richard. In un’epoca in cui il primo approccio avviene con i social questo non appare strano, ma diventa particolare quando si leggono i messaggi che si scambiano al solo scopo di conoscersi. Oggi si va di fretta, non si ricorda più la bellezza di leggere una lettera che impiegava anche settimane prima di giungere a destinazione. Nello scambio di email fra Allegra e Richard c’è la stessa magia che io ricordo quando ancora si usava la carta e l’inchiostro per comunicare con chi stava lontano.

“Tutte le donne sono sempre in dieta.”

L’autrice, Tiziana Irosa, attraverso una scrittura ironica e incalzante, racconta la fragilità della maggior parte delle donne. Sono poche coloro che sono soddisfatte di quello che vedono allo specchio: c’è chi vorrebbe i capelli lisci, chi un naso meno appariscente, chi lotta con i chili di troppo. La nostra società, in maniera subdola, impone standard estetici che rendono insicure anche persone che, come Allegra, sono già splendide così. Vogliamo tutti qualcosa che ci metta in pace con la nostra parte più intima, quella che vuole farsi accettare prima di accettarsi. Chi ha stabilito che magro è bello, che le bionde sono stupide, che l’altezza è mezza bellezza? Sempre noi, ma siamo sordi alla verità che dovremmo fare nostra: bisogna amarsi di più, con i difetti annessi.

“Perché la felicità è dentro di noi, bisogna cercarla in mezzo al mucchio di cose accatastate nella soffitta del nostro cervello.”

Troverete il libro, sia in formato cartaceo che ebook, su Amazon:
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“Pelle- Oltre il limite” di Domenica Lupia

“Lei era proprio fragile come una rosa. Ma metteva tante spine attorno a sé per evitare che qualcuno ne venisse a conoscenza.”
(Anonimo)


Fragilità.
In questo libro si parla apparentemente solo di amore, di abbandono, di dipendenze da alcool e droghe, di distruzione e sopravvivenza. Di come sia spesso il capriccio e la debolezza a portare gli uomini fra le loro grinfie.
Sono solo, però, le altre facce di una fragilità che si nasconde dietro le pieghe del cuore. anche le rose hanno le spine e pungono, ma nessuno pensa a loro come fiori aggressivi, vedendo in quei petali setosi tutta la fragile bellezza dell’effimero.

Andrea è uno dei protagonisti di “PELLE- OLTRE IL LIMITE” di Domenica Lupia (Casa Editrice Le Mezzelane); un giovane uomo che sopravvive, restando a galla in una vita incasinata. È fragile, ma non è questo quello che emerge di lui perché al lettore appare troppo concentrato su di sé per concedergli delle attenuanti.Per poterlo vedere per quello che è.
Non un uomo perfetto, ma, anzi, conscio delle sue pecche e  molto autocritico: e nonostante ciò le sue appaiono lacrime di coccodrillo. Eppure è solo una faccia della famosa medaglia. È la fragilità che lo porta a essere meschino e scostante con Cheyenne, che pure lo idolatra. Una ragazza che si annulla per gli altri, che si annulla per lui che pure sembra essere indifferente al male che le fa.

"Pelle. Oltre il limite" di Domenica Lupia

“Pelle. Oltre il limite” di Domenica Lupia

Non bisogna, però, cadere nel tranello e vedere solo quello che si vuole. Perché anche la fragilità ha il lato oscuro dell’egoismo: Andrea vive e continua a vivere lasciando che i sensi di colpa siano una costante del futuro, guardando indietro nel passato con la lucida consapevolezza di chi non può più correggere nulla dei propri passi fatti.

“Pelle- Oltre il limite” è il racconto di un ragazzo insicuro, pieno di paure e ansia che cerca di aggrapparsi a qualcosa per andare avanti. Eppure, quando qualcuno gli tende una mano, quando può riscattare cuore e mente, sembra non farcela, preferendo vivere nel suo guscio dove la fragilità lo rende potente. Ed Egoista.
Così, quando anche Elisa entra nella sua vita non coglie l’opportunità di farsi guida, di tendere, e non pretendere, la mano che possa salvare un altro essere umano dai mostri di una vita di dolore e debolezza. Andrea, preso da se stesso, vede solo le spine della rosa e si convince che potranno proteggerla da tutte le intemperie.

Due donne, un uomo; amore e fragilità in un intreccio i cui fili non sono in mano al capriccioso Fato a cui i mortali si affidano per giustificare i propri errori. Le redini del gioco sono in mano ad Andrea che pure sembra non muovere mai le pedine verso il finale giusto.

“Pelle” è un romanzo che erroneamente si definirebbe crudo e lontano dalla realtà. Non c’è sempre il lieto fine ad attenderci sulla soglia delle nostre scelte e l’autrice pone l’accento proprio su questo. Fra queste pagine la vita reale, uno spaccato che emerge nelle nostre esistenze e che molti ignorano.
Un accenno significativo è quello alle dipendenze, sopratutto alla droga. Molti affrontano questa tematica come fosse una leggenda metropolitana, fingendo di non accorgersi che è una Bianca Signora che miete vittime, travestita però da àncora di salvezza.
Ma nessuno si salva da solo. E Andrea capirà a sue spese quest’amara verità.

Nessuna rosa sopravvive grazie alle sole spine. Perchè anche lei è fragile, come un po’ tutti noi.