Recensione “Storie del secolo breve”- Alberto di Girolamo

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È come vedere una foto animarsi, poter ascoltare le voci e i suoni del passato senza spostarsi da casa. Questa è l’impressione che si ha leggendo “Storie del secolo breve” di Alberto Di Girolamo, edito presso la casa editrice Le Mezzelane.

Quattro le storie, quattro i micromondi narrati in una Sicilia contadina, fatta di lavoro e privazioni, di mestieri dimenticati e riti dispersi nel tempo. Come quel fidanzamento combinato di Paolino e Rosaria che sembra non poter avere un esito positivo in vista dell’imminente leva miliare. Si può quasi spiare nella vita quotidiana di una giornata tipica, quella delle persone normali; si respira l’aria dell’attesa e dell’incertezza prima dello scoppio di una guerra che sembra promettere solo cose buone, solo conquiste e niente fastidi; si ascoltano le chiacchiere di persone riunite per farsi la barba ma che parlano di politica e cercano di convincere gli altri delle proprie idee; si può palpare la voglia, quella di Paolino, di non farsi travolgere dagli eventi, ma di dominarli a tutti i costi.

Oppure si può capire la miseria del post-guerra girovagando alla ricerca di cibo con Vito, detto l’Asino. Un personaggio ingenuo, dalla mente semplice che non chiede altro che poter mangiare, che divide il mondo in cose “del Signore” o del “diavolo”, che vive alla giornata. Una purezza d’anima che tuttavia non lo proteggerà dagli scherzi della noia di chi vede in lui solo un poco di buono.

In queste pagine si dà voce anche alla fuga di contrabbandieri e alla legge che vuole la sua rivincita nelle gesta di Tano: emerge la speranza, da sempre l’ancora di salvezza nel sorriso dell’essere umano davanti alla prospettiva di una nuova vita.

Si finisce per conoscere anche il viziato Romeo, il presunto riscatto di una famiglia tutta al femminile che si rivela ozioso e cinico, che coltiva l’unico mestiere che non lo affatica: quello del casanova.

“Oltre allo sparviero che ghermisce, sapeva essere all’ occorrenza l’allodola che lusinga, l’usignolo che incanta, il pavone che abbaglia”.

Un mestiere poco redditizio, che lo porta a sacrificare l’amore di una donna che lo venera pur di non perdere i suoi agi.

Sono racconti veri, sono istantanee che la nostra memoria non ha conservato, ma che hanno gettato le basi per quella vita che molti di noi conoscono.
Nelle parole dell’autore c’è un’esperienza fatta di ricordi e memoria, un invito a camminare assieme a lui per una Sicilia bella e antica dove il dialetto ha la forza delle radici; una terra di lavoro e fatica, di onore e rispetto sicuramente, ma venata di amore e speranza.