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La Caduta eterna

Ritorno dopo mesi di assenza a scrivere un post su questo blog. Un post dei soliti miei che interesseranno al massimo una o due persone, non di più, perchè io sono abile nel fare cose che interessano sempre pochissime persone, “talento sprecato numero 100”.
Però non potevo far a meno di scrivere qualcosa riguardo l’ultima lettura da me fatta. Oramai era qualche tempo che avevo il “blocco del lettore”, una serie di vicissitudini mi rendevano difficile la concentrazione su ciò che stavo leggendo, ero fuori da quel mondo di inchiostro che mi ha cullato per tanti anni. Dovevo riprendere la mia vita in mano e quindi mi sono gettato a capofitto su “La Caduta” di Albert Camus.
Libro impegnativo ma non così lungo; un monologo, una confessione dell’ex avvocato parigino Jean-Baptiste Clamence (che fa rima con “clemence”, clemenza. Sarà un caso?) divenuto giudice-penitente sullo sfondo di una claustrofobica Amsterdam dalle tinte invernali.
Cosa ha di così interessante questo libro? in primis è uno scritto di Camus, quindi per definizione è interessante, se interessano le questioni che pone la filosofia esistenzialista, in secundis, è un volumetto che ho trovato di una attualità disarmante, pur essendo stato scritto oltre sessanta anni fa (per l’esattezza, nel 1956). Forse è proprio l’attualità, il suo riuscirsi ad adattare ad una realtà mutata (in parte) in modo così brillante e “reale” ad avermi colpito come un pugno nello stomaco. Una finestra spalancata sul mondo dalla quale osservare le formichine brulicanti e affaccendate, sempre di corsa che altro non sono che l’Umanità. Ma chi è Jean-Baptiste Clamence se non una sorta di “superuomo”, un uomo che ha acquisito una consapevolezza, “l’uomo assurdo” camusiano, come lo era, con caratteri però diversi, Mersault. La consapevolezza acquisita da Jean-Baptiste Clamence riguarda la duplicità dell’essere umano, non a caso tra le pagine afferma nella sua delirante e spasmodica confessione che il simbolo che lo rappresenta appieno è quello del “dio Giano” definendosi anche un “attore”. E forse ruota tutto proprio attorno a questi due simboli che rappresentano quella ipocrisia che viene descritta da Camus in queste poco più che novanta pagine. L’Uomo con due facce come il Dio Giano, l’Uomo – attore, che recita quotidianamente una farsa, come la farsa recitata con una certa convinzione iniziale dallo stesso protagonista del libro. Un uomo che incarna tutte le possibili e venerate virtù umane; caritatevole, dedito alla giustizia, abile conversatore, in poche parole un perfetto filantropo inattaccabile sotto qualsiasi punto di vista. Ma proprio sotto questa patina dorata, sotto questo “Velo di Maya” si nasconde il lato più “bestiale” ed essenziale dell’essere Umano; l’egoismo.
Clamence si accorge ad un certo punto della sua vita, poco prima della svolta e di mollare la professione e Parigi per trasferirsi ad Amsterdam e diventare un profeta da locanda di infimo ordine, che ogni suo gesto virtuoso nei confronti del prossimo era un modo per alimentare la propria bestia vanesia: “Quando mi interessavo agli altri era per pura condiscendenza, in totale libertà, e il merito andava tutto a me: salivo di un gradino nell’amore che avevo di me stesso”. Questo è il principio cardine di quelli che fanno beneficenza sbandierandola ai quattro venti. A chi fanno beneficenza? al povero mendicante, ai bambini che muoiono di dissenteria in Africa o a loro stessi, o meglio, al loro ego?. D’altra parte il nostro ex avvocato lo afferma con una tale chiarezza in un semplice esempio: quando aiuti un non vedente ad attraversare la strada, alla fine della traversata gli fai un cenno levandoti il cappello; quel cenno per chi è se non per il “pubblico”?. In due righe spiega esattamente il concetto che ha un che di vero anche dopo più di mezzo secolo, “così è l’Uomo, caro signore, duplice, non può amare senza amarsi”.
Ma una sera sul lungo Senna, una di quelle sere perfette, quando l’animo è pieno, soddisfatto ed appagato, ad un certo punto una risata. Questa risata sconosciuta, proveniente chissà da dove, da un soggetto non identificato rappresenta evidentemente un segno. Camus e il suo antieroe di carta non si dilungano su questo elemento che probabilmente rappresenta il punto di svolta. Sì, perchè questa risata è capace di provocare quella presa di coscienza di cui parlavamo. Cos’era? una risata di derisione da parte di una entità superiore e osservatrice che aveva capito già tutta la magagna e scherniva la duplicità dell’essere Umano? Perchè quella risata, che viene precisato non essere una risata sinistra ma cordiale, turba così tanto l’animo di Clamence che si sente quasi perseguitato? In ogni caso sembra che da quella sera, da quella risata nella notte umida parigina, la vita di Clamence inizia a cambiare: “mi sembrava di cominciare a disimparare quello che non avevo mai imparato e che pure sapevo così bene, cioè vivere.”
Da questo momento il protagonista riesce a vedere questa duplicità di cui si parlava, scorge allo specchio un “sorriso doppio” che rappresenta proprio le due facce (Giano) di Clamence che altri non è che il simbolo dell’intera Umanità. Giunto a quel punto allora decide di togliersi la maschera e gettarsi a capofitto in questa sorta di “vita estetica”, spogliandosi delle virtù e abbracciando la sua vera natura. Feste, alcol e piaceri della carne che però creano una spirale di ulteriori bisogni da soddisfare che non portano mai ad un punto di arrivo se non l’insoddisfazione: “correvo, sempre appagato e mai soddisfatto.” La spirale di bisogni preconfezionati e serviti è ciò che probabilmente rende l’Uomo l’essere insoddisfatto per eccellenza e su questo tema la letteratura e la spiritualità hanno battuto molto, dal Budda a Leopardi, passando per la filosofia di Schopenhauer, e così il consumismo dei giorni d’oggi, la dottrina che ha capito al meglio come sfruttare l’eterna ricerca di bisogni e desideri dell’Uomo per scopi di lucro. Un culto materialista, un “feticismo delle merci” che accorcia sempre più quella catena che stringe il collo, una genialata, uno strumento atto a creare schiavi; d’altra parte “non si può fare a meno di dominare o di essere serviti, ogni uomo ha bisogno di schiavi come l’aria”.
Ma l’ipocrisia si manifesta anche e soprattutto in quei rapporti umani che dovrebbero essere di puro affetto e qui scendiamo in una analisi lucida, critica ed attualissima, in una epoca come questa in cui i rapporti umani si sono deteriorati sempre più fino a perdere di significato e a svuotarsi del tutto. Parole come “amicizia” e “amore” oramai sono ultra-inflazionate. Chiamiamo “amici” dei contatti virtuali su un social e “amore” quel qualcuno che poi siamo pronti ad abbandonare il giorno dopo, proprio come i rapporti del nostro Clamence con le donne. Fugaci incontri passionali, tanto erotici quanto superficiali e senza valore. Fagocitiamo il prossimo in un atto di sensuale “cannibalismo” perchè è facile, perchè ci rende “liberi” e non impegna, perchè non siamo disposti a dare parte della nostra libertà, del nostro tempo e delle nostre forze per creare qualcosa che abbia delle basi solide. “Amori” (virgoletto per non abusare del termine anche io…) che durano il tempo di una vacanza al mare e che si spengono con la velocità in cui sono nati per stanchezza, per noia o per paura di dover fare dei sacrifici per tenerlo vivo e Dio non voglia che qualcuno debba sacrificarsi, o il fenomeno del “ghosting”, sparire pur di non costruire nulla e rimanere in una dimensione di superficialità. Vite superficiali che generano livore, rabbia, insoddisfazione, infelicità pur passando “di festa in festa” come fa il nostro profeta contemporaneo. E l’amicizia? “ho imparato ad accontentarmi della simpatia. E’ più facile da trovare e poi non impegna. L’amicizia invece è qualcosa di più complesso. E’ lunga e difficile da ottenere.” Anche in questo caso si sceglie la via della “facilità” con uno sguardo anche più diffidente nei confronti del prossimo che è pur sempre anche lui un animale egoista, “non si illuda che gli amici le telefonino tutte le sere, come dovrebbero, per sapere se non è proprio quella la sera in cui ha deciso di suicidarsi, o più semplicemente se ha bisogno di compagnia, se ha voglia di uscire.” Già, perchè anche in questo tipo di rapporto prevale l’egoismo ancora una volta, “l’amico” è colui il quale ti chiama la sera in cui “la vita è bella”, non nel cosiddetto momento del bisogno, chi vorrebbe sorreggere un simile gravoso fardello? Quindi le persone ideali sono i morti, gli amici morti, meglio se morti suicidi. D’altra parte Clamence è chiaro sul punto, “sa perchè siamo sempre più giusti e più generosi con i morti? Il motivo è semplice! con loro non ci sono obblighi”. Con i morti è facile, si indossa la maschera del pietismo, della contrizione, “negli amici vogliamo bene al morto recente, al morto doloroso, alla nostra emozione, a noi stessi”, anche in questo caso nutriamo il nostro ego con la carogna del prossimo ancora fresca. D’altra parte basti vedere come il mondo intero, ancor di più con l’avvento dei social, mostra la propria viva emozione e commozione dinanzi ad un cadavere ancora caldo. Che sia un VIP trapassato o un bambino nell’atto di attraversare il Mediterraneo, l’atteggiamento di dolore è sempre quello ed è sempre ben spiattellato sulle bacheche virtuali, per poi ritornare a parlare della prossima partita di calcio o di questo o quel reality. Perdiamo interesse con una facilità disarmante e forse è proprio la “fugacità” il tratto che unisce tutti questi temi trattati fin ora. Amori brevi, amicizie brevi e interessate, cordoglio breve; siamo la generazione dei sentimenti “fast food”, ci rimpinziamo di entusiasmi per poi vomitarli mal digeriti e preparare gli stomaci alla seconda abbuffata e così ancora senza sosta e senza trarne un reale nutrimento per l’anima.
Siamo il popolo dei “movimenti lampo”, che siano sardine, no vax, ambientalisti ecc., tutti temi da sfruttare, da fagocitare ed espellere con rapidità, passando al tema successivo, all’argomento del giorno da trattare con viva passione su Facebook per dimenticarcene il giorno dopo,
“Guerra, suicidio, amore, miseria, vi prestavo attenzione, certo, quando le circostanze me lo imponevano, ma in una maniera educata e distratta. A volte mostravo di appassionarmi a una causa avulsa dalla mia vita quotidiana. Dentro di me, però, non mi sentivo partecipe, tranne ovviamente quando in gioco era la mia liberta. Come posso dirle? Tutto scivolava via. Sì, tutto mi scivolava addosso”, tutto ci scivola addosso e non ci rimane nulla, sempre più vuoti, lasciati in una totale insensatezza dove tutto è vano, vita compresa. Da questo momento inizia la confessione dei “peccati”, dopo aver fatto un quadro delle proprie virtù, l’avvocato Clamence inizia a raccontare della sua discesa nel vizio e nella dissolutezza. La dissolutezza diviene la chiave per raggiungere l’immortalità e un uomo narcisista e vanesio non può che tendere all’immortalità, a preservare in eterno l’oggetto del proprio amore, cioè se stesso e sceglie la dissolutezza perchè non impegna e non crea obblighi. Ancora una volta la parola d’ordine è “non impegno”, quindi alcol, prostitute, tutto ciò che non ti chiede nulla in cambio, nessun obbligo e queste sono di fatto le “droghe” che ancora oggi vengono consumate da chi non vuole responsabilità da chi vuole restare in una dimensione di eterna adolescenza senza badare al futuro, nell’illusione che non pensandoci questo non arrivi mai, mentre invece gli anni passano, la gioventù anche e cosa resta se non si è dedicato del tempo e degli sforzi nella semina?
Ma qual è allora il senso di questa lunga confessione, a tratti amara, imbarazzante e senza speranza? un tentativo del nostro “eroe” di redimersi? No, non c’è redenzione, la penitenza della confessione dei propri peccati fatta agli avventori del Mexico-City ha il solo scopo di poter indossare la toga del giudice e giudicare tutti gli altri. Giudicare se stessi per poter estendere il giudizio sull’intera umanità, ponendosi su uno scranno più alto dato dalla consapevolezza delle proprie colpe. Clamence non fa altro che recitare una parte con la sua confessione (dice lui stesso nelle prime battute di essere un attore), una parte per spingere l’interlocutore a confessare gli stessi peccati o peccati peggiori al fine di dividere il peso delle proprie colpe con tutta l’Umanità. Un “falso profeta che grida nel deserto e si rifiuta di uscirne”; che non vi sia alcuna forma di reale pentimento o di ricerca di redenzione è chiaro,  “non ho cambiato vita, continuo ad amare me stesso e ad usare gli altri. Ammettendo le mie colpe però posso ricominciare con più leggerezza e godere due volte, prima della mia natura e poi di un pentimento squisito.”
Nella storia dell’Uomo quindi non c’è via di uscita, tutti chi più o chi meno sono condannati ad essere dei Clamence ed in una società composta da un esercito di Clamence preferisco essere “lo straniero”.

Tana liberi tutti. Storia di una pandemia.

E anche questa quarantena l’abbiamo superata. Sembrava solo ieri che questa ennesima tegola inaspettata ed imprevedibile ci cadeva tra capo e collo ed ora ecco che il peggio è passato. No, scherzo, non c’è mai limite al peggio, non vi lasciate andare a facili entusiasmi e gioie ritrovate, il peggio lo vedremo con il passare del tempo, non disperate.
In ogni caso è terminato il “lockdown”, parola oramai entrata nel gergo collettivo, tradotta come “state chiusi in casa e nessuno si farà male”. Quante volte in due mesi abbiamo sentito la frase “state a casa”? Dal politico berciante alle sentinelle sui social, un solo grido, non LIBERTA’ come in Braveheart, l’opposto, “state a casa”. Ed io ci sono stato, eccome se ci sono stato. Io ho combattuto per il mio paese al meglio, ho contribuito alla nuova rinascita, ho cooperato con le istituzioni, sono diventato un patriota, un partigiano. Come? non facendo assolutamente un cazzo!
Oh, e lo ho fatto al meglio delle mie possibilità, sono una eccellenza nell’arte sopraffina di non fare una ceppa. Il governo non ha fatto altro che rendere legge le mie abitudini di vita e questo mi ha onorato lo ammetto. Me lo immagino un domani, quando racconterò da anziano le mie gesta ai miei nipoti.

– Sapete? vostro zio da giovane ha sconfitto una pandemia
– Oh zio, dicci come, raccontacelo, quali eroiche imprese?
– Sapeste miei cari ragazzi. Ricordo ancora la marcia quotidiana che affrontavo verso la cucina ogni mattino, sfidando le intemperie delle correnti d’aria provenienti dalle finestre aperte, l’alta temperatura delle gorgoglianti acque che ribollivano mentre mi preparavo il tè, le battaglie con la GESTAPO su Facebook che monitorava gli spostamenti di ogni individuo minacciando gavettoni e strali.
– Zio e cosa facevi tutto il giorno dopo queste eroiche missioni?
– Assolutamente un cazzo miei ragazzi. Leggevo, ascoltavo musica, guardavo una marea di film o serie tv e così facendo rendevo grande il mio paese.
– Zio ma narraci di quando hanno dato via libera ai congiunti? hai festeggiato?
– oh ingenua giovinezza, zio se n’è sbattuto la minchia anche in quella occasione, tanto non aveva congiunti e personalmente ritenne una bella mazzata l’aver concesso libertà alle genti.
– Ma zio e poi? ti ricordi del 18 maggio? ci furono acclamazioni per la ritrovata libertà?
– Oh no, la gente semplicemente non sapeva che pesci prendere, qualcuno pensò che tutto era finito, altri capirono che bisognava andarci cauti.
– E quindi “andò tutto bene”? trovaste un mondo nuovo, più bello, diverso?
– Oh no cari fanciulli, il mondo rimase bello solo per due mesi circa, quando l’Uomo limitò la sua presenza, le acque si fecero cristalline, i cieli tersi e regnò la pace, poi ritornò tutto come prima. Questo cosa vi fa capire fanciulli? qual è la lezione? che l’uomo è un?…cancro. Bravissimi e la gente non cambia per una pandemia, non cambia per una guerra mondiale e non cambia per un olocausto (poi vi racconterò cos’è stato). Le persone devono mettere a tacere le loro frustrazioni e la loro mediocrità impegnandosi in battaglie inutili, in chiacchiere senza senso, odiando e concentrandosi in modo negativo sul prossimo ed è proprio per questo che nostro preciso dovere è quello di evitarle.
– E quindi cosa è cambiato?
– Assolutamente una fava, però noi asociali avemmo la nostra vittoria per una volta nella vita.

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L’umanità ritrovata (?)

Mal sopporto e guardo con molta diffidenza questa presunta “umanità ritrovata” che ultimamente si sta sbandierando sui social.
Facciamo i flashmob di ogni tipo per dimostrare vicinanza e cordoglio; intoniamo l’inno italiano sventolando il tricolore, cantiamo, balliamo, facciamo baccano, tutto in nome di un “restare umani”, di un sentirsi popolo. Tutte ipocrisie dettate dal momento. Non esiste questa solidarietà umana, non c’è alcuna verginità ritrovata. Questo assembramento spirituale di facciata è la semplice risposta più banale alla paura. Non ce ne frega nulla dell’altra persona, abbiamo bisogno di sentirci vicini per placare la nostra paura, è solo un’altra manifestazione dell’egoismo umano. L’uomo fin dalla notte dei tempi si riunisce in società più per timore che per amore verso il prossimo. Ovviamente non sto certo dicendo che quanto detto vale nel 100% dei casi, in ogni contesto argomentativo ci sono le dovute eccezioni e nelle eccezioni c’è comunque un margine di relatività. Intendo dire che magari non tutti gli uomini che abitano sulla terra sono egoisti e tra quelli egoisti non tutti sono egoisti al 100%, alcuni lo saranno in percentuali diverse. Insomma, sia chiaro, non ho la presunzione di essere oggettivo (anche perché non conosco i quasi otto miliardi circa di abitanti del pianeta terra e me ne guarderei bene dal farlo). E’ più che naturale avere paura, è inutile perfino dirlo, ma il punto è come reagire alla paura. Il mezzo più facile è quello di creare una illusione confortante; la religione ci ha insegnato che se vuoi combattere la paura devi inventarti Dio e il meccanismo è più o meno quello. Ad oggi combattiamo la paura, una paura alla quale molti non erano abituati e non avevano mai sperimentato, con l’illusione di essere tutti uniti…almeno finché il pericolo resta vivo, perché dopo di ciò ognuno prenderà la sua strada, così come faceva prima. Siamo tutti uniti ma comunque in cuor nostro siamo “sollevati” che la catastrofe sia altrove, come eravamo spensierati quando era solo in Cina o quando la fame e l’ebola decimavano villaggi in Africa. Siamo uniti ma “meglio altrove che qui”, “meglio ad altri che a me” e il bello è che il ragionamento, seppur cinico, è giusto e assolve all’istinto di sopravvivenza. Ci dispiace, certo, ma “meglio a loro che a me”. Certo ho timore per me ma più che altro per la mia famiglia e in subordine per quelle persone che ad oggi combattono in prima linea questo male, ma non riesco a sentirmi più “unito” o più “italiano” di quanto fossi prima. Peso il prossimo con la stessa diffidenza e con la stessa distanza di prima, non mi interessa “abbracciare più forte” per trovare consolazione in un abbraccio momentaneo, non mi interessa cantare l’inno o mettere il tricolore alla finestra (non possiedo nemmeno il tricolore) perché non dimentico per paura cosa dovrebbe voler dire sentirsi popolo.
Si potrebbe dire che questa umanità sia genuina e non dettata in buona parte (notate sempre il mio essere relativo e mai assoluto) dalla paura, che l’Uomo ha capito. Beh, lasciatemi nutrire qualche dubbio e concedetemi una riflessione. Se domani questa epidemia cessasse e come per magia, come la manna dal cielo, calasse su di noi tanto benessere e ricchezza e salute e ogni dono possibile, gli uomini, immersi nella loro opulenza, si sbraccerebbero ancora per dimostrare a tutti i costi la loro “umanità” verso il prossimo?
A questa domanda non può darsi risposta certa e questa incertezza già mi basta come risposta e mi dimostra che il mio dubbio può essere legittimo

Le coppie, quelle BELLISSIME…

Oggi tratteremo un argomento di grandissima importanza e attualità: le “coppie bellissime” sui social.
Premessa obbligatoria: sui social non esistono coppie brutte e non esistono coppie medie, tutte le coppie sono categoricamente BELLISSIME, nemmeno semplicemente belle, no, BELLISSIME.
Questo è almeno quello che risulta pubblicamente sull’autostrada di bit della rete, perchè poi nel privato sappiamo che è un altro paio di maniche e sovente, quando non si è connessi, si sentono frasi del tipo: “ma hai visto con che cesso si è fidanzata Ermenegilda?” oppure “ma hai visto quel boiler della fidanzata di Ubaldo?”.
Ora non nego che ci siano coppie belle (e il fatto che non abbia usato il superlativo assoluto già è notevole), ma possibile che lo siano tutte? e possibile che l’individuo X ogni volta che si accoppia con un individuo Y diverso generi sempre una coppia “bellissima”?
Avete mai sentito dire: “Beh Vilfredo, quando ti accompagnavi con Ermelinda eravate una coppia bellissima, ora che stai con Lucilla siete solo belli/non ci azzeccate un cazzo.”. No mai. Vilfredo + Ermelinda = bellissimi come Vilfredo + Lucilla = bellissimi. Allora qual è il segreto? fosse che è Vilfredo l’astro lucente che irradia bellezza? Certo che no, è solo che (quasi) nessuno si sognerebbe di dire una cosa del genere. Questo mio discorso risulta già paradossale se ci riferiamo ad individui medi, diventa poi del tutto una presa per il culo spudorata quando il solito “bellissimi” compare come commento sotto foto di individui di improponibile bellezza; roba del tipo: “ok non sono bello io ma con te la natura ha creato una opera d’arte moderna”.
Ma come vi viene? io capisco l’affetto, la stima e anche l’ipocrisia…ma non così, non a questi livelli.
“Teso sei bellissimaaaa!!11!!”, “ma no sei tu ad essere bellissimaaaa!!111!!” (con tono di scherno, di falsa modestia e di totale mancanza di obiettività), quella roba da fiera dell’ipocrisia…che in quel caso, dato le bestie protagoniste, sembra più un circo che una fiera.
Ci deve essere una strana combinazione di tasti sulla mappa caratteri di windows che se premuti contemporaneamente generano il commento “bellissimi” o non si spiega come sia possibile che cambiano le coppie ma il risultato sia sempre lo stesso. A cosa ci si riferisce con il termine “bellissimi”? ad un concetto intrinseco e metafisico di coppia che trascende l’apparenza estetica? o si riferisce alla combinazione estetica di due individui?
Nel primo caso…che cazzo ne sai? da una foto riesci a capire che quelle due persone siano una perfetta combinazione di caratteri e personalità affini al punto tale da generare bellezza? Gente in analisi da 10 anni non riuscirebbe a dirlo di se stesso, mo arrivi tu su FB, laureato all’università della strada…
Allora forse è riferito alla forma estetica? in tal caso possiamo essere bellissimi presi singolarmente (ma facciamo i modesti su…) e invece no, quel commento spunta solo sotto le foto di coppia. Allora forse vuoi dire che siamo una bellissima unione di stili “estetici”? beh allora devo avere culo perchè sono bellissimo con tutti, pure se cambio totalmente persona e stile riesco sempre a generare una coppia bellissima.
“Bellissimi tu e Ilenia”. Ilenia: stangona da un metro e ottanta, capelli lunghi color miele, fisico statuario, culo di marmo e due tette perfette come la sezione aurea.
“Bellissimi tu e Ilaria”. Ilaria: damigiana da 52 litri di gragnano andato in aceto (stessa altezza e larghezza) baffi e basette nero corvino, pelle a buccia d’arancia (peccato sia sul viso però) e sguardo vitreo.

Cioè, fammi capire, in entrambi i casi siamo “bellissimi”? Mi stai palesemente perculando, non sempre si può essere una bellissima coppia. In certi casi, se proprio non riusciamo ad essere onesti, almeno conserviamo il buon gusto di tacere.

P.s. Chi mi commenta “bellissimi” lo blocco… 😛

Red Christmas Ornaments on Wood Background and defocused lights. Spruce Tree branch on the left and right.

Non vi fidanzate…quantomeno non a Natale!

Dicembre, il mese più magico dell’anno e come dice la celebre melodia natalizia, eccoci catapultati nel “most wonderful time of the year”. Il freddo diviene più pungente, l’aria inizia a profumare di cannella ed essenza di pino e tutto intorno è un tripudio di lucine colorate, folla e buoni sentimenti a buon mercato. Le famiglie si riuniscono, il vario “parentame” finge di volersi un gran bene almeno una volta l’anno che sono tenuti a sopportarsi, i più piccoli attendono trepidanti i doni mentre i più grandi si dividono tra quelli che escono allegri indossando un copricapo di babbo natale e quelli che invece vorrebbero sbronzarsi soli sotto l’abete natalizio per poi utilizzare quei fili luminescenti per farne una corda e porre fine alle proprie sofferenze.
Una cosa è certa, che lo vogliate oppure no, in questo mese più che negli altri il romanticismo sbanca al botteghino. Lo vediamo da sempre commercializzato sotto forma di commedie natalizie. Quelle simpatiche americanate dal lieto fine nelle quali lui incontra lei qualche giorno prima di Natale e in un paio di giorni scoprono che si amano alla follia e staranno insieme per sempre. Voi ovviamente pensate che stiano insieme per sempre perchè di queste commedie non è mai stato girato un sequel…
In ogni caso, come detto, sarà l’aria frizzante, saranno i buoni sentimenti, sarà l’aver visto troppe commedie natalizie o sarà semplicemente il tasso alcolico più alto, si è portati a farsi questo grandissimo regalo di natale…regalarsi un essere umano come partner. Bene, resistete a tutto ciò, lo dico perchè vi sono una serie di ragioni che dovreste esaminare e che vi faranno capire che no, non dovete fidanzarvi a dicembre!

Tanto per iniziare, se vi fidanzate a dicembre il primo problema da affrontare è quello che sarà SEMPRE un problema che si presenterà con cadenza annuale come l’anticipo IRPEF: il REGALO DI NATALE; in questo caso con un handicap in più, state uscendo da poco quindi vi conoscete poco. La classica cosa che si dice in questi casi è: “mi raccomando eh, niente regali di Natale, usciamo da poco”. Bene, tu pensi che una volta che lo hai detto ti sei ripulito la coscienza e stai bene, pensi di aver risolto ma non hai considerato che lei è una donna. Così prima di ingozzarti come un maiale e far salire di colpo e tutti insieme i tuoi valori ematici alle stelle o dopo averlo fatto e con un accenno di coma diabetico e rischio di infarto del miocardio (a seconda dei casi e delle usanze) lei si presenterà dinanzi a te con un bel sorriso e ti dirà quella frase…“lo so che non dovevamo farci regali, ma ho visto questa cosina e ho pensato a te”. Morale della favola, tu apri il suo pacchetto con un imbarazzo tale che non si capisce dove finisce il tuo viso e dove inizia il maglione rosso alla babbo natale (o è l’infarto che sta per sopraggiungere) e ovviamente incappi nella figura di merda di non aver preso nulla per ricambiare…nemmeno qualcosa a caso che non ti ha fatto pensare a lei. Comunque vada, il risultato sarà che uno dei due ha fatto un regalo e l’altro non ha contraccambiato. Sì lo so, state facendo i fighi ora e pensate che entrambi potrebbero farsi un regalo. Bene, fate poco i fighi perchè se vi conoscete poco magari correte il rischio di farvi regali pessimi e quindi sarete tenuti anche a fingere stupore e felicità: “era proprio quello che volevo”.
Seconda difficoltà: “cosa facciamo a Natale ci vediamo?” A meno che non siate due orfanelli cresciuti in collegio e scappati dalla guerra, avrete delle famiglie (anche e soprattutto sfasciate) e conseguentemente dei parenti (soprattutto insopportabili). Ecco, in questi casi è difficilissimo non trovarsi immersi nel parentame del tuo/a partner con tutto ciò che ne consegue. C’è lo zio che ti vuole offrire il grappino per forza e tu che cerchi di rifiutare gentilmente perchè ti fa schifo l’alcol, c’è il padre che ti vuole trascinare a tavola ad assaggiare qualcosa e ci possono essere sguardi e domande indiscrete o ancor peggio, i GIOCHI DI NATALE…La situazione non migliora se la porti nel tuo di parentame eh: “Mamma lei è Ermenegilda…è una…una…cioè, una AMICA” e partono gli sguardi sornioni e ammiccanti di chi vorrebbe dirti “ma che cazzo stai a di’, ma quale amica, ma quali amiche hai mai avuto tu?”. Momento imbarazzante parte due…dopo il regalo non corrisposto.

E questa cosa va avanti almeno per tre giorni tra la vigilia e Santo Stefano. Tutto un recarti a casa di qualcuno e gozzovigliare, tra uno struffolo e una fetta di pandoro. Ma vabbè dai, poi passati sti tre giorni è finito tutto, c’è gente che ha fatto i tre giorni al militare o chi, peggio, ha fatto i tre giorni per l’esame di avvocato…Eh no!
Dopo che sei sopravvissuto quei tre giorni arriva la batosta peggiore di tutte: “SENTI MA PER L’ULTIMO DELL’ANNO CHE FAI?”. Tu fino a quel momento avevi fatto grossi piani per l’ultimo dell’anno. Ti vedevi già con il cellulare messo in modalità aerea alle 21.00 e progettavi la tua maratona di film notturni stravaccato sul divano con il plaid, mezzo addormentato davanti all’albero illuminato con un filo di bavetta che sgorga dall’angolo della bocca. Tutto in fumo, ora non sei solo, ora sei TENUTO a fare qualcosa per l’ultimo dell’anno. Così cerchi di smarcarti fino alla fine, ti inventi qualche scusa, arrivi perfino a dire che in realtà sei ebreo e che quindi il capodanno lo festeggi a settembre…tutto inutile.
Dovrai scendere di casa nel freddo della prima notte del nuovo anno, dovrai scansare mortaretti e bengala manco guidassi la tua utilitaria lungo la striscia di Gaza per andare a finire in uno squallido locale o peggio…a casa di qualche comitiva di amici…SUOI…che non conosci…con una voglia di far festa pari a quella di Cristo nel Getsemani.
Poi il mattino seguente è il 1 gennaio, il giorno peggiore dell’anno e in genere piove, il cielo è plumbeo, hai dormito poco e di merda e già tanto basta per passare al prossimo punto.

Quando pensi che tutto è passato e francamente è stato un periodo faticoso ed estenuante, arriva l’epifania “che le feste si porta via” per gettarti in quel deserto dei Tartari che sono i mesi di gennaio, febbraio e marzo, mesi che non si è ancora capito a che cazzo servono, sono dei filler per il calendario. Ecco, altro giro altra corsa, per la befana non vuoi farle un pensiero? magari per compensare la tua figura di merda natalizia? Qui o le fai un regalo, ma si pone il problema atavico di dicembre che non sai che cazzo farle o ti butti sul classico con dei cioccolatini e dolciumi, sperando di ingarrare quelli giusti e che non sia a dieta ecc. ecc.
Ecco, dopo il sei gennaio è veramente finita, ora c’è da capire se hai ancora la forza e la voglia di proseguire nel rapporto. Se hai superato tutto ciò senza subire scalfitture di sorta, allora sei pronto per lei, in caso contrario fatti due domande.

Il mio consiglio resta uno: “ci tengo tanto a te ma…RIPARLIAMONE DOPO LE FESTE.”

De Humanarum Natura: di inchiostro e Rock

Sapete quando nei più classici film hollywoodiani il protagonista invoca la “manna dal cielo”? quando inveisce contro ogni divinità pseudo-esistente e recita la classica battuta “se ci sei, dammi un segno della tua presenza”.
Ecco, una cosa analoga, una coincidenza o un segno è arrivato. Ma posto che non credo in divinità, penso sia solo “la cosa giusta al momento giusto”.
Negli ultimi giorni mi interrogavo come solito fare sui comportamenti umani, in primis sui miei comportamenti che mi hanno causato quelle che prima facie potremmo definire “delle grane” relazionali.
Il 2018 è stato sicuramente “l’anno della contrizione”, ho passato molto tempo a pentirmi e dolermi dei miei “peccati”, o quelli che ritenevo tali. Ho avuto modo di parlare molto con me stesso, sviscerare situazioni e fare tante riflessioni che qui non esplicherò nel dettaglio per non tediare e per non tirare fuori troppi affari personali, l’unico scopo di questo piccolo post è raccontare un qualcosa che nel suo piccolo mi ha colpito, le piccole cose quotidiane insomma.
Come dicevo, l’anno della contrizione; pentimenti, porre in discussione qualsiasi cosa, pronunciare sentenze a me avverse e tutto il resto. Non dico che non sia stato utile eh, al contrario, forse era proprio quello che ci voleva in quel dato momento per comprendere alcune sfumature della complessità umana.
Poi le cose sono iniziate a cambiare di punto in bianco e siamo arrivati al 2019, “l’anno della assoluzione”. Cosa intendo per assoluzione? che sono esente da ogni colpa? che tutti i miei peccati sono stati perdonati? o che qualcosa ha emendato di punto in bianco tutto e mi ha ripulito la coscienza? No, il bello sta proprio qui. Quelli che io chiamavo peccati probabilmente non erano realmente peccati. Se fossi stato l’imputato di un kafkiano processo probabilmente i miei “reati” sarebbero stato definiti colposi e non dolosi, con una netta e significativa diminutio di pena e benchè io nel corso dell’ultimo anno abbia anche tentato la via dell’oblazione eh. Ma abbandonando il campo della giurisprudenza morale, possiamo andare più a fondo in questa sorta di autoanalisi. Quelli che io chiamavo peccati per i quali mi dolevo manco fossi un flagellante, altri non erano che caratteristiche della mia personalità. Limiti? forse sì, ma preferisco chiamarle caratteristiche, nel bene e nel male.
In ogni caso, mentre negli ultimi giorni mi “arrovellavo il Gulliver” su questi argomenti, trovando il mio personale “balsamo di Galaad” nelle nuove visioni e teorie suggeritemi dal mio intelletto instancabile, ecco che arriva la conferma, quel “segno” di cui parlavo a inizio post. Si presenta così, una mattina qualsiasi e ancora piuttosto calda di ottobre sotto forma di una ragazza in metro. La suddetta ragazza, vestita con una maglietta a maniche corte, si muove distratta cercando un appiglio per sostenersi e così, sotto i miei occhi concentrati in altri pensieri e letture, appare il messaggio in tutta la sua chiarezza. Un tatuaggio posto sull’avambraccio, una frase scritta con caratteri semplici stile vecchia macchina da scrivere: “I CAN’T CHANGE“.
Oh numi! la frase coglie subito la mia attenzione e non può che rappresentare la chiosa delle mie lambiccanti riflessioni.
Mi chiedo subito cosa abbia spinto la fanciulla in questione a tatuarsi quella frase. Che significato gli avrà attribuito? avrà in sé il germe della rassegnazione? dalla serie “sfiduciata ammetto il mio dolore intimo nel non poter cambiare come sono“, o la granitica risolutezza: “senti, sia chiaro da subito, io non posso cambiare!“. Forza o afflizione, this is the question. Sta di fatto che quella frase apparsa per caso su un braccio di una sconosciuta è proprio la risposta all’invocazione citata nel prologo del post: “se ci sei, dammi un segno della tua presenza”.
La chiave e la risposta sta tutta lì: io non posso cambiare, specie quelle caratteristiche che fanno parte di me. Dovrei sentirmi in difetto per questo? in difetto perché qualcuno si permette di dire che non vanno bene o che sono sbagliate? GIAMMAAAAI! chi sei tu per dire che non vanno bene e perché dovrei sentirmi in difetto per come sono? Io non posso cambiare
Ora giunti alla fine del post vi chiederete: “ok, ma a noi che ci frega di tutta sta filippica piuttosto personale”? La risposta è che non è personale. A parte il fatto che non vi ho raccontato poi infine nulla di personale e me ne sono ben guardato dal farlo, il tutto è così volutamente generico che la cosa può adattarsi ad ognuno di noi e fungere da “morale” per tutti.
Incidiamoci sulle carni in modo ben visibile (metaforicamente parlando eh) questa avvertenza, questa istruzione o monito che dir si voglia, come sui flaconi di sciroppo troviamo scritto “agitare prima dell’uso”. E’ un avviso che noi diamo ai nostri personali “consumatori” di affetto.
Sappi, tu, “I CAN’T CHANGE”. Anzi, vuoi saperla tutta? I WON’T CHANGE!

And this bird you can not change…

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I piagnistei dell’anima calata in una vita di plastica

Disclaimer: Il post che segue è stato ispirato da una pièce teatrale di Steven Berkoff intitolata “Kvetch”.
“Kvetch” è una parola Yiddish che vuol dire “piagnisteo“, riferito non al semplice atteggiamento lamentoso esteriore, ma ai “lamenti” interiori dell’anima, quelli più profondi. Pertanto invito, per capirne di più, a visionare l’opera citata.

I nomi citati nel post sono di pura invenzione e non si riferiscono ad alcuna persona in particolare, quindi se vi doveste riconoscere in uno dei personaggi sappiate che non siete voi il modello di riferimento, ma il fatto stesso di esservi immedesimati vuol dire che ho descritto qualcosa non tanto distante dalla realtà…


E’ tutto finto, non esiste nulla che possa definirsi autentico. Ciò che può definirsi minimamente tale è solo “ciarpame” da accantonare in un angolo, qualcosa di scomodo di cui liberarsi, da non ascoltare, da tenere lontano e additare con espressione canzonatoria di disgusto.
Ogni giorno come degli astuti mercanti cerchiamo di spacciare per oro del volgare ottone, cerchiamo di recitare al meglio il nostro copione e mantenere il ruolo che ci siamo dati.

C’è Mario, fisico atletico simbolo della virilità, con il suo sguardo fiero, il sorriso sornione che dispensa con generosità a tutti, sempre nel suo completo blue marine con camicia bianca dal colletto inamidato che fa da contrasto con l’abbronzatura ambrata. L’uomo sempre indaffarato, attivo, che vuole dimostrare la sua forza anche nel mondo degli affari, la sua competitività, il suo essere sempre al top nel suo microcosmo fatto di caffè offerti al bar e frasi motivazionali condivise su Facebook. L’uomo che alla domanda “Ciao Mario come và?” risponde sempre con un “BENONE” o “alla grande”. Dietro i completi dalle pieghe ben stirate e le cravatte annodate con un elegante nodo Windsor, Mario ha una paura fottuta. Ha paura di non realizzare i suoi obiettivi, ha paura di rimanere senza un euro in tasca, ha paura che gli altri non lo accettino per quello che è, ha paura di non piacere abbastanza, di non ESSERE abbastanza, di non aver soddisfatto le aspettative di quel padre che lo avrebbe voluto medico, di essere una delusione per le persone alle quali vuole bene.

C’è Mara, la donna forte e sicura di se dal look sempre curatissimo. Truccata finemente, capelli che hanno visto mille colori e acconciature diverse, accessori, tatuaggi che le fanno ricordare quella particolare vacanza tanto desiderata o una frase iper-positiva da recitare come un mantra. Parla con loquacità, si mostra disponibile e così sicura di sé che gli altri arrivano perfino a crederle. E’ la classica amica di tutti, piace a tutti, tanti vorrebbero averla come donna al proprio fianco o quantomeno come donna nel proprio letto.
Ma quell’impalcatura di cipria e mascara tanto ammaliante di giorno si scioglie in caldi rivoli che macchiano il cuscino ogni notte. La paura di rimanere da sola, di invecchiare velocemente in solitudine, l’incubo dello specchio che le restituisce un’immagine segnata di cui finge di andar fiera ma con la quale deve fare i conti ogni giorno.

Poi c’è Riccardo che ha paura che un qualche strano, oscuro ed improvviso male lo stronchi prima che sia riuscito a far qualcosa che ha pianificato di fare nella sua vita ma che rimanda, per paura di non riuscire o per semplice generica paura di fare un passo al di là del suo limite.
C’è Antonio che ha paura perchè non sa cosa fare di una vita nella quale le “cose belle” non sembrano essergli concesse mai e i giorni gli sfuggono dalle mani troppo velocemente per agguantarli.
Marco ha paura di non riuscire a gestire sempre la situazione, ha paura di volare come ha paura di far tardi a lavoro o di parlare con quella collega che tanto gli piacerebbe invitare fuori per bere qualcosa.
Lucia ha paura di mollare il suo lavoro sottopagato per tentare di intraprendere la sua strada, Giovanna ha paura della spirale di vacuità nella quale si è persa, Alberto ha paura del mondo, di sentirsi inadeguato, di vivere e ogni giorno pensa a come dovrebbe alleviare il mondo dalla propria ingombrante e inutile presenza.

Tutte queste persone e molte altre ancora calcano ogni giorno il palco dove si svolge la recita, spesso monotona, della nostra vita; sono il nostro collega di lavoro, il ragazzo che ci serve il caffè al bar, la commessa del negozio e tutte hanno in comune una cosa sola, la PAURA che si cela alla bell’e meglio dietro le loro maschere quotidiane. Una paura che spaventa così tanto da rappresentare un tabù da celare con estrema pudicizia, come qualcosa di cui aver estrema vergogna.

Tutto diventa una recita, uno spettacolo con repliche continue, una finzione per ingannare gli altri ma che non convince poi a pieno noi stessi, attori di questa assurda commedia consapevoli del nostro ruolo meramente attoriale, perchè l’attore sa di essere alla fine solo una maschera. Ciò che è  davvero reale non è la vita come la percepiamo, ma la vita che viviamo dentro le nostre coscienze, nei nostri “kvetch” quotidiani e quando siamo soli con noi stessi.

Ma se domani tutti confessassero le proprie paure, queste avrebbero tutte ancora ragione di esistere…?

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Il cristianesimo anticristiano di Fedor

Dostoevskij è da sempre considerato un acuto osservatore e un grande indagatore della complessità dell’ animo umano. Con un approccio analitico in ogni romanzo ha sempre messo al centro della sua indagine l’Uomo, con i suoi vizi, le sue virtù, le proprie psicosi e i propri drammi interiori. L’aspetto spirituale non poteva essere certo tralasciato, ciò che muove l’animo umano, il grande mistero e il grande problema irrisolto della fede che ha ispirato la creazione di alcuni personaggi che sono gli alter-ego dello stesso Dostoevskij, spesso consunti dal dubbio e pieni di interrogativi inevasi, divisi tra profondo scetticismo e fede in Cristo.

Ciò che emerge a più riprese è la critica fatta nei confronti del cristianesimo “occidentale”, una critica che potremmo definire attualissima sulla crisi dei valori che ha sempre interessato la Chiesa e che ha portato ad una graduale “impopolarità” della religione specie nelle più recenti generazioni. Una delle più feroci critiche viene mossa in un monologo che Dostoevskij fa pronunciare al Principe Myskin dinanzi al consesso dell’alta borghesia e nobiltà russa che assiste con sommo stupore e malcelato sdegno alle parole dell’ idiota:

«Come sarebbe a dire che il cattolicesimo è una fede non cristiana?» Ivan Petroviè si girò dalla sua posizione, «e allora cos’è?» «Per prima cosa è una fede non cristiana!» rispose il principe in preda a forte agitazione e con un’asprezza fuori luogo, «questo per prima cosa, per seconda cosa, il cattolicesimo romano è peggio dell’ateismo stesso! Questa è la mia opinione! Sì! La mia opinione! L’ateismo predica il nulla, mentre il cattolicesimo va oltre: predica un Cristo travisato, un Cristo calunniato e oltraggiato, un Cristo contrario alla verità! Predica l’anticristo, ve lo giuro, ve lo garantisco! È una mia convinzione personale da lungo tempo, mi ha tormentato molto… Il cattolicesimo di Roma crede che senza il potere statale universale la Chiesa non possa stare al mondo, e grida: Non possumus! Secondo me il cattolicesimo non si può neanche considerare una fede, ma la perpetuazione dell’Impero Romano d’Occidente, e in esso tutto è subordinato a questa idea, a partire dalla fede. Il papa ha conquistato la terra, un trono terrestre e ha imbracciato la spada, e da allora tutto procede così, solo che alla spada hanno aggiunto la menzogna, la scaltrezza, l’inganno, il fanatismo, la superstizione, la malvagità, hanno giocato con i più sacri, giusti, semplici e ardenti sentimenti del popolo, hanno barattato tutto per denaro, per il meschino potere terreno. E questa non è la dottrina dell’anticristo?! Come avrebbe potuto da essa non derivare l’ateismo? L’ateismo deriva dai cattolici, dallo stesso cattolicesimo romano! L’ateismo ha preso le mosse da loro prima di tutto: potevano credere loro stessi in quello che facevano? Esso si consolidò in seguito al rigetto che provocarono, esso è il frutto della loro menzogna e della loro fiacchezza spirituale! L’ateismo! Da noi è diffuso solo negli strati privilegiati, come ha detto magistralmente Evgenij Pavloviè qualche giorno fa, negli strati cioè che hanno perduto le loro radici. Mentre in Europa miriadi di appartenenti al popolo incominciano a non credere. Prima il fenomeno era dovuto all’ignoranza e alla menzogna, mentre ora è determinato dal fanatismo, dall’odio verso la chiesa e la cristianità!» (Dostoevskij: “L’Idiota”)

Il Principe Myskin dinanzi ai vari consociati parla di un “Cristo travisato”, parla altresì di un potere temporale, terreno, conquistato con la spada (la “spada di Cesare”), di una Chiesa corrotta e votata più al materialismo che alla cura delle anime. Leggendo questo brano non possiamo che ricollegarci ad un altro fondamentale passo estratto dall’ultima delle sue monumentali opere: “I Fratelli Karamazov”, dove il Grande Inquisitore, un uomo che in quel momento rappresenta la Chiesa, pare riprendere le argomentazioni del Principe per affermarle con vigore e “violenza”, proponendosi di mettere a rogo il Cristo e tutto ciò che egli porta con se, in primis la libertà piena, per votarsi totalmente a lui, all’Anticristo, perpetrando il grande inganno della Chiesa Romana. Questo è l’unico modo per liberare gli uomini dal “peso” della libertà che gli fu donata con il sommo sacrificio e per soggiogarli in quanto non ritenuti capaci di gestire un tale dono. Il cristianesimo diventa in questi termini il guinzaglio con il quale la Chiesa tiene a bada il suo popolo.

«Abbiamo corretto l’opera Tua e l’abbiamo fondata sul miracolo, sul mistero e sull’autorità. E gli uomini si sono rallegrati di essere nuovamente condotti come un gregge e di vedersi infine tolto dal cuore un dono così terribile, che aveva loro procurato tanti tormenti. Avevamo noi ragione d’insegnare e di agire così? Parla! Forse che non amavamo l’umanità, riconoscendone così umilmente l’impotenza, alleggerendo con amore il suo fardello e concedendo alla sua debole natura magari anche di peccare, ma però col nostro consenso? […] E dovrei io nasconderti il nostro segreto? Forse Tu vuoi proprio udirlo dalle mie labbra, ascolta dunque: noi non siamo con Te, ma con lui, ecco il nostro segreto! Da lungo tempo non siamo più con Te, ma con lui, sono ormai otto secoli. Sono esattamente otto secoli che accettammo da lui ciò che Tu avevi rifiutato con sdegno, quell’ultimo dono ch’egli Ti offriva, mostrandoti tutti i regni della terra: noi accettammo da lui Roma e la spada di Cesare e ci proclamammo re della terra, gli unici re, sebbene non abbiamo ancora avuto il tempo di compiere interamente l’opera nostra. Ma di chi la colpa? Oh, quest’opera è finora soltanto agli inizi, ma è cominciata! Ancora a lungo si dovrà attenderne il compimento e molto ancora soffrirà la terra, ma noi raggiungeremo la mèta, saremo Cesari, e allora penseremo all’universale felicità degli uomini. Tu però già allora avresti potuto accettare la spada di Cesare. Perché ricusasti quest’ultimo dono? Accogliendo questo terzo consiglio dello spirito possente, Tu avresti compiuto tutto ciò che l’uomo cerca sulla terra, e cioè: a chi inchinarsi, a chi affidare la propria coscienza e in qual modo, infine, unirsi tutti in un formicaio indiscutibilmente comune e concorde, giacché il bisogno di unione universale è il terzo e l’ultimo tormento degli uomini.» (Dostoevskij: “I Fratelli Karamazov”)

Una corrispondenza, un interessante ed ideale dialogo intervenuto tra due personaggi di due romanzi diversi a oltre 10 anni l’uno dall’altro.

La sublime arte della Solitudine

Tra le tante materie che NON ti insegnano a scuola (e che invece dovrebbero) ce n’è una che mi è venuta in mente in questi giorni, mentre me ne stavo in cucina a lavare i piatti nel più totale silenzio di un pomeriggio di agosto. Non ci insegnano di avere a che fare con noi stessi ed in particolare non si fa educazione alla solitudine che è a mio avviso un’arte che va coltivata ed affinata.
E’ un qualcosa di impegnativo che richiede sacrificio e sforzo per qualcuno, ma è uno sforzo da compiere, così come è faticoso andare in palestra per fare un bel fisico scolpito e stare in forma. Molti si preoccupano molto del proprio fisico e del loro aspetto esteriore, sudano in palestra, si sottopongono a trattamenti dolorosi o invasivi, in breve fanno sacrifici, ma forse in pochi sono disposti a fare sacrifici per sviluppare un qualcosa di più intimo.

Sicuramente molto può influire l’attitudine “innata”; ad alcuni non pesa molto andare in palestra, non la vivono con sacrificio e fatica, così come ad alcuni risulta più facile stare da soli, semplicemente perché ci sono portati o abituati, magari perché hanno iniziato a far “pratica” e ad “allenarsi” in modo inconsapevole, trovandosi ad una certa età già con delle belle spalle larghe.
Si fa un gran parlare di “indipendenza” e “solitudine” sulle pagine di riviste più o meno patinate, spesso con fastidio noto che sembra che tali riviste vogliano strizzare l’occhio al lettore suggerendogli cose tipo: “sì, anche tu sei un figo solitario” (a prescindere se ciò sia vero), come se una persona che sceglie un grado più o meno marcato di solitudine sia un supereroe da ammirare. Ecco, togliamo quest’aura da “Übermensch” all’argomento che rischia di banalizzare un qualcosa che non è affatto banale, anzi.
Come dicevo, credo che soprattutto per alcuni sia necessario ed importante fare i conti con la “solitudine” e tentare di allenarsi per sviluppare questa dote che apporta anche notevoli benefici. A scuola ci hanno insegnato che l’uomo è un “animale sociale” (Aristotele), nella vita di tutti i giorni vediamo che questa “socialità”, sia essa sana o malata, si è spinta molto in avanti eliminando le barriere dello spazio,in una epoca delle connessioni a banda larga. Va tutto bene, nessuno pretende di predicare l’ascetismo o la “disconnessione”, ma dobbiamo fare attenzione perché tutto questo ha fatto sparire quel tempo in cui uno può giovarsi della compagnia di se stesso o dell’assenza totale di compagnia. Questo a mio avviso conduce ad un risultato poco piacevole: si ricerca la compagnia per noia, per incapacità di godere della solitudine. Vista sotto questa ottica la compagnia soddisfa un bisogno egoistico: “sto con te per non stare solo con me” che non è un “sto con te perché ho piacere a star con te” e ciò banalizza anche il concetto di compagnia, di amicizia, di amore, insomma di rapporto umano in senso lato.

Per questo motivo ritengo che tutti dovrebbero studiare e applicare come un esercizio l’arte della solitudine. Magari provando a sperimentare periodi di solitudine sempre maggiori, prima una sera, poi una intera giornata, poi una settimana e così via, fino a sentirsi a proprio agio e non sentire la necessità della compagnia. Ciò condurrebbe ad una serie di benefici: in primis, il venir meno della paura della solitudine (che molti hanno) comporterebbe l’acquisizione di maggior libertà di scelta; scelgo ciò che realmente mi piace fare, non qualcosa che non mi piace ma che rappresenta una fuga dallo stare da solo, in secundis il disinteresse dell’opinione altrui. Chi non teme di starsene appartato per conto suo non si pone il problema di dover essere in ogni caso accettato dagli altri, quindi non si sforzerà di piacere e di base rimarrà una persona “genuina”. Ma cosa di fondamentale importanza, padroneggiare l’arte della solitudine consentirebbe di valorizzare realmente la compagnia. Giacché chi sta bene da solo non ha bisogno per forza di compagnia perché non cerca rifugio da se stesso, quando questi decide di avvalersi della compagnia di qualcuno lo fa non per necessità, non con spirito egoistico, ma per puro piacere di godere della compagnia di un dato individuo. Questo comporta anche una automatica e conseguente selezione delle persone che riteniamo meritevoli di reale stima o quantomeno interessanti.

Tempus fugit…take a break!

Credo che chiunque abbia vissuto la sua giovinezza fino agli anni novanta abbia avuto l’opportunità di imparare un grande insegnamento dalla vita. Qualcuno è riuscito a farne tesoro, qualcun altro, totalmente accecato dalla modernità, ha dimenticato tutto e ha perso di vista il senso delle cose, il reale “senso” delle cose, ciò che nella vita possiamo dire che è davvero importante. Ecco, forse il problema sta tutto lì. Con l’avvento del nuovo millennio tutto ha acquistato una velocità diversa, siamo passati da una tranquilla maratona allo scatto del centometrista. Chi è nato prima, fino agli anni ottanta, questo scatto, questo cambio di velocità lo ha notato eccome, diversamente i “millennials” ci sono nati in corsa, sono nati già centometristi. La differenza con la “Generazione Y” è che noi “vecchi” eravamo abituati a viaggiare in macchina, questo comportava che il panorama scorreva lentamente; avevi modo di vedere le altre auto sulla carreggiata, di vedere quelle lunghe autostrade di notte o le macchie verdi degli alberi e dei prati che come in un cinema scorrevano oltre il finestrino, avevi anche tempo per della sana e benefica “noia”. I “millennials” invece sono la generazione dei voli low cost. Sali sull’aereo, ti siedi, fai le tue migliaia di chilometri in poco tempo senza accorgerti di nulla e senza vedere un tubo e in poco tempo sei bello e che arrivato a destinazione. Il bello è l’approdo, non il momento che lo precede, non l’esperienza di viaggio. L’importante è arrivare e in meno tempo possibile.
Il viaggio è la esatta metafora di ciò che ci distingue nella vita di tutti i giorni e in tutti i suoi aspetti; dai rapporti di amicizia a quelli sentimentali. La “lentezza” o l’attesa alla quale siamo stati abituati ci ha offerto una grande lezione di vita che non dovremmo mai scordare. Ci ha insegnato (o avrebbe dovuto insegnarci) a prendere tempo per riflettere sulle cose veramente importanti e ad ottimizzare.
Avevamo pochi mezzi e dovevamo usarli al meglio. Se partivamo per una vacanza avevamo un rullino di 36 foto, e in quelle 36 foto dovevamo riassumere i ricordi di una intera estate; vien da se che dovevamo scegliere con molta attenzione i momenti meritevoli di essere impressi su pellicola e nei nostri personali ricordi. Stesso si dica per la comunicazione nell’era “no-digital”, avevamo poco spazio sul retro della cartolina per condensare un sentimento in poche semplici parole, così come un gettone telefonico scandiva quegli scatti in cui ci toccava racchiudere l’intera conversazione che non poteva essere spesa in vaghe chiacchiere.

E siamo cresciuti con questi insegnamenti, con il dono della sintesi in 160 caratteri di un sms, con il “ti penso” manifestato con uno squillo, con l’attesa prima dell’arrivo di una lettera o l’attesa dei tempi di sviluppo di una fotografia da incorniciare o infilare in un diario. Oggi ci riempiamo di foto o di mail,  ci riempiamo fino alla nausea di parole e messaggi vocali, il tutto avvolto da una quasi gratuità dei mezzi di comunicazione. Non dobbiamo studiare la parola giusta al momento giusto nè dobbiamo attendere tempi di risposta lunghi, possiamo dirne in quantità e a tutti e quindi dispensiamo parole sempre più vuote, veloci e gratuite.

Ciò che oggi manca, in questo mondo iper-connesso e che corre senza sosta, è proprio il piacere dell’attesa. E come diceva Gotthold Ephraim Lessing: “l’attesa del piacere è essa stessa il piacere”