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L’unica vita possibile di Christopher McCandless

Oggi il sole ha ceduto il passo alle nuvole finalmente, la brezza rinfresca lievemente l’aria e i colori cupi avvolgono dolcemente questo piccolo angolo di mondo. Quale commistione migliore di eventi per dedicarsi ad un po’ di sana riflessione?

Riflettevo riguardo quel famoso film, “Into the Wild”, tratto dal romanzo intitolato “Nelle terre estreme” di Jon Krakauer, che ahimè però non ho letto, anche se mi dicono che in pochi casi il film supera di gran lunga il libro e questo è uno di quei pochi casi.

La storia di Christopher McCandless o di Alexander Supertramp, come lo si voglia chiamare, è ben nota a molti oramai; un giovane ragazzo che decide di abbandonare tutte le ricchezze e gli agi famigliari, alla stregua di un novello San Francesco, per inseguire il sogno dell’Alaska e della vita selvaggia, sulle orme di autori quali Jack LondonHenry David Thoreau. Liberarsi di tutte le convenzioni sociali e dell’Uomo stesso, “love not Man the less, but Nature more” come diceva Lord Byron, uscire al di fuori dello schema preimpostato dimostrando che un’altra vita è possibile e forse può essere anche migliore perchè persegue quell’alto principio che è la libertà. La carriera? il matrimonio? convenzioni, il denaro? qualcosa di inutile che non fa altro che rendere schiavo l’uomo, agganciato sempre di più ai bisogni che la società crea ad hoc per lui, una società che sempre più punta alla iper-produzione e alla competitività, premiando non colui che ha merito ma colui che produce più bisogni virtuali, ponendo nei fatti l’uomo dinanzi ad un bivio:

  1.  soddisfare quei bisogni che man mano vengono “creati”
  2.  non riuscire soddisfare quei bisogni che la società mette in vetrina e agita come un biscotto dinanzi ad un cane affamato.

In entrambi i casi il risultato è uguale e fallimentare: l’insoddisfazione. Il soddisfacimento di alcuni bisogni comporta il loro superamento e la necessità di soddisfarne sempre degli altri, il che non porta mai un reale soddisfacimento. Allo stesso tempo il non riuscire a soddisfare un bisogno, (un’auto di lusso o un viaggio costoso o uno status symbol a caso) comporta insoddisfazione e frustrazione. Il punto è che è tutto fittizio. Esistono realmente questi bisogni? sono realmente bisogni? NO! e questo probabilmente McCandless lo aveva capito bene.

Era una sorta di asceta misantropo che odiava la società? Mah, probabilmente odiava la società in quanto istituzione e portatrice di certi valori distorti, forse odiava la modernità che aveva condotto dall’uomo libero all’uomo schiavo del consumo e delle merci, ma non credo fosse uno scontroso misantropo, non odiava l’Uomo, forse lo cercava come lo cercava Diogene (ma senza lanterna), cercava il concetto di Uomo e dove cercarlo se non all’interno della natura più selvaggia? nel seno che lo ha partorito? Probabilmente nel suo piccolo era un “filantropo” per quanto ci è dato sapere.

Molto spesso il commento che più facilmente si sente a riguardo della figura di Christopher McCandless è uno in particolare: “E’ stato stupido perchè non era adeguatamente preparato ed è morto come un fesso.”

Sì, a prima vista è ciò che sembrerebbe la conclusione più ovvia, ma allo stesso tempo la più superficiale o semplicistica che non prende in considerazione quanto c’è dietro. Christopher decide di affrontare un territorio impervio come l’Alaska, vivendo in un bus abbandonato (il famoso “Magic Bus”) e cavandosela con delle nozioni base di caccia o consultando libri sulle piante edibili, morendo poi probabilmente avvelenato da semi di una qualche pianta. Eppure no, a ben pensarci, malgrado tutto non è stato un idiota. L’idea personalissima che mi sono fatto è che è stato uno dei pochi uomini a morire per qualcosa in cui credeva, sebbene fosse folle l’idea di fuggire dalle regole della società vivendo basandosi solo sulle proprie forze di uomo “addomesticato” oramai dalla società e sempre più incapace di cavarsela nel suo ambiente naturale di appartenenza. Ma d’altra parte quanti pionieri sono morti per un principio o per una idea che altri consideravano folle?

Che forse la vita acquisti davvero significato solo se si è disposti ad accettare anche l’estrema conseguenza per un proprio ideale? Essere Uomo di “fede” (non intendo strettamente religiosa, ma anche nell’accezione “laica” del termine) è per pochi, essere disposti a morire per la propria “fede” è qualcosa di raro. Allora in questo caso sì, una vita così è l’unica vita possibile.

Le porte della percezione: Tanti auguri Aldous

“Noi viviamo insieme, agiamo e reagiamo gli uni agli altri; ma sempre, in tutte le circostanze, siamo soli. I martiri quando entrano nell’arena si tengono per mano; ma vengono crocifissi soli. Allacciati, gli amanti cercano disperatamente di fondere le loro estasi isolate in una singola autotrascendenza; invano. Per la sua stessa natura, ogni spirito incarnato è condannato a soffrire e godere in solitudine. Sensazioni, sentimenti, intuiti, fantasie, tutte queste cose sono personali e, se non per simboli e di seconda mano, incomunicabili. Possiamo scambiarci informazioni circa le esperienze, mai però le esperienze stesse. Dalla famiglia alla nazione, ogni gruppo umano è una società di universi-isole.”

“Le Porte della Percezione”Aldous Leonard Huxley (Godalming, 26 luglio 1894 – Los Angeles, 22 novembre 1963)

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What is real? – In bilico tra sogno e realtà.

L’interrogativo del giorno.


La Realtà: esiste in quanto percepita dai nostri sensi o esiste in quanto plasmata da questi?

Tutto risiederebbe nel definire che ruolo giocano i nostri sensi, se “passivo” o “attivo” nella determinazione della Realtà, se esiste qualcosa fuori dall’ “io” e se questa cosa è conoscibile e in che grado.
Se i nostri sensi fossero “passivi”, meramente recettivi, allora significherebbe che esiste qualcosa al di fuori che è la Realtà e che noi tutti abbiamo la capacità di vederla e percepirla come tale, senza che vi siano barriere di sorta.
Se invece ritenessimo i nostri sensi come cellule “attive”, allora sarebbero questi, il nostro “io”, a creare la Realtà; magari combinando elementi esterni che non sono oggettivi, ma acquisiscono valore in quanto noi vogliamo dargliene. Ne discende l’interrogativo ulteriore: tutto ciò che noi plasmiamo in questo secondo caso può dirsi sempre reale? Quindi possiamo avere una Realtà pressoché infinita?

Station

Pensieri…ESPRESSI: storie di treni e stazioni.

Vi siete mai trovati a passeggiare all’interno di una stazione ferroviaria e pensare che non vi è luogo più sentimentale e traboccante di umanità di quello? una specie di tempio spirituale laico dove si suggellano promesse e si confidano sentimenti a cuore aperto, un melting pot di energie e sensazioni che si fondono insieme e generano una atmosfera così densa che ti ci senti invischiato ad attraversarla.

Le stazioni ferroviarie sono un mondo a parte, microcosmi multietnici, nuclei brulicanti di vita con i loro riti e ritmi scanditi dagli orari luminosi sui tabelloni a led. Luogo in cui mille lingue si confondono tra loro in musiche dai molteplici accenti, i profumi locali si fondono con gli afrori etnici e le sfumature del colore della pelle abbracciano le più svariate tonalità dall’eburneo al bruno. Tutti sono impegnati e assorti nella loro febbrile attesa; c’è chi freme eccitato per il viaggio che sta per intraprendere e che lo porterà a scoprire posti nuovi, chi con soddisfazione e un pizzico di malinconia si appresta a ritornare al suo paese dopo aver fatto incetta di nuove esperienze in una terra prima sconosciuta, chi attende con impazienza di ricongiungersi ad un proprio caro o ad un amore che lo attende alla fine di quel lungo binario che separa i due cuori. Il tumulto degli animi che si agitano senza sosta tra un annuncio rimbombante e una scritta luminosa che balena veloce su uno schermo.

C’è chi siede a terra sfatto e circondato da bagagli come un naufrago, chi sonnecchia placidamente su uno zaino, chi approfitta dell’attesa per permettersi un fugace spuntino mentre prosegue il balletto dei led luminosi che alternano nomi di città, orari e numeri che si offrono come uno spettacolo pirotecnico agli occhi  contemplanti ed attenti degli astanti rivolti con il naso all’insù. Qualcuno si affretta a passo rapido con l’espressione smarrita, qualcun altro inganna il tempo procedendo lentamente e perdendosi in chiacchiere; dal bambino tenuto per mano, scosso e ridestato dal genitore che lo distoglie dai suoi stupori puerili, all’anziano che procede fiacco trascinando il peso dei suoi anni.

Passeggiare in stazione ed essere abbracciati da questo tumulto di energie è sempre una rinfrancante sensazione. Si rivivono le emozioni di vacanze trascorse, di viaggi intrapresi con entusiasmo di esperienze fatte e di zaini zeppi di ricordi. Per quei pochi minuti che consentono l’attraversamento della stazione fino all’uscita ti senti parte di un popolo senza patria, il popolo dei viaggiatori.

 

 

Easy Rider

La rivoluzione su due ruote: buon compleanno Easy Rider.

Siamo nella calda estate del 1969, precisamente il 14 luglio 1969 e nella sala cinematografica Beeckman di New York viene proiettato quello che sarebbe divenuto un capolavoro della cinematografia americana e mondiale: “Easy Rider“, film diretto dal compianto Dennis Hopper e rientrato a pieno titolo nella lista dei migliori 100 film della storia del cinema.
Questo breve articolo non vuole essere una recensione del film, il web ne è pieno di recensioni di persone molto più capaci di me, quanto una personale celebrazione accorata per i suoi 50 anni attraverso un breve viaggio nel tempo, saltellando senza troppe pretese da un anno ad un altro e tra un evento e l’altro.

Cos’è Easy Rider? la risposta è molto semplice; la storia di due tizi in motocicletta che percorrono le strade americane dalla California a New Orleans. Sì ma che Paese realmente percorrevano Billy e Wyatt “Capitan America”?

Un Paese che stava subendo sicuramente profondi cambiamenti e rivoluzioni e che stava acquistando una nuova coscienza che si liberava di anno in anno da quel  torpore borghese e puritano. Un Paese che viveva nella paura e nell’apprensione per i padri, i figli e i fratelli che combattevano al fronte in Vietnam una guerra crudele e ampiamente contestata dai movimenti studenteschi pacifisti che vedevano l’appoggio di tutta la controcultura letteraria e artistica del tempo. I libri e le canzoni diventavano inni di libertà, manifesti di pace, martellanti sveglie per le coscienze ancora sopite, insomma c’era un fermento; il mostro della guerra aveva generato qualcosa che era difficile ostacolare perchè aveva più forza dei fucili e delle flotte spiegate al fronte.

Il film diretto da Hopper infatti si colloca anch’esso in quest’ottica anti-borghese e per certi versi anti-holliwoodiana rappresentando un nuovo modo di fare cinema; a basso budget, senza una troupe cinematografica e con un copione aperto che lasciava ampio spazio all’improvvisazione degli attori. Un film realistico, concreto, lontano dal glamour cinematografico e vicino alle comunità e alle persone vere, quegli hippy che in modo non professionale hanno dato il proprio apporto per le riprese del film.

La figura stessa dell’avvocato George Hanson  interpretato magistralmente da un giovane Jack Nicholson alle prime armi è di una importanza emblematica. Lui, un avvocato che dovrebbe rappresentare la classe borghese che si unisce al duo hippy perorandone la causa scevro da preconcetti e con la curiosità dell’uomo che ha in se il germe della Cultura. I temi da lui affrontati sono di una profondità e di una attualità che andrebbero insegnati nelle scuole, ogni sua riflessione offre spunti validi sul modello di società perfetta e utopica, sull’uomo e sulla natura delle droghe, evitandone la demonizzazione e preferendo un approccio più pragmatico.

“Vengono dal nostro sistema solare, solo che la loro società è più evoluta della nostra! Voglio dire che non hanno guerre, non hanno un sistema monetario e soprattutto non hanno capi, perché ognuno di loro è un capo. Voglio dire, ognuno, grazie alla loro tecnologia, è in condizione di nutrirsi, vestirsi, avere una casa, e circolare come vuole senza differenza ne’ sforzi.”  (George Hanson)

Alla guerra combattuta al fronte si scelse e si sentì forse l’esigenza di contrapporre l’amore quale reazione forte e automatica nei confronti delle tensioni politiche orientali, parliamo dell’amore hippy sfociato nella “Summer of Love” del 1967 tra le strade di Los Angeles che avrebbe avuto il suo culmine nel Festival di Woodstock appena un mese dopo l’uscita del film nelle sale. L’amore come strumento di rivendicazione di diritti contro i dettami puritani degli anni 50 e forma di emancipazione per la donna che porterà alla nascita dei primi movimenti femministi che si batterono per la conquista dei diritti civili.

Cominciarono a spuntare come funghi e si diffusero a velocità vertiginosa le prime comunità hippy come quella nel quartiere di Haight Ashbury a San Francisco, e con loro la diffusione delle droghe psicotrope come la marijuana e l’LSD. La droga diviene il viatico per il raggiungimento di stati di coscienza diversi, per la ricerca di una spiritualità anche per molti artisti del periodo che ne facevano largo uso e rappresenta lo strumento di rottura con quel tipo di società dalla quale si volevano prendere le distanze per fondarne una nuova basata sulla fratellanza e sulla comunione, “Come on and be a friend, don’t bogart that joint, my friend pass it over to me.” cantavano i Fraternity of Man in quegli anni.

I nostri moderni cavalieri si muovono proprio in questo substrato culturale, tra le comunità sparse di hippy che si dedicavano ad una vita semplice e quanto più autarchica possibile e il consumo di droghe (reale sul set) che aprono la mente a concetti ancora attualissimi e che hanno ad oggetto la libertà, l’uomo e la sua collocazione nella società come è e come dovrebbe idealmente essere. L’uso delle droghe, argomento spinoso in un film del 1969, è ben lungi dall’apparire meramente ricreativo e fine a se stesso, ma appare più come rituale sciamanico che ha lo scopo di sollevare quel velo di Maya per giungere ad una consapevolezza più profonda e quasi “esistenzialista” per certi versi. Billy e Wyatt sono uomini che rappresentano un concetto, un ideale di cui se ne sentiva grande necessità e di cui se ne sente necessità in ogni epoca storica essendo sempre attuale: la LIBERTÀ.

“è difficile essere liberi quando ti comprano e ti vendono al mercato. E bada, non dire mai a nessuno che non è libero, perché allora quello si darà un gran da fare a uccidere, a massacrare, per dimostrarti che lo è. Ah, certo: ti parlano, e ti parlano, e ti riparlano di questa famosa libertà individuale; ma quando vedono un individuo veramente libero, allora hanno paura.” (George Hanson)

Negli anni precedenti c’era stata una gran sete di libertà, nel 1963 avevamo assistito alla marcia su Washington per il lavoro e la libertà degli afroamericani, in quell’anno Martin Luther King aveva pronunciato le famose parole “i have a dream”, le comunità nere avevano iniziato ad alzare sempre più la voce chiedendo più diritti, equo trattamento, dignità, LIBERTÀ, sfociando in movimenti più radicali e oltranzisti del Black Power con Malcom X. Era un periodo di rivolta degli uomini, una rivolta fisica, spirituale e intellettuale.

Il film è un classico “road movie” e percorre le strade di un paese in rivolta, spaccato a metà: da un lato gli uomini liberi che inseguono il sogno della libertà, dall’altra gli uomini che la libertà la temono. Queste categorie sono in perenne lotta; i primi credono nel pacifismo, nella musica rock che fa da colonna sonora al film con brani degli Steppenwolf, Jimi Hendrix o i The Byrds, nelle droghe, nelle donne, nei capelli lunghi e nel look stravagante da moderni bohemien, i secondi credono nella repressione, nei fucili, nella diffidenza, nella xenofobia e nel pregiudizio.
I primi ripercorrono i sentieri già battuti nei primi anni 50 dagli esponenti e fondatori della Beat Generation, ne seguono le orme e riprendono il topos del viaggio che era stato reso celebre nel 1951 da Jack Kerouac nel suo romanzo “Sulla Strada“, dove si narravano le avventure dei due viaggiatori per eccellenza: Sal Paradise e Dean Moriarty.
Gli esponenti della Beat Generation si prefissavano un obiettivo sicuramente non facile, pregno di idealismo utopico forse e sicuramente rivoluzionario: “Aiuteremo a modificare le leggi che governavano i cosiddetti paesi civili di oggi: leggi che hanno coperto la Terra di polizia segreta, campi di concentramento, oppressione, schiavitù, guerra, morte” diceva Allen Ginsberg, quella “Terra” che invece risultava cara agli osteggiatori della libertà che si parano a più riprese “sulla strada” dei nostri eroi in motocicletta.
Loro sono i veri pionieri di un Paese da rifondare, i veri eroi di una rivoluzione donchisciottiana probabilmente, quelli che ci hanno creduto e quelli che dopo 50 anni forse continuano a crederci ancora.

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La compassione dell’idiota

“La baciavo non perché fossi innamorato di lei, ma perché mi faceva tanta compassione,
e fin dall’inizio non l’avevo affatto ritenuta colpevole, ma solo disgraziata.”

(A tutte le Marie del mondo…)

Un atto di compassione, un semplice bacio, un gesto d’amore nei confronti del prossimo; no, non parliamo di quella forma di amore passionale o sensuale tra uomo e donna, ma di amore come concetto universale e profondo. Questo provava l’ingenuo principe nei confronti dell’ultima tra gli ultimi, Marie, la giovinetta cenciosa, magrolina e malaticcia del paesello.
Marie rappresenta l’umile emarginata di una società che addita gli sventurati, i più deboli, gli inermi, coloro sui quali è più facile riversare i sentimenti reconditi d’odio che sedimentano nel fondo dell’animo umano. Marie vestita di stracci, oggetto di scherno degli ubriachi del paese che ridono della sua miseria e si divertono a vederla bocconi a raccogliere umilmente quei pochi spiccioli che gli lanciano in terra. Creatura alla quale tutto è stato tolto, anche la sua identità e dignità di donna, invisibile e allo stesso tempo capro espiatorio di colpe mai avute.
Che pena faceva quella Marie di cui nemmeno la Chiesa sembrava provare la minima compassione, alla quale il pastore del paese dispensava qualche avanzo della sua mensa come fosse stata un cane randagio. Era proprio questo che era, una randagia in cerca di un padrone amorevole, di una carezza o di una spalla sulla quale appoggiarsi quando la fatica della malattia le schiacciava il petto o la stanchezza le attanagliava le membra.
In questa vita grama e buia che giorno dopo giorno si ripeteva sempre uguale e insopportabile per i più, un raggio di luce improvviso, la salvifica e compassionevole luce del principe Myškin; l’idiota, l’eterno fanciullo, il Cristo moderno. Lui con la sua schiera di “discepoli” fanciulli conquistati con gesti e parole semplici, educati alla compassione e all’empatia e sottratti alla adulta cieca crudeltà offrivano una speranza alla povera e desolata Marie.
Questo puro sentimento cristiano, rivoluzionario, che sfidava il mondo adulto e pregno di bieco pregiudizio del paese per schierarsi a favore dei diseredati dando cibo agli affamati, privandosi “francescanamente” dei pochi beni per donarli a chi ne ha più bisogno, predicando amore e non risentimento o pregiudizio o peggio ancora violenza,  era l’essenza  dell’insegnamento pedagogico del principe.
Di lì a poco tempo Marie morì, sottratta giovane alla vita dalla malattia, ma quell’amore profuso, quelle carezze e quel bacio la accompagnarono nei suoi ultimi scampoli di vita sofferta. Quella bontà quasi divina del principe e dei suoi discepoli le fecero dimenticare la miseria buia della sua vita dandole felicità e facendole abbandonare con un sorriso questo assurdo mondo terreno. Da loro ottenne il perdono e l’assoluzione per i suoi peccati e la sua anima si fece più leggera e pronta a volare via.
Gli “adulti” del paese con il dott. Schneider in testa non riuscirono mai a comprendere la lezione impartita dal principe dei bambini, forse per mancanza di predisposizione d’ animo o forse perché crescendo alcuni adulti perdono il loro lato fanciullesco e innocente e costruiscono muri, barriere, appongono chiavistelli alle porte, si armano e attendono sempre lo scontro per poter primeggiare e schiacciare qualcuno, preferibilmente qualcuno più debole di loro contro il quale la vittoria si prospetta facile.
“[Il dott. Schneider] mi disse d’esser pienamente convinto che io stesso ero un fanciullo in tutto e per tutto, cioè completamente un bambino, che dell’adulto avevo soltanto la statura e il viso, ma come sviluppo, come anima, carattere e forse anche intelligenza non ero adulto, e così sarei rimasto anche se fossi vissuto fino a sessant’anni.”

Tutto il sentimento spirituale e cristiano dell’autore traspare in queste pagine e in questo passaggio che pare collegarsi a doppio filo con le sacre scritture:

“lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite, perché a chi è come loro appartiene il regno di Dio. In verità vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso.” 

Forse ciò che viene riscontrato al principe, la sua malattia, il suo difetto, la sua “idiozia” è proprio quello che salva l’uomo e lo fa assurgere al “regno di Dio”, diversamente dal popolo del paesello, troppo “adulto” e troppo cresciuto (in maniera errata). Il principe è idiota, Cristo stesso è idiota e forse oggi avremmo bisogno di più sana “idiozia”.

(Tratto da F. Dostoevskij: L’idiota)

A. Hitchcock

La finestra sul cortile

Quella sera c’era un po’ di malinconia e di tristezza nell’aria, una sorta di delusione che ti attanaglia quando una persona che attendevi non si presenta all’appuntamento concordato. Ma noi non avevamo un appuntamento, non ci conoscevamo, eppure sentivo un forte legame fraterno che ci legava. Ogni sera tornando a casa stanco dal lavoro, trascinandomi dall’uscio fino alla stanza da letto che racchiudeva il mio piccolo microcosmo, ero solito gettare uno sguardo al di là della mia finestra, oltre il giardino, attraverso la fila di alberi, lì verso le finestre dei miei cari dirimpettai; i miei amici sconosciuti. Facevo questo gesto abitudinario come se fossi stato un padre di famiglia che al rientro a casa saluta i suoi cari e chiede loro con interesse e curiosità come sia andata la giornata, quella stessa apprensione affettuosa. Ma stasera non c’era nessuno. Le finestre erano chiuse, le luci erano spente, tutto taceva nell’ombra come se mai nessuno avesse abitato quella casa. Dov’erano finiti? in quali intrattenimenti piacevoli si abbandonavano? La loro compagnia distante mi mancava.
Ricordo quelle serate in cui tornando nella solitudine di casa, chiudendomi la porta alle spalle e lasciando il mondo caotico e rumoroso fuori di essa, potevo bearmi della compagnia allegra, silenziosa e non invadente dei miei buoni amici. Quelle finestre aperte e sempre illuminate da una calda luce, la televisione accesa che si scorgeva vicino alla parete al margine del balcone, il placido andirivieni  tra le stanze. Sulla sinistra, una finestrella stretta e allungata che doveva dare nella cucina; già mi immaginavo le cene che dovevano preparare, i profumi della cucina, l’allegria delle tavole imbandite, l’atmosfera conviviale e dopo quelle cene, adagiarsi sul divano pigramente per chiacchierare mentre la televisione proiettava immagini variopinte di sfondo. Me li immaginavo così, come amici fraterni che condividevano la stessa casa, un luogo dove regnava l’armonia, nel quale non esistevano malumori e tutti i problemi trovavano da soli la loro giusta soluzione. Quanto mi faceva star bene spiarli da lontano, rubare  piccoli spizzichi della loro felicità. Non mi sentivo un ladro per questo, più che altro un amico distante che intimamente e con discrezione condivideva con loro dei momenti di vita.
Il fatto che io non sapessi nulla di loro e delle loro vite rendeva tutto perfetto, perché potevo immaginare tutto proprio come lo avrei voluto io, ero il demiurgo delle mie fantasie, lo sceneggiatore della mia personale commedia.
L’uomo ha viscerale necessità di idealizzare le cose per conferirgli quella poesia di cui la realtà ne è priva.

Monet: Angolo del giardino a Montgeron

Le Domeniche estive

Le domeniche estive hanno un fascino del tutto particolare che le rende diverse da tutte le altre malinconiche, banali ed insopportabili domeniche che si susseguono di settimana in settimana durante tutto il resto dell’anno. Le domeniche d’estate parlano una lingua diversa fatta di suoni, silenzi, profumi e sensazioni del tutto peculiari, come peculiare è il modo di vivere le stesse.
Il caldo si insinua tra le fessure della tapparella già di primissimo mattino, fiacca il corpo che giace nel pieno torpore di un dormiveglia continuo, insopportabile ed estatico allo stesso tempo. Un lembo di tenda dondola appena scosso da un fiochissimo alito di vento caldo, sospira e giace immobile, le foglie verdi degli alberi ondeggiano, frusciano pigramente e rispondono al cinguettio placido degli uccelletti in un dialogo naturale nel quale l’uomo non è invitato a partecipare. L’umanità in città è pressoché assente, impegnata nell’assalto delle spiagge roventi, tra sabbia, salsedine e profumi esotici misti di creme solari e oli.
Regna il beato silenzio. Le finestre dei dirimpettai sono chiuse, inanimate, buie. In lontananza, chissà da quale punto giungono flebili voci, l’abbaiare di un cane, rumori di stoviglie riposte dopo il pranzo domenicale; tutto sembra galleggiare in in’atmosfera rarefatta di pace e quiete che sarà infranta verso sera, quando ognuno ritornerà a casa e la città tornerà ad essere un campo di battaglia invaso dal frastuono, dalla vita disordinata e caotica che pullula e cerca di trovare il suo frenetico sfogo.
Noi attendiamo qui beandoci del momento ma con il cuore assediato dall’ansia, come il condannato che attende l’ora dell’esecuzione, certo che questa prima o dopo avverrà portandosi via tutto con sé…almeno fino alla prossima settimana.