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Epistole all’amata

                                                                                                                                                                                 Ducato di Napoli
                                                                                                                                                                                 A.D. X.III.MMXX

Mia diletta oltre frontiera, ti scrivo questa lettera poiché terribili ombre incombono sui nostri cuori in queste dannate ore. La nostra Illustrissima Signoria ha proclamato il suo editto, il mortifero morbo che da Oriente, sulla via della seta, si è insinuato nei nostri regni sta mettendo a dura prova i villaggi del nord e sta insediando le campagne del sud. Alcuni sono sgomenti e combattono il terrore di queste ore battendosi il petto e affidando l’anima al Padre Celeste, altri, incauti e sciagurati, per lo più progenie novella, girano pei borghi inebriandosi di vino e perdendosi nella lussuria e nel vizio. I più saggi e avveduti hanno scelto di confinarsi nelle proprie magioni e lì di attendere il passare di queste funeste ore dedicandosi alla lettura di antichi volumi o meditando a fondo. In queste ore disperate e di solitudine solo tu mia diletta mi sovvieni nel pensiero e ricordo quando io e te si andava per gli antichi borghi inebriandoci dei nostri baci e del nostro amore giammai perduto o dimentico. Ora quei baci sono svaniti e resta lo sbiadito ricordo delle tue labbra rosse come bacche di agrifoglio. Un invisibile muro separa le nostre contee nelle quali tutti sembrano subire anche l’altro morbo, quello della pazzia. E’ notizia recente che nottetempo alcuni villici del luogo muniti di torce hanno assaltato le botteghe della zona per depredarle dei generi alimentari. La paura della carestia, oltre che della presente pestilenza, si fa strada nelle loro piccole menti avvizzite e così sottraggono pane, farina, frutti e bestiame da macellare nelle loro capanne. Sono omuncoli che non sono consci del periglio che corrono spostandosi in spregio dell’editto proclamato e li vedi vagare come in preda alla confusione, dimentichi di se stessi, chiedere se botteghe sono aperte, se possono vagare di podere in podere, se possono spostarsi di contea in contea o se possono recarsi presso i luoghi in cui si amministra giustizia e altri mestieri. Scimmie, selvaggi, perdiana! Colpa di queste genti se il morbo si diffonde senza sosta e impegna dottori e stregoni fino allo stremo delle loro forze. Ma noi, mia dilettissima, dobbiamo affrancarci da questa bassa e stolta umanità, dobbiamo coltivare il nostro spirito più che mai. Non potremo vederci chissà per quanto ancora ma potremo nutrire il nostro sentimento attraverso le epistole, confortarci, tenderci una mano e confidarci in queste lunghe giornate avvolte nella nebbia. Non più intime passeggiate pei boschi e per botteghe, ma i libri saranno i nostri generi di conforto; cammineremo attraverso la Sennaja dandoci il braccio, giaceremo al caldo del camino in una rustica magione di Hemso, godremo dello spettacolo dei tetti di Parigi che si estendono dinanzi a noi a perdita d’occhio o passeggeremo sotto il fresco fogliame di un selvatico bosco sotto i raggi caldi di un bel sole primaverile, inebriati dai profumi dei fiori e ascoltando la musica delle api sciamanti.
Ci coccoleremo nel caldo abbraccio delle sinfonie che innalzeranno il nostro spirito e ci conforteranno nei momenti più disperati. Vivremo dei frutti dolci della nostra fantasia stimolata dall’arte, giacchè in questi tempi funesti l’unica cosa che possiamo fare è cercare la bellezza in ogni sua forma per non cadere negli oscuri abissi della disperazione; la bellezza fortificherà il nostro fisico e il nostro spirito, sarà l’ambrosia di cui ci nutriremo nel tempo a venire. Dobbiamo farci tanto coraggio mia amata e attendere che questo periodo di incertezze e di timori cessi per riportarci ad una nuova rinascita. Pensa quando tutto questo sarà passato e sarà solo un lontano e cupo ricordo, che immensa gioia. Saremo come affamati dinanzi ad una tavola imbandita, pensiamo a quel momento e priviamoci oggi per mangiare con più voluttà domani.
Potremo riabbracciarci ancora, scambiarci le più dolci effusioni amorose senza timore di morbi; le genti usciranno di casa con il cuore sollevato e non gravido di tenebra, sorrideranno, si recheranno ai loro affari con più spirito e tenacia di prima. Le locande si riempiranno e scorrerà vino in quantità e gli avventori si ubriacheranno felici e canteranno stornelli e melodie. Ci sarà fratellanza tra le genti, nuove amicizie nasceranno e quelle vecchie si consolideranno; le famiglie si riuniranno sotto lo stesso tetto e trionferà ovunque l’amore. Ah mia amatissima, immagino già le grandi feste che si celebreranno quando tutto sarà finito e la paura sarà svanita. Quelli che avranno scampato la pestilenza saranno grati di essere vivi e si sentiranno fortunati e innalzeranno lodi al cielo e non danneranno la propria esistenza o quella dei lor’ congiunti.
Dobbiamo riempire il cuore di queste visioni dolci e tener viva dentro di noi la fiammella flebile della speranza e pazientare ancora. Siamo messi alla prova in una epoca oscura di decadimento morale. Ora è il tempo del sacrificio ma ritorneremo a brillare e a ricostruire sulle macerie di un passato oramai vecchio, consunto e superato. Saremo l’alba di una nuova epoca.
Ti bacio le mani con ardore mia amata.
Tuo servo fedelissimo.

Station

Il treno

“Treno in transito, allontanarsi dalla linea gialla”, il vento inizia ad soffiare e comincia a sentirsi il ruggito metallico delle carrozze che stanno per sopraggiungere. Ascolto quella voce inumana, fredda e robotica che scandisce quell’avviso e prudentemente arretro di qualche passo mentre il treno mi scorre velocemente davanti rallentando la sua corsa e offrendomi lo spettacolo delle sagome sfocate che fanno capolino dalle finestre opache per il sudiciume. Il clangore di una sirena e lo sbuffo delle porte che si aprono vomitando gente che come una colonia di ratti si espande velocemente in ogni direzione. Tra spintoni e pressioni riesco a ritagliarmi un varco e sono dentro; mi manca il respiro per l’afa e il lezzo che albergano in quella scatola di latta troppo stretta e infarcita. Mi guardo intorno, sento il ciarlare misto di mille voci che si accavallano, discorsi spezzettati che si mischiano con altri, un minestrone di argomenti di cui non riesco a seguire il filo logico. Ci rinuncio. Ficco la mano nella tasca destra del cappotto e ne traggo un libriccino, provo a leggere qualche riga, cerco di estraniarmi da quel mondo che mi opprime ma faccio una immane fatica a restare concentrato su quelle righe; il chiasso delle voci e lo stridore metallico delle ruote sui binari mi riportano continuamente alla realtà. Ad ogni stazione si recita sempre lo stesso copione: voce robotica, segnale acustico, sbuffo delle porte e gente vomitata e fagocitata. Poco a poco, mentre il treno prosegue la sua corsa lungo il serpentone metallico che passa da una galleria ad un’altra le persone al suo interno iniziano a diminuire, l’aria si fa più respirabile e fresca, ti scompiglia i capelli, ti colpisce in pieno viso e ti risveglia; il chiacchiericcio si fa più sommesso, gli agglomerati di persone iniziano ad apparire come piccole isolette di un arcipelago più che ad una distesa continentale. Ora riesco a rilassarmi, il mio corpo che prima era rigido ed in tensione ora comincia a sciogliersi; scorgo un posto lasciato vuoto, mi avvicino, mi seggo e riprendo in mano il mio libriccino fiducioso di riuscire finalmente ad immergermi nella lettura, abbozzo un mezzo sorriso di vittorioso compiacimento. Non faccio in tempo a posare lo sguardo sulla pagina che i miei occhi vengono distratti da altro. Dinanzi a me siede una ragazza, anch’essa con un libro poggiato sulle gambe strette e con una espressione sognante di beatitudine. Sembra non essere lì, sicuramente con lo spirito è altrove, vaga libera e leggera tra le pagine del suo libro giocando con le parole, rincorrendo costrutti e descrizioni fiabesche. E’ un raggio di luce che squarcia la tetra quotidianità, è bellezza nella sua accezione più pura e semplice ed è proprio la sua semplicità in un mondo così complicato che la rende così bella. Continuo ad osservarla mentre lei è tutta presa dalla lettura. Ha dei capelli color miele raccolti in una lunga treccia poggiata sulla spalla, un basco rosso che le pende sul lato sinistro, lo sguardo basso e curioso che sembra diffondere luce sotto le lunghe ciglia brune. Le sue labbra carnose e rosa si muovono di tanto in tanto come se bisbigliassero qualcosa di segreto che solo noi due possiamo intendere, sorridono a tratti per poi ritornare serie. Le sue mani sono poggiate delicatamente sulle pagine del libro, mani con dita affusolate dalle unghie rosee e lucide che sembrano accarezzare amorevolmente quello scrigno di parole. Sono completamente rapito da quella figura tanto da rimanere lì a fissarla, imbambolato e con il mio libro aperto ma orfano del suo lettore. Sembra essere sparita ogni persona in quel treno, sembra regnare il completo silenzio, non esiste più il tempo né lo spazio e fluttuiamo morbidamente come in una navicella spaziale. Non esiste che lei, il pallido astro venuto ad illuminare questa che era una sera come tante nella mia vita da triste pendolare.
Ad un tratto, come se avesse sentito il mio richiamo telepatico o come se avesse letto semplicemente i miei pensieri, distoglie lo sguardo dalle pagine bianche e lancia una occhiata nella mia direzione, proprio davanti a sé. Quella frazione di secondo sembra durare una eternità, mi sembra di vedere al rallentatore i suoi occhi che puntano verso di me e le sue ciglia che si distendono come le piume della coda di un pavone. Colgo la scintilla di luce nei suoi occhi verdi, per un breve attimo i suoi occhi si tuffano nei miei e gli sguardi si mescolano; accenna un sorriso di cortesia, quasi imbarazzato, come se tra i tanti avventori di quella carrozza avesse riconosciuto in me un’anima affine. La sua bellezza mi mette in soggezione e restituisco il sorriso senza emettere una sillaba; cosa potrei dirle, ogni frase sarebbe banale e rischierebbe di rompere quell’incantesimo. Il treno prosegue la sua veloce corsa, troppo veloce per me, perché non rallenta e mi lascia assaporare con delizia e beatitudine questi momenti? La mia musa ripone il libro in una piccola borsa di tessuto nero, con le mani si risistema la gonna sulle ginocchia e si alza in piedi. Capisco subito che sta per accadere, la prossima fermata è vicina e tra poco tutto sarà finito e ripiomberò nella grigia realtà di ogni sera. Vorrei alzarmi di scatto e prenderla per la mano, vorrei invitarla a restare ancora un po’ e poi ancora un altro po’, anche senza parlare, solo stare così come in questi minuti di viaggio trascorsi. Vorrei dirle tutto d’un fiato quello che ho pensato fino ad ora guardandola, le riverserei addosso un mare di chiacchiere, le chiederei un recapito o se prende spesso questo treno o se le andrebbe di bere un caffè un giorno di questi, tutto pur di non perdere una tale rarità.
Voce robotica, segnale acustico, sbuffo delle porte e lei che si incammina verso l’uscita. Per un secondo si volta verso la mia direzione e mi sorride ancora, come se avesse di nuovo letto tutti i miei pensieri, come se con quell’espressione mi dicesse “so cosa pensi, ho capito tutto”, come se mi dicesse addio. Sorrido amaramente per la seconda volta, poi le porte si chiudono, ritorno nel grigiore della mia carrozza, seguo la sua sagoma sfocata dal vetro lercio e opaco che si allontana per sparire dalla mia vista per sempre. Avrei potuto dire, avrei potuto fare, ma forse è stato giusto così. Come una cometa è apparsa nel firmamento della mia vita e come una cometa è andata via in un attimo lasciando una lieve scia luminosa che si dissolve nel cielo ed è subito di nuovo oscurità. Si può amare anche solo il tempo di un battito di ciglia.