Grandi marxisti. Karl Korsch (1886 – 1961)

Grandi marxisti.

KORSCH

Il 21 ottobre 1961 muore negli Stati Uniti, nel Massachusetts a Cambridge Karl Korsch, fu un filosofo, insegnante, teorico e militante del comunismo dei consigli. Era nato in Germania a Tostedt, 15 agosto 1886.
korsch-marxismus-undNel 1911 ottenne il titolo di dottore in diritto all’Università di Jena. Dal 1912 al 1914 fu in Inghilterra dove fu in contatto con la Fabian Society. La prima guerra mondiale lo riporta in Germania dove è incorporato nell’esercito tedesco dove trascorrerà tutti gli anni del conflitto in cui verrà ferito due volte e subirà a secondo le fluttuazioni politiche degradazioni e promozioni.

korsch marxismo e filosofia

Contrario alla guerra, si unisce al partito socialdemocratico indipendente (USPD), la cui ala sinistra creerà nel dicembre del 1918 il Partito comunista tedesco (KPD). Durante la rivoluzione tedesca, Korsch partecipa alla creazione del consiglio operaio di Meiningen.
Iniziò a insegnare all’Università di Jena come conferenziere a partire dal 1919, poi come insegnante a partire dal 1924. Karl Korsch divenne deputato alla dieta della Turingia e per un breve periodo ministro della giustizia di questo Stato nell’ottobre del 1923 perché il governo operaio qui durò solo tre settimane. Dal 1924 al 1928 fu deputato al Reichstag oltre che redattore e caporedattore dell’organo teorico del KPD “Die Internationale” fondato nel 1915 da Rosa Luxemburg. Nel maggio del 1926, aspramente criticato dall’Internazionale comunista e avendo rifiutato di fare l’autocritica, fu espulso dal partito.
Dopo aver dimissionato da “Die Internationale”, Korsch partecipò all’organizzazione dell’ala sinistra del KPD, che creerà una corrente chiamata “Entschiedene Linke”, e la rivista Kommunistische Politik. Dopo la sua espulsione dal KPD creerà, insieme ad altri deputati comunisti esclusi e dissidenti, un gruppo parlamentare denominatosi “Linke Kommunisten”, che raggrupperà 15 deputati al Reichstag. Unitosi all’opposizione consiliare tedesca, Korsch si pose in relazione con il gruppo russo “Centralismo Democratico” e entrò in contatto con il Partito comunista operaio tedesco (KAPD) e l’opposizione di estrema sinistra presente all’interno del SPD.
Ostile alla degenerazione opportunista dell’Internazionale comunista, Korsch, la cui conoscenza e comprensione della teoria marxista erano superiori a quelle dei teorici ufficiali del partito, entrò in conflitto con l’ideologia ufficiale del partito bolscevico. Nel 1923, pubblicò Marxismo e filosofia, che segnò la sua rottura definitiva con il leninismo, libro che gli varrà la denuncia da parte dell’Internazionale comunista nel 1924. Korsch pubblicò in questo stesso anno una “anticritica” nella quale riaffermò la pertinenza delle sue tesi antibolsceviche.
Dopo il 1928 abbandonò la vita politica attiva per dedicarsi alla ricerca teorica. Nel 1933 l’ascesa al potere di Hitler lo costrinse a lasciare la Germania per andare in Inghilterra, per poi emigrare nel 1936 negli Stati Uniti, dove insegnò a New Orleans, dedicandosi unicamente, a causa delle circostanze storiche e politiche, allo studio della teoria marxista. Nel 1936, sostenne i comunisti libertari durante la rivoluzione spagnola.
Le sue opere principali sono: Marxismo e filosofia” (1923); Il materialismo storico (1929); Karl Marx (1938).

Marxismo critico. Wertkritik. Anselm Jappe – Not in my name! (a proposito della domanda “Perché votare”?, da: “Critique de la valeur”, marzo 2012.

Not in my name!elezioni, piege a con

A proposito della domanda “Perché votare?”

Anselm Jappe

brecht.jpgIn una delle Storie del signor Keuner di Bertolt Brecht, intitolata “Misure contro la violenza”, Keuner racconta questo: “Un bel giorno, al tempo dell’illegalità, il signorEgge che aveva imparato a dire no, vide venire a casa sua un agente, che presentò un certificato creato da coloro che erano i padroni della città, e sul quale era scritto che ogni dimora nella quale egli metteva piede doveva appartenergli; allo stesso modo, ogni nutrimento che egli desiderava doveva appartenergli, ed ogni uomo che vedeva, doveva diventare suo servitore. L’Agente si sedette su una sedia, chiese da mangiare, si lavò, si mise a letto e chiese con il volto rivolto verso il muro: “Vuoi essere il mio servitore?”. Il signor Egge lo coprì con una coperta, scacciò le mosche, vegliò il suo sonno, e allo stesso modo di quel giorno, gli obbedì per sette anni. Però malgrado quanto facesse per lui, vi fu una cosa che egli si guardò ben dal fare: rivolgergli la parola. Quando i sette anni furono passati, e che l’Agente divenne obeso a furia di mangiare, di dormire e di dar ordini, l’Agente morì. Allora il signor Egge lo avvolse nella coperta tutta rovinata, lo trascinò fuori dalla casa, pulì il giaciglio, passò i muri a calce, respirò profondamente e rispose: “No!”.

elezioniNon ho mai votato in vita mia. Sono anche stato arrestato all’età di 17 anni per aver fatto propaganda anti-elettorale davanti ad un seggio elettorale. Non riesco a capire coloro che pretendono di essere “critici”, “rivoluzionari”, o “contro il sistema” e che vanno lo stesso a votare. I soli elettori che capisco, sono coloro che votano per il loro cugino o per qualcuno che procurerà loro un alloggio sociale.

È vero che, anche se si odia il denaro, non si può attualmente rinunciare al suo uso, e anche se si critica il lavoro, si è generalmente obbligati a cercarlo. Ma nessuno è obbligato a votare, né ad avere la televisione. A volte si è obbligati a tacere, ma non si è mai obbligati a dire: “Sì, padrone”.

landauer

Si può votare senza credervi, considerando soltanto la piccola differenza che potrebbe comunque esistere tra il candidato X e la candidata Y, tra il partito dei berretti bianchi ed il partito dei bianchi berretti? I candidati, i partiti e i programmi mi sembrano tutti uguali. Ma se le cose stanno così, mi si potrebbe obiettare, perché non partecipare alle elezioni con un programma diverso, non fosse che per attirare l’attenzione del pubblico, avere un rappresentante al consiglio comunale o al Parlamento, farsi rimborsare le spese per la propaganda? La cosa è andata male per tutti coloro che ci hanno provato, anche su scala locale. “Chi mangia dello Stato, ne crepa“, diceva Gustav Landauer, che ha pagato con la vita la sua partecipazione a un tentativo di cambiare realmente le cose, invece di andare a votare. La macchina politica stritola coloro che vi partecipano. Non è una questione di carattere personale. Bakunin diceva giustamente: “Prendete il rivoluzionario più radicale e ponetelo sul trono di tutte le Russie o conferitegli un potere dittatoriale- prima di un anno, sarà diventato peggio dello zar“.

elezioni, suffragettes

Ma esiste comunque una differenza, mi si obietterà, se non tra l’Olanda e Sarkozy, per lo meno tra Jean-Luc Mélenchon e Le Pen! Se non ci fossero che loro al secondo turno, e se tutto dipendesse dal tuo voto? Riusciresti comunque ad evitare il peggio, non foss’altro che per salvare qualche immigrato dalla deportazione! -Innanzitutto, è ridicolo evocare tali improbabilità, come lo si faceva nel 2002 per spingere il gregge verso i seggi elettorali. E il nemico, è sempre l’elettore: il problema non è Le Pen o Berlusconi, ma i milioni di Francesi o di Italiani che li amano perché li trovano simili ad essi.

elezioni, voting...E poi la domanda è malposta. Negli ultimi decenni, dei rappresentanti della sinistra, soprattutto della sinistra comunista o radicale, hanno partecipato a numerose esperienze di governo, nel mondo intero. Da nessuna parte essi hanno mostrato ripugnanza nell’applicare le politiche neo liberali, anche le più feroci; spesso sono essi che hanno preso l’iniziativa. Non conosco un solo caso di un membro della sinistra al potere che si sia dimesso dicendo che non poteva seguire una tale politica, che la sua coscienza glielo proibiva. Coloro che sono capaci di simili scrupoli non saranno nemmeno proposti alle elezioni comunali dai loro colleghi di partito.

election01Tuttavia, la corruzione esercitata dal potere, il gusto del privilegio, l’ambizione non costituiscono che il livello più superficiale della domanda. Il vero problema, è che viviamo in una società retta dal feticismo della merce, sia in “politica” sia in “economia”, non esiste nessuna autonomia delle persone, nessun margine di manovra. Se esiste un’autonomia, essa esiste fuori dalla politica e dall’economia, e contro quest’ultime. Si può in una certa misura, rifiutare di partecipare al sistema, ma non si può parteciparvi sperando di migliorarlo. Le “maschere”, come Marx chiamava gli attori della società capitalista, non sono gli autori dello scenario che essi sono chiamati a recitare. Essi non sono lì che per tradurre in realtà le “esigenze del mercato” e gli “imperativi tecnologici”. Perché allora meravigliarsi se coloro che vogliono “giocare il gioco”, una volta che arrivati a ciò che si chiama molto ingiustamente “il potere”, non fanno che essere “realisti”, concludono delle alleanze con i peggiori esseri spregevoli e si esaltano per ogni piccola vittoria ottenuta in cambio di dieci porcherie che hanno dovuto accettare allo stesso tempo? E vi ricordate di coloro che erano convinti che delle donne, o dei neri, o degli omosessuali dichiarati in politica  avrebbero fatto una politica “diversa”?

Vi erano effettivamente delle buone ragioni per preferire la democrazia borghese allo stalinismo o al fascismo. Ma Hitler non è stato fermato da nessun “voto utile”. È certo che non è attraverso la scheda elettorale che si eviterà il peggio, al contrario. “Elezioni, trappola per coglioni” [Elections, piège à cons], si urlava per le strade nel 1968. Alle urne, era sempre il Generale a vincere.

Anselm Jappe

[Traduzione di Massimo Cardellini]

Massimo Cardellini – Buon compleanno Karl Marx

Buon compleanno Karl Marx e buon secondo centenario!

Karl Marx Happy Birthday
Karl Marx Happy Birthday

Il 5 maggio 1818 in Germania a Treviri nasce Karl Heinrich Marx, una personalità multiforme, pensatore e uomo d’azione. Fu infatti, al contempo il filosofo che rovesciò l’idealismo di Hegel (La Sacra famiglia, 1845; L’Ideologia tedesca, 1846); il giornalista che con i suoi articoli carichi di erudizione e sarcasmo ha strappato la maschera delle falsità ideologiche dei servi del sistema di sfruttamento capitalista (Rheinische Zeitung; New York Daily Tribune; Neue Rheinische Zeitung; Deutsche Jahrbücher); il libellista che elabora progressivamente il programma del proletariato (Miseria della filosofia, 1847; Manifesto del partito comunista, 1848), traendo delle lezioni dalle sconfitte rivoluzionarie (La lotta di classe in Francia, 1850; La guerra civile in Francia, 1871); uno degli organizzatori dell’Internazionale (Indirizzo inaugurale e Statuti dell’AIT, 1864) e l’infaticabile critico dell’economia politica volta a scoprire e denunciare i segreti della merce (Libro I di Il Capitale, 1867).

Una caricature di Marx di David Levine
Una caricature di Marx di David Levine

Internazionalista apatride, espulso dalla Germania, poi dalla Francia e dal Belgio, si rifugia infine in Gran Bretagna. È così a Londra, capitale della modernità, che egli trascorrerà i suoi ultimi 30 anni cercando di decifrare l’enigma capitalista.
Marx non ha inventato né la lotta di classe né il comunismo sia sul piano della ricerca politico teorica sia sul quello pratico politico, ma ha ereditato queste nozioni dalle ricerche storiche precedenti sia di campo borghese sia socialistico, a cui però egli diede una sua peculiare impronta.
Marx fu a sua volta colpito e fortemente influenzato dalle lotte politiche delle classi lavoratrici dei suoi tempi, come i tessitori della Slesia o quelli di Lione (canuts) e più tardi di altri paesi europei, che gli mostrarono la strada pratica e politica concretamente.
Queste lotte sociali si accompagnarono quindi ad un instancabile sforzo di organizzazione e di solidarietà diverse: società segrete, riunioni in taverne o intorno ad un giornale; creazione di società di mutuo soccorso e cooperative, ecc.
È da questo processo storico e da queste lotte che si è lentamente formato il pensiero socialista a cui Marx finì con l’identificarsi e a cui diede una particolare impronta sia in estensione che in profondità.
Dopo la sua morte molte personalità dedite al lavoro politico e teorico e anche movimenti politici che operavano nel sociale e nel politico si rifecero anche e soprattutto ai suoi scritti quando cercarono di salvare questo nucleo libertario e cioè internazionalista e auto-organizzativo delle lotte dei lavoratori sfruttati, contro la fossilizzazione del suo pensiero in vista di una fattiva collaborazione interclassista da parte dei burocrati che sostenevano di applicare coerentemente i suoi principi teorici e politici.
Di quest’ultimi questa pagina ha nel corso degli anni segnalato l’esistenza e la loro biografia nonché le loro opere, e continuerà a farlo anche in futuro, nel tentativo di farli infine conoscere come si deve, essendo stati di fatto quasi del tutto cancellati dalla memoria collettiva dalle varie ortodossie che si sono dette operare in suo nome.
Il 14 marzo 1883 muore in Inghilterra a Londra.

Marx al cinema. (a cura di L. Pellizzari) – Karl Marx; Da: “Alfabetiere del cinema”, Falsopiano, Alessandria, 2006

KARL MARX

alfabetiere

“I filosofi hanno semplicemente interpretato il mondo; ora si tratta di cambiarlo”. (Epitaffio sulla tomba di Karl Marx al cimitero londinese di Highgate).

Risale al gennaio 1914 il primo contatto tra il cinema e Marx. Il quotidiano francese «l’Humanité» chiede che una serie di documentari divulghi Il Capitale. Dati i tempi, non se ne fa niente. Si deve aspettare il 1918 per vedere in Russia i nomi di Marx e Engels incisi su un monumento, che Lenin inaugura ripreso da un cinegiornale. Nel dopoguerra tedesco, le opere di Marx sono popolari tra i cineasti dell’espressionismo, ma non ne rimane traccia nei loro film. Presto la Germania cede all’Urss il monopolio in questo campo.
L’incunabolo storico è Proletari di tutto il mondo, unitevi! (1919), un cortometraggio di propaganda (anzi d’agitazione, come si diceva allora) di 600 metri. Il film si apre con un ricordo della rivoluzione francese e si chiude con un omaggio ai rivoluzionari russi morti nelle galere dello zar per le loro idee marxiste. Il clou è la parte centrale. Una didascalia spiega: «La rivoluzione francese fu sconfitta perché non c’era una parola d’ordine che unisse veramente i lavoratori. Solo mezzo secolo dopo, Karl Marx lanciò questa parola…». Ed ecco un attore truccato da Marx che scrive nel suo studio «Proletari di tutto il mondo, unitevi!». L’inquadratura è arricchita da una sovrimpressione con una simbolica stretta di mano. Un certo B. Dobrovolskij e un certo B. Sunkev, furono rispettivamente soggettista e regista, produttore il Comitato cinematografico di Mosca. Non si conosce invece il nome dell’attore, il primo interprete della figura di Marx sullo schermo.
Un fantasma si aggira per l'europa
Falce e martello del 1921 e Un fantasma s’aggirò per l’Europa, filmato in Crimea nel 1922 e uscito a Mosca all’inizio del 1923, sono i primi lungometraggi narrativi. Dovuti entrambi a Vladimir Gardin, già attivo nel cinema prerivoluzionario e piuttosto lontano dal trarre tutte le conseguenze dal nuovo impegno ideologico. Anzi nel secondo film si scopre che il titolo si rifà bensì alle prime parole del Manifesto del partito comunista, ma che poi il soggetto, assai balordo, adatta nel modo peggiore La maschera della morte rossa di Poe! Per fortuna l’influsso del pensiero marxiano si fa sentire negli artisti che rivoluzionano contenuti e linguaggio ponendosi all’avanguardia del cinema mondiale. Lo spirito classista che pervade i film di Vertov e di Ejzenstejn, di Pudovkin e di Dovcenko, l’elaborazione del montaggio a fini dialettici, l’alta tensione intellettuale e politica, l’audacia metaforica delle immagini mute, tutto ciò sgorga da quell’impulso lontano, finalmente espresso nella dinamica della settima arte giunta al suo diapason.La nuova Babilonia, 1929Nel 1929 La nuova Babilonia di Kozincev e Trauberg rende esplicita la dipendenza dai testi. In fase di sceneggiatura il film si chiamava All’assalto del cielo, secondo l’espressione di Marx riferita ai parigini della Comune. Poi si sceglie l’altro titolo, più adatto alla materia narrativa tratta dai romanzi di Zola e allo splendore figurativo ispirato alla pittura dell’epoca. Ma sulla pellicola è scritto che l’impianto storico è quello dei saggi di Marx sulla Comune di Parigi e sulle lotte di classe in Francia.
Nel 1930, in una conferenza alla Sorbona, “Sua Maestà” Ejzenstejn (così ribattezzato dopo La corazzata Potëmkin) annuncia per la prima e ultima volta in pubblico il suo progetto di film dal Capitale. Ci stava pensando da tre anni, accumulando appunti venuti alla luce soltanto nel 1976. In un foglietto incollato al quaderno e datato 12 ottobre 1927 si legge: «Deciso di filmare Il Capitale su sceneggiatura di Karl Marx». Il regista ha appena terminato Ottobre, il film per il decennale della rivoluzione che raccoglie più critiche che consensi. I burocrati del partito lo accusano di intellettualismo e non gli danno tregua quando vedono la prima versione del film successivo sulla politica nelle campagne, La linea generale. Lo obbligano a rimaneggiarlo con Il vecchio e il nuovo, che uscirà nel 1929. Questo è il tormentato triennio in cui il grande cineasta non cessa di meditare in segreto il più ardito dei suoi progetti. Non ne sa niente specialmente Stalin, che lo riceve in una delle sue periodiche udienze cinematografiche, lo striglia sugli ultimi due film e ne spiega gli errori col fatto che i cineasti sovietici conoscono poco e male Marx!
Ora Sergej Michajlovic non solo ha studiato Marx ma anche Freud e Joyce che in Urss sono tabù. Anzi proprio il linguaggio dell’Ulisse lo stimola per il suo Capitale. Se partendo da una scodella di minestra (come Proust da una madeleine) Joyce arriva all’intera flotta britannica, o dall’accensione di una lampada alle vertigini della metafisica, perché un cinema davvero marxista non potrebbe, facendo leva sul dettaglio di una calza di seta, inglobare un intero “tessuto” sociale? Dal concreto all’astratto, dall’oggetto comune alla generalizzazione concettuale, tale il gioco dialettico che il cinema consente e che un film dal Capitale esige.
L’impresa è difficile ma non impossibile. Più d’ogni altro Ejzenstejn ha le carte in regola per tentarla. La sua teoria del cinema “intellettuale” gli ha già suggerito sequenze illuminanti: i leoni di pietra del Potëmkin, che “ruggiscono” a sostegno della rivolta; la sfilata di statue di dèi in Ottobre, che si converte nel concetto di “divinità”; la scrematrice della Linea generale, che fa scattare insieme la meccanica contrapposta del rigetto e dell’entusiasmo, dell’arretratezza e del progresso. Trasmettere idee generali e punti di forza rivoluzionari sulla base di analisi minuziose e oggettive, che cos’altro faceva Marx nel Capitale? Convinzione ferma di Ejzenstejn è che il cinema non solo possa, ma debba trasferire in sé il processo del pensiero dialettico, recuperandone logica, emotività e passione. La scienza e la filosofia del Capitale sono lì pronte a essere incorporate, senza la mediazione del racconto tradizionale, in una serie sinfonica di associazioni e conflitti, di tesi e antitesi capaci di accendere, in equilibrio dinamico, una sintesi multiforme. Il Capitale non è un “libretto” per una melodia all’antica, lineare, schematica e gerarchica, ma sì per una musica concreta e moderna alla Schönberg, per una tessitura ramificata in elementi lontani e diversi e tuttavia in grado di confluire in una conclusione unitaria che è, come in Marx, la conquista della coscienza di classe. Il sogno del regista è però prematuro, passeranno almeno trent’anni prima che il cinema, con Godard, si decida nuovamente a rivoluzionare se stesso. Quando Ejzenstejn rientra in patria dagli Stati Uniti e dal Messico è il 1932, l’anno del decollo ufficiale del “realismo socialista”, che tra l’altro a Marx-Engels sostituisce il binomio Lenin-Stalin. Il progetto del Capitale è ormai definitivamente tramontato.
E d’altronde, chi in Urss sarebbe stato disposto ad appoggiarlo? Basta leggere un passo della storia del cinema muto sovietico del prof. Lebedev per rendersi conto della situazione: «II tema a cui Ejzenstejn mirava ad applicare praticamente la sua teoria era il Capitale di Marx: ma come intendesse realizzare questa grandiosa messa in scena rimase un segreto. Quello che Ejzenstejn scriveva sul cinema intellettuale non era molto comprensibile…».
Invece secondo il suo allievo americano Jay Leyda, il viaggio negli Stati Uniti doveva essere un’occasione privilegiata per dare concretezza al progetto. Ejzenstejn «sentiva di non poter onestamente iniziare quest’impresa senza aver visto il mondo capitalista al suo zenit». Senonché «la partenza avvenne tre mesi prima del crollo della Borsa» a Wall Street. «Se si vuol rappresentare la Borsa – si legge nel quaderno alla data 2 gennaio 1928 – non c’è bisogno della Borsa come nel Mabuse di Lang o nella Fine di San Pietroburgo di Pudovkin» (o, si potrebbe aggiungere oggi, nell’Eclisse di Antonioni). E tuttavia non tanto il crollo finanziario americano, quanto le difficoltà incontrate a Hollywood, dove tutte le sue proposte furono regolarmente respinte, contribuirono non poco a togliergli entusiasmo; senza contare ciò che gli doveva accadere dopo, con la “cattedrale incompiuta” di Que viva Mexico! che fu costretto a lasciare in frammenti, alla mercé del primo venuto. L’Ejzenstejn che rientra a Mosca è un altro uomo, profondamente sfiduciato per gli ostacoli che il mondo intero sembra frapporre alla sua creatività. Oggetto di contestazione generale al congresso dei cineasti del 1935 che gli chiede non un’autocritica, ma un atto di contrizione, non gli rimane che l’insegnamento universitario in cui sfogare la nostalgia di Marx come pensatore e come figura umana. Così nei suoi corsi ricorda sovente, dell’autore del Capitale, il disordine-ordinato (guai a chi si azzardava a mettergli a posto libri e fogli sparsi dovunque), le fiabe narrate alle figlie passeggiando per infinite miglia («raccontaci ancora un miglio!»), il gioco di parole del Diciotto Brumaio (dove le premier vol de l’aigle non significa solo “volo”, ma anche “furto”), ecc.
Nel 1930 a Parigi, mentre l’ospite sovietico parla alla Sorbona, l’ospite spagnolo Bunuel fa esplodere in un cineclub il capolavoro surrealista L’âge d’or. Lo voleva intitolare La palude ghiacciata del calcolo egoista, con un concetto del Manifesto. Intanto in America folleggiano altri anarchici, che a modo loro sparano bordate comiche sul capitalismo. Sono i fratelli Marx, e non sono marxisti. Ma lo stesso Karl Marx aveva assicurato di non esserlo. Nel Sessantotto francese spiccherà l’anonima scritta «Io sono marxista di tendenza Groucho», e alcuni studiosi dei fratelli Marx individueranno strane convergenze con il giovane Marx. E se Brecht, in tutta la sua drammaturgia, non fa che approfondire il proprio marxismo, nel 1983 lo svizzero Dürrenmatt, nella commedia satirica Achterloo, di Marx ne metterà in scena cinque, ciascuno in rappresentanza di un marxismo diverso.
Ma torniamo al percorso cronologico. Nel 1939 il documentario Forty millions people, della pregiata scuola britannica, esordisce con una lunga citazione da Marx: però non la rispetta, dato che la struttura economica della società non vi è per nulla contestata. Nello stesso anno, a Leningrado, gli autori della Nuova Babilonia, freschi del trionfo della loro trilogia sull’operaio Maksim che è uno dei vertici del “realismo socialista”, si accingono a una biografia di Marx. La sceneggiatura li tiene impegnati un anno intero, ma nella copia illustre si insinuano le prime divergenze che alla fine della guerra li porteranno alla separazione. L’impresa viene archiviata, Marx è troppo impervio anche per Grigorij Kozincev e Leonid Trauberg.
Invece i nazisti ci danno dentro senza alcuna remora. L’ebreo eterno del dottor Fritz Hippler – questo Himmler del cinema – è nel 1940, con licenza parlando, un “documentario” di un’ora, senza dubbio l’ora più nera che la propaganda filmica abbia mai partorito. La sua ideologia è esattamente quella che ha dato origine ai campi di sterminio; e alla testa di tutte le infamie imputate alla razza ebraica, chi può esserci se non Karl Marx?
Malaparte - Das kapital
Nel secondo dopoguerra spetta al teatro il compito di portare alla ribalta il personaggio Marx. Se lo assume, nei tre atti di Das Kapital scritti in francese e rappresentati per la prima volta al Théâtre de Paris il 29 gennaio 1949 (poi ripresi a Parigi e a Milano nel corso del 1951), Curzio Malaparte. Reduce dal successo di pubblico conseguito l’anno precedente con l’atto unico Du côté de chez Proust, lo scrittore italiano allarga le proprie ambizioni: lo spettacolo è accolto con severità dalla critica parigina, ma attrae la gente e risulta il più discusso della stagione. L’azione si svolge a Londra, in un sordido alloggio nel cuore di Soho, all’indomani del colpo di Stato di Luigi Bonaparte a Parigi (2 dicembre 1851). L’alloggio è quello della famiglia Marx, e tutto si concentra nel pomeriggio del giorno dopo e nella mattinata successiva. Nelle povere stanze ingombre di libri e di carte aleggia l’impegno immenso del Capitale. Marx non riesce a prendere sul serio il golpe, e tanto meno il proposito annunciatogli dal principe Orsini di voler attentare all’usurpatore. Il problema che incalza è la sopravvivenza quotidiana: la moglie è esausta e il bimbo gravemente malato. «La miseria costa cara a Londra», dice Jenny, che quasi non ricorda d’esser stata baronessa, in una delle battute di cui l’autore infiora il testo. Le collaborazioni giornalistiche con gli americani, così mal pagate, non permettono a Marx di risollevare le condizioni domestiche. Malaparte ha gran fiuto per il suo pubblico come ne avrà per i lettori dei suoi romanzi. Le frasi che strappano l’applauso sono: «Le rivoluzioni buttano tutto all’aria e spetta a noi, povere donne, rimettere ordine a casa», oppure: «Soltanto gli americani potrebbero fare una rivoluzione: sono i soli ad averne i mezzi». Il dramma sociale irrompe invece in una scena che punta alla commozione: la testimonianza di tre bambine che lavorano nelle miniere e che i padri, per paura di essere licenziati, non hanno potuto difendere dalle brutalità dei sorveglianti. Infine il problema di Dio affiora attraverso l’inquietante e misteriosa presenza di un certo Godson (impersonato da Alain Cuny), simbolico contraltare. all’ateismo di un uomo costretto a piangere la morte anche del suo secondo figlio. Pierre Dux è Marx e insieme regista dello spettacolo.

Год, как жизнь

Un’impostazione analoga a quella del dramma di Malaparte si ritrova nella prima biografia cinematografica realizzata in Unione Sovietica nel 1966. Affidato a Grigorij Rosal, accademico maestro del genere (si era occupato di Pavlov, Musorgskij, Rimskij Korsakov), il film parte come Karl Marx ma poi, data la scelta di un periodo storico ristretto (1848-1849), finisce per chiamarsi Un anno che vale una vita. È la stagione degli eventi rivoluzionari in Europa: Marx e Engels (presente di scorcio anche in Das Kapital) saltano da Bruxelles a Parigi, da Colonia a Vienna, ovunque gli operai si sollevano. Mentre nel testo di Malaparte il ruolo di Jenny è sostanzialmente quello d’una vittima se non d’una martire, nella sceneggiatura scritta con l’anziano regista da una donna, Galina Serebrjakova, la figura femminile acquista il risalto d’una combattente. Così accade quando Marx riceve a Bruxelles l’ordine di espulsione entro ventiquattrore, e Jenny si batte fieramente contro il provvedimento illegale, sfidando le autorità del regno anche nella prigione dove viene gettata, lei baronessa von Westphalen, in mezzo a ladre e a prostitute. Ma la trattazione, per quanto nobile e decorosa, non esce mai dalla convenzionalità illustrativa, e la vita di Marx (impersonato da Igor Kvasa, mentre Jenny è Rufina Nifontova) aspetta ancora il suo vero biografo cinematografico.
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Negli anni Sessanta si verificano altri incontri, sia pure marginali. In Cina la “rivoluzione culturale” punta sui balletti ideologici di massa, come L’Oriente è rosso (1965). Nel secondo quadro coreografico, ai colori oscuri che raffigurano il popolo sotto il giogo del capitalismo, segue un’alba dal cielo rosso, nel cui mezzo è appeso un medaglione col duplice ritratto di Lenin e di Marx. Nel film inglese di Karel Reisz Morgan matto da legare (1966) un brano da antologia è quello del figlio trotzkista e della madre stalinista che portano fiori alla tomba di Marx nel cimitero londinese di Highgate. Era un luogo amato dal padre comunista e il giovanotto, un intellettuale hippie alquanto sbalestrato, rilegge volentieri alla madre vedova (che rifiuta di farsi destalinizzare e si mantiene orgogliosamente lavorando in una tavola calda) il famoso epitaffio: «I filosofi hanno sempre cercato di spiegare il mondo: ora si tratta di cambiarlo». Totalmente “alienato” e proprio in senso marxiano, Morgan ondeggia tra la moglie ricca, la voglia di spaccar tutto e il richiamo della natura che lo rende devoto a Tarzan e a King Kong. Di fronte al faccione marmoreo del monumento, gonfia il petto facendo il gorilla. Non è irriverenza, bensì un omaggio del tutto sincero in quanto espresso con il linguaggio meno convenzionale che si possa immaginare. Euforico, il novello King Kong si prende la mamma sulle spalle, urlando a guisa di Tarzan: «viva la rivoluzione!». A differenza che nel testo televisivo di David Mercer (poi sceneggiatore di altri film importanti come Family life di Loach e Providence di Resnais), Reisz fa finire il film in manicomio, dove il ribelle, apparentemente pacificato, accudisce al giardino. Ma l’ultima inquadratura, ripresa dall’alto, rivela un’enorme aiuola fiorita, a forma di falce e martello.
Nel 1967 La Cinese apre il periodo più radicalmente “politico” del cinema di Jean-Luc Godard, dove Marx ricorre con crescente frequenza: il nome su fondo rosso, una caricatura d’epoca, letture secondo il metodo Althusser in polemica col partito comunista francese, ecc. Ma bisogna dire che in tutti questi anni di contestazione e di nouvelles vagues il fenomeno si estende, e la ricerca di eventuali fonti marxiane dovrebbe spaziare dal Brasile di Rocha al Giappone di Oshima, dalla Germania di Straub alla Grecia di Angelopoulos. Quali limiti estremi si possono citare due film, entrambi di registi jugoslavi e più precisamente serbi. Prime opere di Zelimir AEilnik, che nel ’69 inaugura il festival di Chicago dopo aver vinto l’Orso d’oro a Berlino, scrive nei titoli di testa: «dialoghi aggiunti di Marx e Engels». Di pugno suo l’autore ci tiene a osservare: «Marx sarebbe sorpreso se oggi andasse in Urss, vi troverebbe il più grande paese capitalista del mondo». Nel ’74 Sweet Movie è girato invece da Dusan Makavejev in esilio: se l’altro era un film giovanile (in effetti un’opera prima) dilettantesco, provocatorio e allarmante, questo “dolcefilm” di un maestro già riconosciuto è certamente amarissimo, irridente e disperato. Non si tratta più di chiamare a una rivoluzione vera, ma di constatare le rovine di una rivoluzione fallita. L’arca di Karl Marx accoglie i sopravvissuti del socialismo; il suo testone troneggia sulla prua di un battello carico di zucchero come di cadaveri. La metafora vale per il presente e anche per il futuro; mentre è soltanto evocando le rivoluzioni sia pure domate del passato – come quella contadina del 1640 nel film inglese Winstanley (1975) di Kevin Brownlow e Andrew Mollo – che il cinema può ancora robustamente appigliarsi a un passaggio del Capitale: «Così la popolazione agricola, strappata a forza dalla terra, cacciata dalle sue case, costretta al vagabondaggio e poi anche fustigata a sangue, segnata col marchio e perseguitata da leggi terribili e grottesche, fu piegata ad accettare la disciplina imposta dal sistema del salario».
Il 3 giugno 1977, poco dopo mezzogiorno, muore a Roma Roberto Rossellini lasciando il trattamento di un film su Marx per il quale aveva firmato il contratto pochi giorni prima a Cannes, dove presiedendo la giuria del festival ha fatto premiare Padre padrone dei fratelli Taviani. Due giorni dopo la morte il quotidiano «Paese Sera» pubblica col titolo Il mio Marx la premessa del regista a quel trattamento. Paolo e Vittorio Taviani potrebbero essere i continuatori ideali del progetto ma, per quanto commossi dell’offerta, non se la sentono di accettare l’eredità di un’opera che solo Rossellini avrebbe affrontato con le due molle indispensabili dello “stupore” e dell’audacia”. Sarebbe stata una biografia a colori di due ore e mezza, da girarsi a Parigi e dintorni, in Germania e in Gran Bretagna nel corso dell’estate e da presentare alla fine dell’anno. Titolo scelto Lavorare per l’umanità, poiché «questo era l’ideale di Karl Marx fin da ragazzo». Il film avrebbe raccontato la sua vita dal 1835 al 1848, dalla partenza da Treviri alla elaborazione del Manifesto. In seguito uno o più programmi televisivi si sarebbero occupati del metodo dialettico e del Il Capitale. Nella sua galleria “didattica” di protagonisti della storia e del pensiero, Rossellini ha già allineato Socrate e Agostino d’Ippona, Luigi XIV e la sua presa del potere, Cosimo de’ Medici e la sua età, Pascal e Cartesio. Approda inevitabilmente a Marx, «passaggio obbligato» che «sarebbe disonesto evitare». Ci pensava dagli Atti degli Apostolitelevisivi (1969) e l’idea si concretizza appena ha terminato Il Messia per il cinema (1975). Vuol chiedersi perché il marxismo ha diviso il mondo in due, e la risposta è duplice: perché del mondo ha dato una nuova visione, come quella di Galileo che pure suscitò scandalo ai tempi suoi; e perché in fondo Marx, che non è stato mai un dogmatico, non è conosciuto obiettivamente né dai suoi seguaci né dai suoi avversari; e l’ignoranza, diceva proprio lui, non ha mai giovato a nessuno. Al regista non interessa l’eventuale antitesi con Cristo bensì, al contrario, il parallelismo delle due idee, anzi delle due etiche, e lo sviluppo in senso laico dei valori cristiani. Rossellini sogna evidentemente un mondo meno lacerato, e per contribuire a ottenerlo si dichiara disposto a impegnarsi sul marxismo come si è impegnato sul cristianesimo. Anche perché, nella sua pedagogia, la vera molla segreta è l’educazione di se stesso. E sente che Marx può dargli moltissimo. Dopo Ejzenstejn, un altro grande del cinema voleva misurarsi con lui e non ci è riuscito. È una duplice perdita per la cultura di tutti.
Il contributo della televisione italiana rimane così limitato a una Serata Marx curata (con Pierina Adami) e presentata da Beniamino Placido per la regia di Paolo Gazzarra; andata in onda su Rai Uno il 1° marzo 1983. Introdotta da Cathy Berberian che intona l’Internazionale e chiusa da Milva su motivi brechtiani, la consueta sfilata di esperti discute i vari aspetti (storici, filosofici, economici e artistici) del pensiero e del metodo di Marx, il cui busto incombe nello studio. Un programma più ampio, in sei puntate di 40 minuti, allestito dalla BBC britannica, viene acquistato lo stesso anno da Canale 5, doppiato con l’aggiunta di un capitolo sul comunismo italiano (anzi emiliano), ma poi rimane inutilizzato negli archivi dell’emittente privata. Un presentatore sensatamente laburista ci guida attraverso stampe d’epoca e inserti documentari in un fluviale excursus nella biografia di Marx e nella sua fortuna sul socialismo (ma anche sul capitalismo) del secolo. Con un certo compiacimento si insiste sulle origini e tendenze borghesi del personaggio; e per esempio, in contrasto con Malaparte, si sostiene che i proventi delle sue collaborazioni americane erano dieci volte superiori alla paga di un operaio e gli consentivano di vivere senza ristrettezze. Una parte cospicua del filmato è riservata all’influsso sugli intellettuali britannici tra le due guerre, e non manca la citazione della sequenza al cimitero di Morgan matto da legare.
Quest’ultimo motivo resiste ancora in un film del 1988, Belle speranze di Mike Leigh. Come altri tenaci eredi del free cinema, il regista se la prende con l’establishment thatcheriano, ritraendone gli effetti in un quartiere piccolo-borghese di Londra e nel suo immiserimento materiale e morale. Scrive la Storia del cinema inglese di Emanuela Martini pubblicata nel novembre 1991: «Solo la tomba di Marx a Highgate ha un significato rassicurante e noto; Peccato che nessuno vada più a portargli fiori».

[A cura di Massimo Cardellini]

MARX al cinema. Il giovane Karl Marx – film (2017) – [Selezione di testi a cura di Massimo Cardellini].

Riteniamo sia piuttosto interessante riportare alcune recensioni o articoli che trattano sulla stampa italiana dell’uscita oggi 5 aprile 2018 del film sui giovani Marx ed Engels. Il lettore anche lievemente acculturato in generale e meglio ancora quello che posseggono dei rudimenti di storia e di filosofia e di critica ideologica non potranno che trarne giovamento e soprattutto diletto.
La lettura dei commenti sui cosiddetti social ne costituiscono un complemento di spasso ulteriore da cui, superato il primo inevitabile sbigottimento, non può che subentrare una forma di godimento per l’avversione alla figura di Marx e del suo pensiero, indice di una abissale ignoranza verso una tematica a dir poco fondamentale del pensiero e della storia mondiale.

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SCHEDA del film:

Il Giovane Karl Marx – Le jeune Karl Marx

FRANCIA, GERMANIA, BELGIO – 2017
CAST:
Regia: Raoul Peck
  • Attori: August Diehl – Karl Marx
    Stefan Konarske  – Friedrich Engels
    Vicky Krieps  – Jenny von Westphalen-Marx
    Hannah Steele  – Mary Burns
    Olivier Gourmet  – Pierre-Joseph Proudhon
    Alexander Scheer  – Wilhelm Weitling
    Michael Brandner  – Joseph Moll
    Niels Bruno Schmidt  – Karl Grün
  • Sceneggiatura: Pascal Bonitzer, Raoul Peck
  • Fotografia: Kolja Brandt
  • Musiche: Alexei Aigui
  • Montaggio: Frédérique Broos
  • Scenografia: Benoît Barouh
  • Costumi: Paule Mangenot
PRESENTATO AL 67. FESTIVAL DI BERLINO (2017) NELLA SEZIONE ‘BERLINALE SPECIAL GALA’.

Quando Marx baciò Engels

Luca Cangianti

da: Carmilla. Letteratura, immaginario e cultura d’opposizione

 7 novembre 2017

La spiaggia di Ostenda è costeggiata dalla Galleria Reale, un porticato di quattrocento metri che unisce l’ippodromo con il parco e la villa del re dei belgi. Poi ci sono i ristoranti, i caffè, i negozi turistici, i complessi condominiali dallo stile accettabile e quelli decisamente orribili. Lì, davanti al mare delle Fiandre, oltre 170 anni fa, un Karl Marx ancora ventenne, in equilibrio sui frangiflutti di pietra, discuteva ispirato con Friedrich Engels di una rivoluzione che sarebbe stata al tempo stesso esistenziale, filosofica e sociale. “Der junge Karl Marx” (Il giovane Karl Marx), il film del regista haitiano Raoul Peck abbonda di scene a forte impatto visivo e simbolico. In questo modo riesce a sintetizzare con notevole abilità concetti filosofici complessi e sentimenti di grande intensità.
La famosa XI Tesi su Feuerbach (“I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo, ma si tratta di trasformarlo”) è ad esempio enunciata dal filosofo tedesco dopo uno sbocco di vomito causato da una sbornia colossale; i manoscritti di critica ai giovani hegeliani sono riletti a lume di candela in un’atmosfera calda e sensuale da Karl, dall’amico Friedrich e dalla moglie Jenny von Westphalen. Di tenore erotico è lo stesso sviluppo del rapporto tra Marx ed Engels; prima caratterizzato da reciproca antipatia, poi da conflitto e corteggiamento intellettuale, infine da passione travolgente: una corsa a perdifiato tra vicoli e anfratti per sfuggire alle grinfie degli sbirri, i fili della vita e della filosofia che si riannodano in un pub fumoso, un abbraccio forte come l’amore che spazza via i tiranni e la tristezza, e perfino un bacio (sulla fronte, però). È qui che Peck raggiunge il suo massimo, perché alla base della rivoluzione c’è una forma d’amore, di desiderio di vivere e lottare insieme. La rivoluzione è la fuoriuscita degli individui dalla solitudine, è il loro divenire comunità cosciente di un destino. Il bacio tra Marx ed Engels è l’annuncio della primavera insurrezionale del 1848.“Der junge Karl Marx” è girato in tre lingue (tedesco, francese e inglese) e dallo scorso marzo è nei cinema tedeschi, francesi e belgi. Da ottobre è anche disponibile in dvd in edizione tedesca, ma ancora non è noto quando e se arriverà nelle sale italiane. In un primo momento può sembrare un biopic piuttosto mainstream, ma solo perché è una produzione di qualità, con un’ambientazione curata e attori che recitano bene. È sorprendente come in poco meno di due ore Peck riesca a disegnare con grande verosimiglianza la personalità di Marx: l’intransigenza teorica, la trasandatezza nell’abbigliamento, la predilezione suicida per i sigari puzzolenti, l’assoluto deficit pragmatico, le mani bucate come arrivavano un po’ di soldi, la passione per i crostacei, i sensi di colpa (e forse d’inferiorità) nei confronti della sua compagna, l’investire tutta la libido nei confronti di una palingenesi basata sullo smascheramento scientifico della falsa apparenza. Nasce così l’ossessione che perseguita il filosofo per tutta la vita: scrivere un libro che porti alla luce il mostro invisibile del capitalismo, ricostruendone il complesso metabolismo. Marx iniziò a lavorare al Capitale già negli anni ’40, scrivendolo e riscrivendolo in varie forme, pubblicandone ogni tanto una parte senza mai completarlo, perché in fondo il suo oggetto era infinito e mutante [1].
Ben caratterizzata è anche la figura di Engels, in conflitto con il padre industriale tessile, e dunque con la sua classe d’appartenenza. Risultato di questo attrito è una personalità simpaticamente contraddittoria e umanissima. Il giovane Friedrich è anticonformista, frequentatore di ambienti operai e irlandesi, ma anche profondamente borghese, amante del buon vino e degli agi vittoriani.
Gli altri personaggi storici che nella narrazione hanno un ruolo secondario non sono mai delle comparse anodine. Ognuno conserva infatti un tratto saliente: Proudhon sorride bonariamente, Weitling ha gli occhi da pazzo e fa discorsi incendiari, Ruge ha paura della propria ombra, Bakunin parla già d’anarchia e diffida del socialismo autoritario.
Tuttavia, a guardar bene, c’è ancora di più in questo film: allusioni subliminali al presente, microscopiche (e probabilmente volute) divergenze dalle fonti storiche che conferiscono alla narrazione un’autenticità che nessuna pignoleria sarebbe capace di restituire. Da questo punto di vista si possono citare: Jenny von Westphalen che dà del “tu” a Engels e alla sua compagna Mary Burns, Marx fluente in inglese già nel 1845, ma soprattutto il falso storico più colossale, eccitante e azzeccato: il filosofo di Treviri più bello e affascinante del suo amico biondo, grazie al fisico e all’interpretazione dell’attore tedesco August Diehl. Insomma, se il film è adatto a qualsiasi tipo di pubblico, i conoscitori della vita e del pensiero di Marx ne trarranno un piacere supplementare grazie alle brillanti soluzioni narrative utilizzate per mettere in evidenza dettagli storici e snodi teorici.
Il Karl Marx di Raoul Peck è l’esatto contrario del vecchio profeta barbuto, adorato e imbalsamato dal socialismo reale. È un ventenne pieno di passione, arroganza, fragilità caratteriale e fisica. Lo vediamo fare l’amore con Jenny, supplicare per un posto di lavoro, cambiare idea più volte, sentirsi in colpa verso la famiglia, frequentare centri sociali del tempo come il Red Lion di Londra, studiare voracemente, entusiasmarsi, deprimersi, ubriacarsi e combattere come un leone. Questo giovane Marx non è un cavaliere senza macchia e neanche un noioso topo di biblioteca, è un uomo profondamente ferito che si dedica a un’avventura disperata, nobile e ambiziosa. Nel film, che copre l’arco temporale che va dal 1842 al 1848, non si rivelano le cause della sua ferita e la battaglia finale contro l’antagonista è lasciata ai titoli di coda, quando le immagini delle rivoluzioni novecentesche, delle lotte anticoloniali, di Che Guevara e Nelson Mandela, sono accompagnate dalle note di Like a rolling stone: “When you ain’t got nothing, you got nothing to lose”, canta Bob Dylan. Similmente Marx scrive nelle parole conclusive del Manifesto del partito comunista: “I proletari non hanno da perdere che le loro catene. Hanno da guadagnarci tutto un mondo.”

[1]

  1. Cfr. Francis Wheen, Il Capitale. Una biografia, Newton Compton, 2007.

Il giovane Marx: un film

da: “Le Parole e le cose” Letteratura e realtà

Federica Gregoratto

Sono già passati circa dieci anni dall’inizio dell’ultima crisi finanziaria che ha messo in ginocchio l’economia mondiale, soprattutto occidentale. Una delle trasformazioni sociali, politiche e culturali più evidenti che sta segnando la fase attuale (e terminale?) [1] della società capitalista è la presa di coscienza dei limiti, intrascendibili, e dei fallimenti, irreversibili, del progetto social-democratico e liberale. Le procedure democratiche e il sistema dei diritti non sembrano più soluzioni adeguate, o quantomeno sufficienti, per domare la volontà di potenza e violenza delle classi dominanti, mediare le relazioni con il “diverso”, godere delle libertà rese disponibili dal capitalismo tenendone sotto controllo, allo stesso tempo, le derive (auto)-distruttrici.

A destra, si cercano nuove ricette appellandosi a rozzi demagoghi o a nuove ladies di ferro. L’obiettivo principale è quello di rimuovere tutto ciò che appare sopraggiunto solo di recente: nuove forme di vita e religione arrivate con gli ultimi copiosi flussi migratori, nuove preoccupazioni, per esempio sul futuro del pianeta, cui la scienza ci mette ora di fronte, o nuovi generi sessuali, fluidi, aperti, negoziabili. A sinistra, invece, gli abbozzi di soluzione più interessanti – gli esperimenti di cooperazione di Occupy Wall Street o dei recenti movimenti di lotta contro le nuove destre neoliberali, da Washington a Budapest, da Istanbul a Londra, le forme di solidarietà mediterranea nei confronti di profughi e profughe, le prove con il reddito di base e con la riduzione della giornata lavorativa – non possono fare a meno che appigliarsi teoricamente a certi concetti base formulati molto tempo fa nel solco delle tradizioni socialiste e comuniste. Marx è un, o meglio il riferimento obbligato.

Le jeune Karl Marx (o, in tedesco, Der Junge Karl Marx), diretto dal regista haitiano Raoul Peck e mostrato per la prima volta all’ultima Berlinale, narra la formazione del pensiero marxista negli anni cruciali dal 1842 al 1848 in un modo che, sullo sfondo del contesto appena tratteggiato, acquista una particolare rilevanza. Due scritti sono associati a queste due date, uno sconosciuto ai più, l’altro conosciuto da tutti. Il primo, che il regista sceglie di trasporre nelle immagini dell’ouverture del film, è l’articolo “Debatten über das Holzdiebstahlsgesetz”, pubblicato nella Reinische Zeitung: in queste pagine, il giovane Marx critica la legge, emanata solo pochi anni prima dal governo prussiano, che condanna la raccolta di legna nelle foreste “private”. Ben cinque sesti delle accuse penali in Prussia interessavano “furti” di questo genere, commessi dai poveri contadini alla disperata ricerca di materiale per riscaldarsi. Il secondo testo, ovviamente, è il Manifesto del Partito comunista, redatto da Marx e Engels con l’intento di mettere nero su bianco le basi del neonato movimento.

Le jeune Karl Marx è un film filosofico e letterario, perché mette in primo piano la produzione teorica dei due padri fondatori del comunismo. Altri sono i testi non semplicemente citati, ma la cui stesura diventa parte integrante del plot: per esempio Le tesi su Feuerbach (scritto nel 1845), che Marx e Engels avrebbero buttato giù per sancire la loro nuova amicizia al termine di una notte di eccessi alcolici; o Miseria della filosofia (1947), cui Jenny Marx avrebbe dato un titolo molto più ironico e sibillino. Proprio la scelta dello scritto iniziale e di quello finale, tuttavia, mostrano che la strategia di Peck non è semplicemente storica, ma piuttosto sistematica. Il primo riferimento pone l’accento sulla tematica della cosiddetta accumulazione primitiva, formulata ancora acerbamente negli anni ’40, facendone una chiave di lettura per l’intero pensiero marxiano. Peck sembra qui raccogliere la tesi di quei critici marxisti, come Rosa Luxembourg, o più recentemente Silvia Federici o David Harvey, secondo i quali la violenta espropriazione da parte del capitale delle risorse condivise collettivamente, come i rami caduti dagli alberi, non stia semplicemente all’origine del capitalismo, ma ne rappresenti la condizione fondamentale e costante di riproduzione. Per quanto riguarda la divulgazione delle idee portanti del comunismo, affidata alle pagine del Manifesto più famoso della storia, è evidente che il regista vuole stabilire una continuità tra il momento storico delle sue origini europee e le lotte più recenti che possono dirsi, in qualche modo, ispirate da questa tradizione.

 La prova più evidente di una tale continuità la si trova nei titoli di coda, in cui le note di Bob Dylan accompagnano una carrellata gioiosa di scene che ritraggono alcuni degli eventi o personaggi simbolo dell’emancipazione socio-politica nel ventesimo secolo: Che Guevara, il Muro di Berlino, Nelson Mandela, #Occupy. Ma non è tutto. Nel corso del film, altri temi vengono toccati il cui potenziale riflessivo non ha perso affatto di attualità. Due in particolare mi pare importante rilevare: la natura agonistica del movimento, o del partito, e il ruolo della teoria in relazione alla prassi rivoluzionaria.

Il primo punto è probabilmente, se letto in chiave di attualità, il più problematico. Le scene centrali del film sono dedicate alla sofferta mossa politica di Marx e Engels di trasformare la Lega dei Giusti in una decisamente più combattiva, la Lega dei Comunisti. Nel suo discorso durante il congresso di Londra nel giugno 1847, Engels espone gli argomenti in favore della nuova Lega criticando soprattutto il punto di vista astrattamente morale e l’ideologia orientata alla conciliazione universale, all’amore e alla fratellanza che avevano caratterizzato il movimento fino a quel momento. Alla luce di quello che oggi sappiamo sui cosiddetti “socialismi reali”, queste critiche possono apparire problematiche se interpretate semplicemente come rifiuto della morale tout court e giustificazione della violenza. Ma Peck sembra qui piuttosto presentare i propositi di Engels e Marx come il tentativo di fondare la prassi trasformatrice non su astratti punti di vista morali, sull’ideale cristiano della fratellanza o dell’agape, o sulla volontà di raggiungere un’intesa con l’umanità intera. I principi troppo generali e gli ideali non sono infatti in grado di afferrare le condizioni materiali esistenti; le emozioni positive generalizzate, d’altra parte, non possono che tradire un’inefficace ingenuità di fronte alle brutture, nefandezze e sofferenze dell’ordine sociale dato. La conoscenza, innanzitutto empirica, della complessità in cui ci si trova ad agire, l’attenzione strategica per le conseguenze possibili delle azioni, la capacità di sopportare dissenso e incomprensione, la comprensione delle differenze costitutive di un “soggetto” rivoluzionario in trasformazione: queste le caratteristiche necessarie, secondo Peck, per una prassi socio-politica che potremmo anche chiamare, con Dewey, un “comunismo dell’intelligenza” [2].

   Ma quale il ruolo degli intellettuali – e degli scienziati e dei filosofi – in tutto questo? La posizione di Le jeune Karl Marx rispetto a questa annosa questione è chiara. Nessuna lotta socio-politica può rinunciare all’impegno teorico. Uno dei pregi della pellicola, tra l’altro, è l’accurata ricostruzione delle tre fonti principali del pensiero marxiano: l’idealismo tedesco, la teoria economica inglese e il socialismo francese. Il lavoro teorico non è semplicemente un’emanazione, un prodotto o una funzione secondaria della lotta: una certa autonomia della teoria è necessaria affinché essa possa svolgere il suo compito di fornire indicazioni e immagini più o meno dettagliate che orientino l’azione. Allo stesso tempo, la teoria non può arrogarsi nessuna funziona di guida, non può credere di essere superiore all’azione concreta. In una delle scene chiave e centrali del film, Marx e Engels si devono recare umilmente di fronte ad un comitato di lavoratori e cercare di convincerli che sanno di che cosa stanno parlando. Tutto quello che riescono a farsi concedere, giustamente, è di essere messi alla prova: la validità di un impianto teorico può emergere solo grazie al confronto diretto con la realtà – quella realtà che la teoria stessa vuole trasformare. Anche qui si avverte un’eco del pensiero (socialista) deweyano: se vogliamo una teoria al servizio della prassi trasformatrice, essa non può che porsi come fallibile e pertanto rivedibile. Ecco perché, ci dice Raoul Peck poco prima dei titoli di coda nella schermata riassuntiva delle tappe bi(bli)ografiche successive del suo protagonista, Marx non poteva terminare la sua opera magna: l’evoluzione delle condizioni materiali, sociali, politiche e culturali sollecita allo stesso tempo un’evoluzione della teoria, e a Il Capitale si devono aggiungere sempre nuovi capitoli.

  Nel suo ultimo libro, Axel Honneth si ripromette di rivitalizzare il progetto socialista riprendendone l’idea chiave, quella di “libertà sociale”, ma anche criticando gli errori commessi dai primi socialisti [3]. Tre sono i retaggi, secondo Honneth, da cui il pensiero socialista dovrebbe prendere congedo per riguadagnare attualità, e dunque riuscire a incanalare la rabbia diffusa contro le condizioni di vita presenti: primo, l’idea che il progresso storico verso l’emancipazione, e dunque il superamento del capitalismo, sia un progresso necessario; secondo, la convinzione che l’esistenza di una classe particolare, il proletariato, sia di sé legata a certi interessi socialisti e comunisti; [4] terzo, la fissazione sull’economico e il disinteresse nei confronti di altre due sfere fondamentali per la condizione umana moderna, ovvero quella politica e quella delle relazioni intime, famigliari, di amore e amicizia. Il film di Peck sembra voler contraddire su tutti i punti l’analisi di Honneth.

  Fino ad ora ho cercato in effetti di mostrare come Le jeune Karl Marx rigetti con decisione una visione anacronistica di materialismo storico, facendo della dimensione politica un nodo cruciale della lotta sociale. Come notato in precedenza, il nodo centrale del film, ma anche della formazione di Marx (e Engels), è data dalla sconfitta della corrente moralista all’interno della Lega dei Giusti e la costituzione della Lega Comunista. Uno dei pregi maggiori del film, non emerso fino ad ora, risiede inoltre nell’ampio spazio dedicato alle relazioni intime tra i protagonisti, costitutive per l’attività teorica e politica: il sostegno di Jenny Marx, che va ben oltre il semplice ruolo di moglie devota, [5] la passione di Engels per Mary Burns, che lo spinge a studiare più da vicino le condizioni di lavoro e vita dei lavoratori inglesi, l’affetto, ammirazione e dipendenza reciproca, non scevra di conflitti, tra Marx e Engels, ma anche i complicati sentimenti di Marx per Proudhon, nel film descritto quale mentore che seduce e allo stesso tempo respinge, incoraggia e allo stesso tempo delude. In L’idea di socialismo, e in altre opere, Honneth pensa alla sfera delle relazioni intime come al luogo in cui la libertà sociale – quella forma di libertà di cui gli altri e le altre non sono un limite ma una condizione – si manifesta in modo più immediato e concreto, fornendo in un certo senso un modello da applicare anche altrove. In Le jeune Karl Marx, questa idea è presa sul serio. La vita privata e affettiva di Marx ed Engels non è mostrata come un semplice complemento al, o peggio, come ad un rifugio dalla pubblicità del conflitto intellettuale e politico, ma, al contrario, come al laboratorio in cui idee e strategie vedono la luce, si raffinano e in un certo senso vengono messe alla prova. Il privato non è ridotto immediatamente al politico, ma i due sono intrecciati: non solo le condizioni sociali ed economiche e l’impegno politico influenzano e limitano la sfera affettiva; allo stesso tempo, quest’ultima nutre, mantiene vive, incanala le energie e le forze, sia intellettuali che emotive, che si dispiegano nella lotta. L’accento sul ruolo costitutivo delle relazioni intime non significa però, daccapo, riabilitare un’ideale di amore/amicizia improntato all’armonia, o vincolato a certe istituzioni. In una delle ultime scene, la lavoratrice Mary spiega a Jenny von Westphalen che la libertà, anche quella individuale, è per lei la condizione per continuare a lottare. Per questo non può che rifiutare gli agi, anche economici, che una relazione ufficializzata e socialmente riconosciuta con Engels potrebbe concederle. Così facendo, non solo non si lascia ingabbiare dal ruolo di madre, ma neppure dal modello romantico tradizionale [6]. Così come Marx aveva dichiarato, in faccia al borghese che giustificava il lavoro minorile, “quello che voi chiamate profitto, io lo chiamo sfruttamento”, Mary potrebbe ora dire, prendendo a prestito le parole di Silvia Federici: “loro lo chiamano amore, noi lo chiamiamo lavoro non pagato.”[7]

Note

[1] Secondo Wolfgang Streeck si tratta per l’appunto di una fase terminale: cfr. il suo “How Will Capitalism End?”, New Left Review 87, May-June 2014, pp. 35-64.

[2] Cfr. J. Dewey, Filosofia sociale e politica. Lezioni in Cina (1919-1920), a cura di F. Gregoratto, trad. di C. Piroddi, Rosenberg & Sellier, Torino 2017.

[3] A. Honneth, L’idea di socialismo, trad. di M. Solinas, Feltrinelli, Milano 2016.

[4] La premessa di un legame intimo e necessario tra classe proletaria – che designa quel gruppo di persone che dipendono dal loro lavoro per vivere, e che dunque sono estremamente vulnerabili al potere di coloro che controllano le condizioni di lavoro – e interesse al superamento del sistema capitalistico viene messa efficacemente in discussione anche nel libro di Didier Eribon Ritorno a Reims, in uscita per Bompiani nel 2017.

[5] Il coinvolgimento in prima persona delle donne nella prassi politica in quegli anni era già qualcosa di rivoluzionario, anche tra i socialisti. Sul ruolo di Jenny Marx si veda il bel libro di Mary Gabriel, Love and Capital. Karl and Jenny Marx and the Birth of a Revolution, Back Bay Books, New York/London 2011.

[6] Nel film la posizione di Mary circa questa questione non è posta come necessariamente superiore ad altre alternative. Se la sua scelta di non diventare madre e l’accenno al modello poliamoroso sono esplicitamente presentati come forme di libertà, altrettanto libero è lo stile di vita di Jenny von Westphalen, il cui matrimonio con Marx le ha permesso di rompere con le convenzioni dell’aristocrazia tedesca.

[7] S. Federici, Il punto zero della rivoluzione, a cura di A. Curcio, Ombre Corte, 2014.

«Il giovane Karl Marx», l’uomo, l’azione politica e il lavoro teorico

Eugenio Renzi

“Il Manifesto”, 03.04.2018

Esce giovedì il film di Raoul Peck dedicato al filosofo tedesco, ambientato negli anni dell’incontro con EngelsEsce infine in Italia, giovedì prossimo, il film di Raoul Peck su Karl Marx. Questo piccolo evento non può non intrigare il proletariato italiano. Ma che cosa ha da attendersi da un film uno spettatore di sinistra che ancora non conosce il pensiero del padre della filosofia della prassi? La difficoltà di ogni biografo del genio di Treviri è data dal fatto che la maniera di presentare i vari aspetti della sua esistenza è inevitabilmente anche un modo di interpretare il rapporto tra la vita privata, l’azione politica e il lavoro teorico.
Ora, in un film in costume, dove l’intreccio ha tendenza a dominare la scena, il rischio è di dare la priorità al romanzo, e quindi di cadere, colore a parte, in un’operetta borghese. Rischio accentuato dalla biografia del fondatore del socialismo scientifico che, in particolare in gioventù, non manca di avventure di ogni genere.
Quando il film comincia, il redattore della «Gazzetta renana» è già sposato con Jenny von Westphalen, l’aristocratica che ha scelto la ribellione alla sua classe, sposando il figlio di un ebreo convertito. La loro storia non evolverà d’un millimetro. Il film racconta invece le circostanze dell’incontro con Engels a Parigi.
I due sono già convinti ammiratori l’uno dell’altro. Devono solo confessarselo. Per il resto, Peck, e il suo sceneggiatore Pascal Bonitzer (ex dei «Cahiers» «époque Mao» e regista a sua volta) hanno cercato di evitare lo schema classico dei biopic: l’ascesa, la disgrazia, la redenzione.
Certo, il futuro fondatore dell’Internazionale passa attraverso vari naufragi economici e politici. È sempre sull’orlo della fame, alla ricerca di qualche soldo per il pane, braccato dalla polizia, costretto all’esilio. Ma la costanza della situazione di povertà e di precarietà è un altro modo per togliere al lato dickensiano il ruolo di trazione del film e dare più spazio agli aspetti teorici. Ma come si filma la teoria? Peck non ha voluto fare un film pedante. Ha cercato di concentrare lo specifico del pensiero di Marx in un concetto unico che irriga tutto: l’idea del conflitto.

IL GIOVANE KARL MARX. Intervista a Raoul Peck

 IL GIOVANE KARL MARX, LA RIVINCITA DI UN GRANDE SCONFITTO

A 30 anni dalla caduta del muro, complice l’aggressività del capitalismo globale, non sembra più un tabù professarsi apertamente marxisti. Dal 5 aprile al cinema.

Mymovies

Roy Menarini, mercoledì 4 aprile 2018

Magari non è uno spettro quello che si aggira per l’Europa e per il mondo negli ultimi anni, e forse è più che altro simile a un morto vivente. Eppure il marxismo, magari con un “neo-” davanti, è una delle correnti di pensiero politico e filosofico più in auge in questo periodo. Filosofi del calibro di Slavoj Zizek o Alain Badiou, che possiamo tranquillamente considerare superstar dell’editoria e del dibattito internazionale, si professano apertamente marxisti, e oggi – a ormai trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino – non è più tabù professarsi tali, anche a causa dell’aggressività del capitalismo globale e l’evidente arretramento delle democrazie occidentali.

Questo clima culturale, dunque, non deve essere stato estraneo alla decisione di mettere in cantiere Il giovane Karl Marx, curioso caso di film storico in costume di produzione indipendente (e internazionale), dove il budget limitato non impedisce la passione biografica.

E del resto non è un caso che a trovarsi dietro la macchina da presa sia Raoul Peck, regista militante haitiano che dopo anni di clandestinità cinematografica e militanza documentaristica dirige ora un affresco storico. Nato ad Haiti, cresciuto a Berlino, vissuto in Congo, poi cosmopolita, e ancora ministro della cultura del suo paese, poi spesso negli Stati Uniti, Peck ha una biografia movimentata e coraggiosa, e una filmografia altrettanto imprevedibile. Giusto lo scorso anno, con I Am Not Your Negro, ci aveva riportato la voce e la scrittura di un gigante (da noi poco noto) della narrativa come James Baldwin, intervenendo con forza nel dibattito sul razzismo e la diseguaglianza tra bianchi e neri nella nuova America degli anni Duemila.

Meno consueto vederlo alla regia di un dramma come questo, che però sembra andare all’origine dell’attivismo politico grazie a Karl Marx, verso il quale – e qui torniamo all’aporia di partenza: una figura sconfitta dalla storia che oggi riceve attenzioni sorprendenti – nutre una simpatia indiscutibile. Qui si cela anche la mossa più astuta di Peck e degli sceneggiatori: il racconto di giovinezza. Rappresentando Karl Marx come un rivoluzionario puro, e immergendolo nei furori giovanili, ne viene stemperata la carica più attuale (che sarebbe forse diventata indigesta a una larga fetta di pubblico) per immergerla nel contesto delle ingiustizie ottocentesche dove si trova a operare. È da questo scenario che poi gli spettatori decideranno se – come Peck suggerisce – le motivazioni profonde e le sperequazioni di classe da cui l’attività di Marx e Engels prese forza si ripresentano ancora oggi, o se invece limitare l’efficacia del racconto alla sua storicizzazione.

In ogni caso, anche ad accontentarsi della ricostruzione d’epoca, Il giovane Karl Marx fornisce indicazioni utili ai dibattiti e alle sofferte decisioni del periodo, per esempio intorno alla galassia socialista e alle indecisioni di Proudhon o al ruolo più borghese e dialogante di Engels.

E se è vero che talvolta sembra di trovarsi di fronte a “period drama” da piccolo schermo, è anche innegabile che il budget ristretto ha spinto Peck a concentrare tutto l’apparato emotivo e politico sui volti e sui dialoghi, lavorando in set claustrali e privilegiando gli interni. Anche le rivoluzioni nascono in una stanza.

Ecco la bella vita del giovane Karl Marx prima di scrivere il manuale comunista

Il film di Peck sugli anni «scatenati» del filosofo insieme con Engels

Cinzia Romani

“Libero” – Mar, 03/04/2018

Mentre la sinistra italiana subisce una Caporetto epocale e rischia di sparire, ecco Il giovane Karl Marx (dal 5, distribuisce Wanted), film drammatico dell’haitiano Raoul Peck, ex-ministro della cultura nella Haiti post-regime e autore noto per il documentario I’m not your Negro (2016), biopic antirazzista sull’intellettuale afroamericano James Baldwin: premio Bafta e Oscar 2017 come miglior documentario.

Alle vicende storicizzanti, che richiamano l’attualità, Peck è allenato. Stavolta, intanto che in Europa libertà, uguaglianza e diritti dei cittadini non sono più bandiere dei partiti comunisti, è di Karl Marx che egli tratta. Del Marx ventenne, in particolare, ritratto come un ragazzo pieno di vita, che fa l’amore a Parigi, beve birra a Londra e si scapiglia come si deve insieme all’amico Friedrich Engels, lui pure sexy quanto basta per parlare al cuore delle platee non bacucche.

«Voglio mostrare alle giovani generazioni la forza del pensiero rivoluzionario: oggi ci manca il modo di pensare di Karl Marx», spiega il regista, che ha ingaggiato August Diehl, uno degli attori tedeschi contemporanei più famosi al mondo, per incarnare il filosofo di Treviri. E se siamo abituati a pensare a Marx come lo raffigura l’unica foto che gira di lui, con la lunga barba bianca da vecchio, dovremo ricrederci. L’economista che nell’Ottocento ha profetizzato quanto si avvera nel mondo globalizzato («i poveri sempre più poveri, i ricchi sempre più ricchi»), ha viaggiato come un hippy on the road, ha patito la fame, ha accettato ogni lavoro pur di sostentare la sua famiglia. E’ stato ragazzo nel periodo 1844-1848, quando, non ancora trentenne, doveva ancora affermarsi come punto di riferimento di sinistra dell’epoca.

Per quanto singolare sembri, finora nessuno aveva pensato a un film sugli anni prima che Marx scrivesse il Manifesto del Partito Comunista, pubblicato a Londra il 21 febbraio 1848, in tedesco e in forma di opuscolo. Una pubblicazione che, nei Settanta, campeggiava nelle biblioteche degli studenti «Revoluzzer» e degli studiosi impegnati, con la traduzione di Palmiro Togliatti (Edizioni Rinascita), poi caduta nel dimenticatoio, fino alla recente riproposizione nell’Economica Laterza.

Del giovane Marx, in Italia, soltanto Croce e Gentile, alla fine dell’Ottocento, avevano parlato via epistolario. E se Andy Warhol ha capito il lato pop di Marx, nato nel 1818 e morto a Londra il 14 marzo 1883, riproducendone serialmente l’icona barbuta, quale impatto avrà Il giovane Marx sui giovani ai quali è indirizzato? «Sarebbe bello poter guardare il mondo di oggi attraverso gli occhi di Marx», si è augurato il direttore della Berlinale Dieter Kosslick, quando, l’anno scorso tale cineromanzo di formazione di due ore, è passato al festival dividendo la critica. Troppo cerebrale per lo Hollywood Reporter, il film auspica una «Marx Renaissance», nel peggior momento delle sinistre europee. Non a caso finisce sulle note di Like a Rolling Stone, cantata da Bob Dylan.

[Selezione dei testi dalla rete a cura di Massimo Cardellini]