Marxismo libertario. Yvon Bourdet – Karl Marx e l’autogestione – da: “Autogestion et socialisme”, n°15, marzo 1971.

Karl Marx e l’autogestione

Yvon Bourdet

Prima parte di un articolo uscito su “Autogestion et socialisme” (n° 15, marzo 1971), e ripreso come paragrafo in Pour l’autogestion, (Anthropos, 1974).

La parola autogestione è di uso corrente che da una decina di anni e sembrerebbe anacronistica associarla al nome di Marx [1]. Tuttavia – per coloro che lo ignorassero non vadano ad immaginare che stiamo per dedicarci a non so quale esercizio di scolastica di accostamento artificiale del genere: “Cosa ne penserebbe oggi Platone della televisione?” – precisiamo subito che se Marx non impiega la parola autogestione si interessa (lo proveremo con numerosi testi) a ciò che la parola designa e che si chiamavano allora “le cooperative di produzione”.
Certo, il fatto che questo termine “autogestione” non sia comparso che recentemente non manca di significato. Esso testimonia, sicuramente da una parte, l’ignoranza del passato e possiamo capire che alcuni anarchici, fourrieristi o proudhoniani, ad esempio, si irritino per il fatto che molti “consiliaristi” o “autogestionari” credono di aver trovato qualcosa di nuovo con una nuova parola. Non resta tuttavia meno, in compenso che il bisogno di una nuova terminologia segna almeno l’esigenza di una delimitazione con le dottrine esistenti. Anche se, ora, la maggior parte degli anarchici si mostrano interessati all’azione di massa e dei mezzi economici di transizione per molti, a torto o a ragione, il termine anarchismo evoca soprattutto la volontà di distruggere i poteri esistenti piuttosto che l’esigenza di costruire, a livello nazionale o internazionale, un’organizzazione di nuovo tipo. Sul piano politico, la loro azione appare soprattutto negativa e i loro tentativi di realizzazioni positive sembrano limitarsi alla concentrazione libera di piccoli gruppi che cercano di realizzare in modo marginale, “un aumento immediato del godimento”. Non si tratta qui, tuttavia, sempre, della ricerca di una salvezza egoista; essi credono di essere il fermento o i “detonatori” della rivoluzione universale; ma la loro procedura, fosse anche “esemplare”, resta l’attività di alcuni pionieri.
Il termine autogestione, al contrario, sembra designare un’organizzazione più ampia, più tecnica e che, in tutti i casi, è legata più alla produzione che al godimento. Così, la rivendicazione dell’autogestione sembra più vicina al progetto dei marxisti benché tra di loro si scavi, agli occhi di quasi tutti, un abisso quasi infinito, perché di solito con “autogestione” si intende la concertazione delle autonomie, e con “marxismo” il sin troppo famoso centralismo democratico di Lenin che le sue anomalie, da più di cinquant’anni, non pongono in alcun modo in questione poiché tutti i vizi del sistema sono infaticabilmente spiegati con i pretesi difetti della personalità dei dirigenti. Anche coloro che accettano di dissociare il marxismo dallo stalinismo, dal leninismo o dal trotskysmo non insistono non di meno a ritenere che gli appelli che Marx fa ai “violenti parti della storia” e alla “dittatura del proletariato” sono incomprensibili con i metodi e gli scopi dei sostenitori dell’autogestione.
Per vederci chiaro, è dunque necessario liberare i testi di Marx dallo spesso strato accumulato non tanto dalle glosse dei teorici quanto dalle “ricadute” – per mezzo secolo – della prassi dei partiti comunisti che pretendono di incarnare la teoria di Marx. Quanto ci riproponiamo è dunque, come per altri, una rilettura, ma non per proiettare, tra le righe, ciò che Marx non ha scritto. È al contrario, per dare o ridare a vedere i testi dimenticati, trascurati, respinti o semplicemente mai letti.

I. I mezzi della rivoluzione secondo Marx

L’opera di Marx è una critica della società capitalista e la sua vita una lotta per affrettare l’ora dell’espropriazione degli espropriatori. Tuttavia, per molti il passaggio dalla teoria all’azione politica costituisce un problema. Nel capitolo XXII del libro primo di Il Capitale, si può leggere: “La produzione capitalista genera la sua propria negazione con la fatalità che presiede alle metamorfosi della natura” [2]. Con ciò, d’altronde non faceva che riprendere la conclusione della prima parte di Il manifesto del partito comunista che dava per “inevitabile l’eliminazione della borghesia e il trionfo del proletariato” [3]. Da quel momento il “Che fare?” sembra sprovvisto di senso come è stato spesso notato: “i marxisti che annunciano l’avvento ineluttabile del regime postcapitalista fanno pensare a un partito che lotterebbe per provocare un eclissi di luna” [4]. Allo stesso modo Lenin metteva in bocca ai populisti degli anni 1894-1895 questa riflessione: “Se i marxisti considerano il capitalismo in Russia come un fenomeno inevitabile (…), Si deve far loro aprire un negozio di alcolici…” [5]. Questa “obiezione” non era sfuggita a Marx che l’aveva egli stesso introdotta ad esempio di bufala [6] in una bozza di articolo su Il Capitale che Engels doveva incaricarsi di far pubblicare, sotto un nome fittizio, in un giornale diretto da Karl Mayer: “Quando egli (Marx) dimostra che l’attuale società (…) porta in sé i germi di una nuova forma sociale superiore, non fa che mostrare sul piano sociale lo stesso processo di trasformazione che Darwin ha stabilito nelle scienze della natura (…). L’autore ha, con lo stesso colpo, (…) forse malgrado lui (sottolineato da Marx) suonato la campana a morto di tutto il socialismo professionale…” [7]. La “confutazione” di questa “obiezione” si trovava già nella prefazione di Il Capitale quando Marx spiegava che una società che è giunta “a scoprire la pista della legge naturale che presiede al suo movimento (sottolineato da Marx) (…) non può né superare con un salto né abolire con dei decreti le fasi del suo sviluppo naturale, ma può abbreviare il periodo della gestazione e attenuare i dolori delle loro doglie” [8]. Troviamo qui il celebre tema della violenza concepita come la “levatrice di ogni vecchia società al lavoro” [9], o, come la vulgata della violenza levatrice della storia. Di fatto, precisa Marx, “la forza è un agente economico”. Equivale dunque ad appiattire “il marxismo” ridurlo sia a un’azione politica che ignorasse le fasi dello sviluppo naturale, sia all’economicismo beato del laisser-faire. Certo la forza non può “far girare alla rovescia la ruota della storia” [10], ma i comunisti non dichiarano meno “apertamente che non possono raggiungere i loro obiettivi che distruggendo con la violenza il vecchio ordine sociale” [11]. Ritroviamo così la famosa e controversa questione della “dittatura del proletariato”. Sappiamo che Kautsky, per criticare i bolscevichi, affermò che Marx non aveva mai, per così dire, preconizzato una tale dittatura, che si trattava qui di una battuta, scritta, “di sfuggita” in una lettera [12].
Di fatto, Marx ha parlato diverse volte del ruolo e della necessità di una tale dittatura [13], ma il semplice esame critico e contabilità dei testi non serve a gran cosa se non ci si intende sul senso, in Marx, della parola “dittatura”. In una nota del 20 ottobre 1920, Lenin caratterizza la dittatura come un potere che non riconosce “nessun altro potere, nessuna legge, nessuna norma, da qualunque parte essi provengano (…) il potere illimitato, extralegale, che si appoggia sulla forza, nel senso più stretto della parola, è questa la dittatura” [14]. Ed è una bella dittatura che deve esercitare il proletariato, che esso sia minoritario o maggioritario nella nazione. Max Adler, al contrario distingue accuratamente tra “dittatura maggioritaria” e “dittatura minoritaria” [15]: quando una minoranza opprime una maggioranza, si è in presenza del dispotismo che Marx ha sempre combattuto, in tutte le sue forme; se Marx preconizza la dittatura del proletariato è perché essa non può essere altra cosa che la forza della maggioranza: “Tutti i movimenti del passato sono stati opera delle minoranze o sono andati a vantaggio delle minoranze. Il movimento proletario è il movimento autonomo dell’immensa maggioranza nell’interesse dell’immensa maggioranza” [16]. Per Marx, la rivoluzione proletaria sarà l’ultima possibile; infatti, quando il proletariato, classe universale, avrà preso il potere, non vi saranno presto più nessuna classe e di conseguenza nessuna lotta tra di esse: “La vecchia società borghese, con le sue classi e i suoi conflitti, lascia il posto a un’associazione in cui la libera espressione di ognuno è la condizione della libera espressione di tutti” [17]. Facciamo notare di sfuggita che Marx dà così la definizione esatta di una società autogestita. In quanto alle vie e mezzi per il passaggio a questo dominio immensamente maggioritario del proletariato, essi saranno vari a secondo delle circostanze; la violenza, come abbiamo visto, sarà spesso necessaria ma non sempre; nel suo discorso dell’8 settembre 1872 agli operai di Amsterdam, Marx dichiarò che “l’America e l’Inghilterra (potevano) giungere al socialismo attraverso mezzi pacifici” [18]. Nella prefazione all’edizione inglese di Il capitale, nel 1886, Engels assicura che non fu questa una dichiarazione di circostanza, e che Marx aveva espresso il suo vero pensiero. D’altronde, Engels scrisse egli stesso, un po’ più tardi nel 1991, che “si può concepire che la vecchia società potrà evolvere pacificamente verso la nuova nei paesi in cui la rappresentazione popolare concentra in essa tutti i poteri” e anche più esplicitamente, che “la repubblica democratica (…) è la forma specifica della dittatura del proletariato” [19]). Precisando il suo pensiero, nella Introduzione, scritta nel 1895, a Le lotte di classe in Francia, Engels affermava che l’uso illegale della forza armata non era più un buon mezzo per il proletariato di impadronirsi del potere e che anche “la borghesia e il governo” erano un po’ giunti “ad aver più paura dell’azione legale che dell’azione illegale del partito operaio” [20].
Dicendo ciò, Engels aveva indubbiamente dato troppa importanza alla celebre dichiarazione di Odilon Barrot: “La legalità ci uccide!” e all’esperimento della Comune di Parigi che era terminata con una catastrofica carneficina del proletariato. Il suo punto di vista fu in seguito generalmente abbastanza contestato dai marxisti [21].
Sia quel che sia, resta dalla lettura di tutti questi testi che Marx e Engels non hanno sempre avuto la stessa teoria per quel che riguarda i mezzi di passaggio al socialismo e meglio ancora che essi avevano sostenuto esplicitamente che ci si doveva adattare alle circostanze.
Ciò non vuol dir affatto che basta secondo loro aspettare, come abbiamo già detto e come la polemica di Marx contro Bakunin l’ha dimostrato. Non si tratta qui di trattare a fondo la comparazione tra marxismo e anarchismo [22], ma soltanto nella prospettiva della presente messa a punto. Ciò che ci interessa, infatti, è di precisare come Marx concepisce la società, una volta spezzata l’oppressione capitalista, e con quali mezzi si può accelerare questa liberazione. Ora, le note scritte nel 1874 da Marx, in margine al libro di Bakunin Stato e Anarchia, sono, a questo riguardo, molto chiarificatrici [23]. A partire da queste note, si può restituire il seguente dialogo (senza cambiare una parola, naturalmente, al testo dell’uno e dell’altro):

Bakunin. – “I Tedeschi sono circa 40 milioni. Tutti i 40 milioni, ad esempio, saranno membri del governo?”.

Marx. – “Certainly! Perché la cosa inizia con il self-governement della comune”.

Bakunin. – “Allora, non vi sarà nessun governo, nessun Stato, ma, se vi è uno Stato, vi saranno dei governi e degli schiavi (…). Questo dilemma nella teoria marxista si risolve facilmente. Con governo del popolo essi (i marxisti – no! interrompe Marx, è Bakunin che lo pretende) intendono il governo del popolo con l’aiuto di un piccolo numero di dirigenti eletti dal popolo”.

Marx. – “Asino! Si tratta di sproloquio democratico, di chiacchiera politica! L‘elezione è una forma politica (…) che dipende (…) dai rapporti economici tra gli elettori; non appena le funzioni hanno cessato di essere politiche: 1. – non esiste più funzione governativa; 2 – la ripartizione delle funzioni generali è diventata una cosa di mestiere e non conferisce nessun potere; 3 – l’elezione non ha nulla del carattere politico attuale.”.

Bakunin. – “Il suffragio universale di tutto il popolo. …”.

Marx. – “Tutto il popolo nel senso attuale della parola è una pura chimera”.

Bakunin. – “La nozione di «rappresentanti del popolo» costituisce «una menzogna sotto la quale si nasconde il dispotismo della minoranza governate (sottolineato da Bakunin) tanto più pericolosa quanto più appare come l’espressione della sedicente volontà del popolo»”.

Marx. – “Sotto la proprietà collettiva, la sedicente volontà del popolo fa posto alla volontà reale del cooperativo”.

Come si vede, da questo dialogo, che trattandosi dei fini ultimi, Bakunin fa una cattiva polemica a Marx; quest’ultimo ammette molto bene che l’organizzazione sociale attraverso tecniche di autogestione (cooperative) rileva di un mestiere ma non conferisce alcun potere. Si deve tuttavia riconoscere a Bakunin una visione profetica, perché malgrado le negazioni di Marx, i marxisti-leninisti hanno, – attraverso il centralismo democratico – realizzato esattamente le funeste predizioni di Bakunin: “dispotismo di una minoranza tanto più pericolosa quanto più appare come l’espressione della sedicente volontà del popolo”.

D’altra parte, Marx resta indirettamente la causa della deformazione bolscevica attraverso la sua teoria della fase di transizione. Se, infatti, ciò a cui si deve mirare è l’autogoverno della società nel suo insieme e se con questo fatto, come scrive Marx nella stessa nota su Bakunin: “lo Stato popolare di Liebknecht (…) è un’inezia”, rimane il fatto che il proletariato secondo Marx, “durante il periodo della lotta per il rovesciamento della vecchia società, agisce ancora sulla base di questa vecchia società e, di conseguenza (…) durante questo periodo di lotta, impiega per la sua liberazione dei mezzi che spariranno dopo questa liberazione”. Sono questi mezzi – imposti dalla società di classe e che si pretendono provvisori – che Bakunin rifiuta prudentemente, perché con il pretesto di liberare il proletariato dal dominio borghese, si istituisce un nuovo dominio politico, in senso peggiore del precedente. Allora che fare? Secondo Marx, ecco la risposta di Bakunin: “Da qui, il signor Bakunin conclude che deve piuttosto non fare assolutamente nulla…, che deve aspettare il giorno della liquidazione universale (sottolineato da Marx), il giudizio universale”.

Come si vede, da questo dialogo, che trattandosi dei fini ultimi, Bakunin fa una cattiva polemica a Marx; quest’ultimo ammette molto bene che l’organizzazione sociale attraverso tecniche di autogestione (cooperative) rileva di un mestiere ma non conferisce alcun potere. Si deve tuttavia riconoscere a Bakunin una visione profetica, perché malgrado le negazioni di Marx, i marxisti-leninisti hanno, – attraverso il centralismo democratico – realizzato esattamente le funeste predizioni di Bakunin: “dispotismo di una minoranza tanto più pericolosa quanto più appare come l’espressione della sedicente volontà del popolo”.

D’altra parte, Marx resta indirettamente la causa della deformazione bolscevica attraverso la sua teoria della fase di transizione. Se, infatti, ciò a cui si deve mirare è l’autogoverno della società nel suo insieme e se con questo fatto, come scrive Marx nella stessa nota su Bakunin: “lo Stato popolare di Liebknecht (…) è un’inezia”, rimane il fatto che il proletariato secondo Marx, “durante il periodo della lotta per il rovesciamento della vecchia società, agisce ancora sulla base di questa vecchia società e, di conseguenza (…) durante questo periodo di lotta, impiega per la sua liberazione dei mezzi che spariranno dopo questa liberazione”. Sono questi mezzi – imposti dalla società di classe e che si pretendono provvisori – che Bakunin rifiuta prudentemente, perché con il pretesto di liberare il proletariato dal dominio borghese, si istituisce un nuovo dominio politico, in senso peggiore del precedente. Allora che fare? Secondo Marx, ecco la risposta di Bakunin: “Da qui, il signor Bakunin conclude che deve piuttosto non fare assolutamente nulla…, che deve aspettare il giorno della liquidazione universale (sottolineato da Marx), il giudizio universale”.

Va da sé che Bakunin, a sua volta, griderebbe allo scandalo davanti a questa deduzione di Marx [24].

Sono queste le leggi della polemica. Ciò che ci interessa soltanto qui, è la contraddizione evidenziata da Bakunin tra lo scopo ultimo di Marx (società omogenea senza classi) e i mezzi spuri che egli crede indispensabili utilizzare per distruggere la macchina oppressiva della borghesia. Le colombe non possono né convincere né vincere gli avvoltoi con la violenza degli avvoltoi. Colui che conserva le mani pulite non ha mani. Marx si pone così all’opposto dell’assioma evangelico: i mansueti erediteranno la terra che è stato ripreso dagli attuali sostenitori della non-violenza, coloro che non hanno che fiori (amore e pace) come armi o che, radunati intorno al Pentagono, speravano farlo espellere dalla terra con i loro pensieri associati nella fede che solleva le montagne. Sono questi, si dirà, dei sognatori gentili, ma resta il fatto che Marx non era nemmeno lui, soddisfatto dall’obbligo politico di lottare contro i borghesi con delle armi simili alle loro. È per questo, d’altronde, che egli non raccomandava esattamente una tale imitazione. Non voleva che il suo “partito” fosse un partito come gli altri, né la sua azione un insieme di piccole astuzie architettate nel segreto degli apparati “direttivi”. I lavoratori dovevano, secondo Marx, autogestire le loro lotte.
È un tema costante che riaffiora, ad intervalli, nei suoi scritti e nei suoi atti. Si giudichi attraverso questi brevi richiami: nel 1848, “il movimento proletario è il movimento autonomo dell’immensa maggioranza” [25]; nel 1864, “l’emancipazione della classe operaia deve essere opera degli stessi lavoratori” [26]; nel 1866 “l’opera dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori è di generalizzare e di unificare i movimenti spontanei della classe operaia, ma non di prescrivere loro o imporre loro un sistema dottrinario qualunque” [27]; nel 1868 “l’Associazione Internazionale dei Lavoratori (…) non è figlia né di una setta né di una teoria. Essa è il prodotto spontaneo della classe proletaria [28]; nel 1871, dopo la Comune, “sarebbe disconoscere del tutto la natura dell’Internazionale parlare di istruzioni segrete provenienti da Londra (…) di qualche centro pontificale di dominio e d’intrigo (…). Di fatto, l’Internazionale non è affatto il governo della classe operaia, è un legame, non è un potere” [29]. Il 17 settembre 1879: “Abbiamo formulato, durante la creazione dell’Internazionale, la massima della nostra lotta: l’emancipazione della classe operaia sarà opera della classe operaia stessa. Non possiamo, di conseguenza, far rotta comune con della gente che dichiarano apertamente che gli operai sono troppo incolti per liberarsi da sé, e che devono essere liberati dall’alto, e cioè da grandi e piccolo borghesi filantropi” [30].
Marx non ha mai voluto essere alla testa di un partito settario che non rappresentasse che una parte della classe operaia; sin dal 1848, precisava: “I comunisti non formano un partito distinto di fronte agli altri partiti operai. Non hanno interessi distinti da quelli del proletariato nel suo insieme” [31]. In una lettera a Freiligraph, Marx aggiunge: “con il termine partito, intendo partito nel grande senso storico”, e cioè la causa dell’insieme del proletariato. Non si tratta di pavoneggiarsi sui podi o durante i convegni, ma di comprendere, di far comprendere, e, con questo, sollecitare il movimento storico della società di classe verso il suo superamento. I pettegolezzi e i piccoli intrighi della vita politica dei partiti sono sempre risultati sgraditi da Marx; come scriveva a Engels, l’11 febbraio 1851, era irritato di essere portato ad avallare indirettamente delle prese di posizione, a sentirsi legato da delle dichiarazioni ‘di somari’ e a subirne il ridicolo. Due giorni più tardi, il 13 febbraio 1851, Engels risponde: “Abbiamo l’occasione di mostrare che non abbiamo bisogno né di popolarità né del ‘sostegno’ di qualunque partito (…). Come potrebbero delle persone come noi, che fuggono come la peste dalle situazioni ufficiali, essere di un partito? Cosa importa a noi di un partito, noi che sputiamo sulla popolarità?”. Non si vuole spesso vedere, in queste lettere, che il segno di un’irritazione passeggera. La prova si dice, che non si tratta che di accessi di cattivo umore, è che Marx ha aderito in seguito, nel 1864, all’Associazione Internazionale dei Lavoratori. Ecco appunto ciò che ne pensava Marx, in una lettera a Engels, del 26 dicembre 1865: “In quanto all’Associazione Internazionale, essa mi pesa come un incubo e sarei contento di potermene sbarazzare”. Marx non assiste al congresso di Bruxelles del 1868, pensando di essere più utile alla classe operaia continuando la sua opera teorica. Applicava così la consegna data da Engels, diciasette anni prima: “l’essenziale è di farci stampare” [32]. Non verrà in mente a nessuno che, così dicendo, Marx o Engels miravano a una gloria letteraria qualunque. Ma il movimento autonomo dell’emancipazione proletaria è, allo stesso tempo, una prtesa di coscienza e quest’ultima diventa presto un fattore complementare del movimento di emancipazione. Certo, “l’arma della critica non potrebbe sostituire la critica delle armi, la forza materiale deve essere rovesciata dalla forza materiale. Ma la teoria si trasforma, anch’essa, in forza materiale non appena afferra le masse” [33]. È dunque sui luoghi di lavoro stessi che gli operai devono capire concretamente le modalità di sfruttamento della loro forza lavoro da parte della classe dominante. Il ruolo del teorico è di rendere visibile quest’invisibile quotidiano così come Galilei ha spiegato il movimento apparente del sole, scardinando per sempre al contempo la mitologia religiosa precedente. Chi non capisce, da allora, che per Marx, militare non è giocare allo stratega negli stati maggiori del comitato federale o del comitato centrale, con la pretesa di comandare, dall’esterno, la manovra. Sono i lavoratori i soli capaci non soltanto di organizzare, autogestire le loro lotte, ma anche d’instaurare, all’interno stesso della vecchia società, le nuove strutture di una cooperazione egualitaria e fraterna che non ha nulla a che fare con capi e dirigenti. Nel suo Speech on the Anniversary of the People’s Paper, il 19 aprile 1856, Marx metteva in risalto che le rivoluzioni risultano dia da cause economiche e scoperte scientifiche e tecniche che dall’azione dei cosiddetti “agitatori”; diceva, infatti: “Vapore, elettricità e macchine tessili avevano un carattere altrettanto pericoloso quanto gli stessi cittadini Barbès, Raspail e Blanqui” [34].
Quindici anni più tardi, a Kugelmann che contestava, in una lettera del 15 aprile 1871, lopportunità dell’insurrezione della Comune perché la sconfitta priverebbe “di nuovo gli operai dei loro capi”, Marx rispose, il 17 dello stesso mese: “La smobilitazione della classe operaia sarebbe stata una sciagura ben più grande della perdita di un qualunque numero di ‘capi’”. (le virgolette sulla parola capo sono di Marx). Così non si può insistere ulteriormente sul fatto che Marx non lo faccia sulle capacità di auto-emancipazione della classe operaia che può, non soltanto autogestire la sua lotta, ma autogestire la produzione, il che è inoltre il mezzo più radicale di sopprimere l’alienazione e lo sfruttamento. Così, in questa dialettica, la realizzazione dello scopo finale non si separa dalla creazione di mezzi specifici per raggiungerlo. L’autogestione delle lotte è una condizione dell’autogestione della produzione e viceversa. Certo questa conquista dell’autonomia attiva non può essere che progressiva e spuria come Marx spiegava a Bakunin, ma il compito del rivoluzionario è di chiarire quest’impresa, di “aderire” e di “aderirvi”. Non appena l’organizzazione ha pretesa liberatrice diventa una specie di istituzione esterna, che funziona in quanto strumento di lotta per gli operai invece di essere una bozza di nuova organizzazione della produzione stessa, Marx se ne disinteressa e soffre di farne parte. Non vi è nemmeno da distinguere tra autogestione delle lotte e autogestione della produzione perché queste due forme di emancipazione si condizionano reciprocamente.
Ma si obietterà, forse, che queste non sono che deduzioni a partire dal “montaggio abile” di alcuni testi. Si deve dunque vedere, più precisamente ciò che Marx dice egli stesso dal fondo del dibattito poiché egli lo ha affrontato in un gran numero di testi che le interpretazioni dei diversi apparati dei partiti politici marxisti hanno lasciato nell’ombra.

NOTE

[1] Eppure, Pero Damjanovic ha già pubblicato sulla rivista Praxis (1962, 1, pp. 39-54) un articolo intitolato: “Le concezioni di Marx sull’autogestione sociale”. L’autore sostiene che “L’autogestione è immanente alla classe operaia me al suo movimento di liberazione”. Si riferisce a Marx che gli sembra – dai suoi scritti di giovinezza in cui denuncia l’individuo astratto livellato dallo Stato – aver sempre pensato che soltanto le associazioni autonome dei produttori potranno realizzare la vera libertà. Sfortunatamente, nel suo articolo, Pero Damjanovic rimane allusivo e non dà dei riferimenti precisi dei testi sui quali dice di appoggiarsi. Ci sembra anche che egli abbia lasciato da parte degli aspetti importanti.

[2] Editions Sociales, Libero I, tomo III, p. 205. Vedere anche 1.1, p.19.

[3] Bibliothèque de la Pléiade, Économie, I, p. 173.

[4] Boukharine, L’Économie mondiale et l’impérialisme, p. 131. Va da sé che Bucharin presenta questo “argomento” come un sofisma.

[5] L’impérialisme, stade suprême du capitalisme, œuvres complètes, t. XXII, p. 291.

[6] “Per quel che riguarda questa chiacchiera” sveva, sarebbe un colpo divertente ingannare l’amico di Vogt, questo Mayer svevo” (Lettera di Marx a Engels del 7 dicembre 1867).

[7] Ibid.

[8] Pléiade, t. I, p. 550.

[9] Ibid., (cap. XXXI) p. 1213.

[10] Manifeste communiste. Pléiade, p. 171. (…) 204-205. Per questo fatto le forze, dette reazionarie, non possono svolgere chje un ruolo di freno.

[11] Ultimo paragrafo di Il Manifesto comunista. Vedere anche la lettera di Engels a Marx del 23 ottobre 1846.

(12) Karl Kautsky, Die Diktatur des des Proletariats, Vienna, 1918, p. 20. La “lettera” di cui parla Kautsky designa 

« lettre » dont parle Kautsky désigne les « Gloses marginales au programme du Parti ouvrier allemand », dit Programme de Gotha, envoyées à W. Bracke le 5 mai 1875.

(13) H. Draper a rassemblé onze textes – et même quatorze si on compte à part les variantes – qui se rapportent à cette question (« Marx and the Dictatorship of the Proletariat », in Cahiers de l’ISEA, série S (6) sept. 1962, pp. 5-73).

(14) Contribution à l’histoire de la question de la dictature, œuvres complètes, Moscou, 1961, t. 31, p. 363.

(15) Max Adler, Démocratie politique et démocratie sociale, Paris, Ed. Anthropos, 1970, p. 140.

(16) Manifeste communiste, Pléiade, p. 172

(18) Lénine fait allusion à ce texte dans sa polémique contre Kautsky et il essaye de l’expliquer par l’absence « du militarisme et de la bureaucratie », dans les années 70, en Angleterre et en Amérique (…)

(20) Ed. sociales, p. 17.

(21) Voir Rosa Luxemburg dans Le programme de la ligue Spartacus ; Kautsky, dans Le chemin du pouvoiréd. Anthropos, 1969, p. 162 ; Otto Bauer divers textes, in : Otto Bauer et la Révolution Paris.

(22) Pour un aperçu d’ensemble voir notre livre : Communisme et marxisme, chapitre 3.

(23) Konspekt von Bakunin Buch, « Staatlichkeit und Anarchie», in Marx . Engels Werke, Dietz, Berlin, t. 18, p.634 et sq., partiellement traduit par Rubel dans Pages de Karl Marx… Paris, Payot, 1970, t. 2.

[24] Zola mette in bocca a Souvarine una delle possibili “risposte” degli anarchici, “Il vostro Karl Marx vuole ancora lasciar agire le forze le forze naturali. Niente politica, niente cospirazione, non è così? [Tutto alla luce del giorno, e unicamente attraverso l’aumento dei salari… Lasciatemi in pace con la vostra evoluzione! Incendiate i quattro angoli delle città…”, Emile Zola, Germinal.

(25) – (29) note mancanti.

[30] Lettera circolare indirizzata da Marx e Engels ai dirigenti della socialdemocrazia tedesca (citata da Rubel, in Cahiers de l’ISEA., nov. 1970, p. 2013.)

[31] Le Manifeste communiste, La Pléiade, p. 174

[32] Lettera del 13 febbraio 1851, Costes, Parigi, t. 2, p. 48.

[33] Introduzione a Per la critica della filosofia hegeliana del diritto.

[34] Traduzione di Rubel in “La Nef”, n.43, giugno 1948, p. 67.

Marxismo libertario. L’agonia postuma di Karl Marx – Maximilien Rubel intervistato da Olivier Corpet e Thierry Paquot, Le Monde dimanche, 10 aprile 1983.

L’agonia postuma di Karl Marx

In quest’anno (1983), del centenario della morte di Marx, le commemorazioni, colloqui, pubblicazioni, fioriscono, sia a Parigi che sulla piazza Rossa. Ma cosa si sta per celebrare esattamente: l’opera di Marx o ciò che ne hanno fatto dei marxismi differenti? Qual è, di fronte a questo nuovo funerale, la reazione di un marxologo, familiare dell’opera in questione, ma che si riconosce anche nel progetto etico e rivoluzionario di Marx di una autoemancipazione delle classi oppresse?

Quando avremo fatto il bilancio delle manifestazioni e delle mascherate di ogni genere alle quali questa celebrazione avrà dato luogo, in quest’anno memorabile, potremo constatare che il messaggio rivoluzionario dell’autore di Il Capitalesarà stato soffocato in tre diversi modi: Primo, attraverso la glorificazione eccessiva del preteso fondatore del marxismo, fandazione alla quale i fedeli del culto marxista associano, come regola generale, l’alter ego di Marx: Friedrich Engels. Secundo, attraverso la messa a morte postuma del pensatore le cui dottrine, lungi dall’essere scientifiche, sarebbero state comprovate o smentite dalla storia economica, politica e sociale degli ultimi cento anni e sarebbero erronee da capo a piedi. Tertio, attraverso l’apprezzamento detto oggettivo che sa separare il grano dall’oglio degno, il primo, di essere immagazzinato per l’arricchimento delle scienze umane.

Di queste tre maniere di evacuare la sostanza emancipatrice dell’opera marxiana, la terza mi sembra la meno riprovevole. Essa può rendere giustizia allo spirito scientifico che impregna la teoria sociale di Marx, senza deformare sistematicamente la sua opera. Il marxologo che mi sforzo di essere assume un compito difficile: far rispettare l’ultimo desiderio di Marx che protestava contro l’usurpazione del suo nome a fini ideologici e politici, ma che si solleva anche contro l’identificazione quasi religiosa della coscienza supposta degli schiavi moderni con una teoria abusivamente battezzata “marxismo”.

Un difensore “borghese” dei diritti dell’uomo.

Questa doppia usurpazione ha finito con l’assumere la forma di un vero culto onomastico. E’ la ragione dell’insistenza che pongo nel ricordare l’ultimo avvertimento di Marx: “Ciò che vi è di certo, è che io non sono marxista”. Non si tratta di una battuta, ma di un divieto assoluto, conforme a un insegnamento scientifico e a una convinzione etica che hanno la loro fonte nel movimento emancipatore autonomo del proletariato moderno, e non nell’opera di quell’individuo cosmo-storico come gli ammiratori di Hegel, quell’anti-Marx, chiamavano  Marx quando egli era ancora vivo.

Da qualche anno, vediamo numerosi intellettuali dedicarsi a una critica severa di Marx e del marxismo. Alcuni hanno creduto vedere in Marx un “borghese tedesco”, prigioniero dello “spirito” del suo tempo; per altri, Marx non avrebbe pensato il politico. Da cui il gulag. L’opera di Marx vi sembra totalmente innocente da tutte queste derive, deviazioni, peggio, da questi crimini di cui la si rende responsabile?

– La vostra domanda riguarda soprattutto i due ultimi modi di soffocare l’appello rivoluzionario e emancipatore di Marx. Il primo consiste nell’opporre alla sua teoria la smentita dell’esperienza storica. Da questo punto di vista, quest’ cento anni sarebbero stati segnati da un progresso immenso, inimmaginabile per i più grandi pensatori del diciannovesimo secolo, compreso Marx. Malgrado terribili catastrofi e regressioni di ogni ordine, il bilancio sarebbe “globalmente positivo”, La storia del ventesimo secolo avrebbe dunque sventato tutte le speculazioni di Marx sulla sparizione del capitalismo e la sua sostituzione con il socialismo nei paesi industrialmente sviluppati; in compenso, dei paesi industrialmente e politicamente arretrati sarebbero riusciti ad avviarsi sulla via del comunismo. In breve: naufragio della teoria dell’uomo di scienza, inefficacia totale della politica dell’uomo di partito!

In quanto agli affossatori accademici, va fatta una distinzione netta. Non è questione, infatti, di rifiutare di ascoltare coloro la cui critica utile, necessaria, prende in conto lo stato di incompiutezza dell’opera scientifica di Marx per separare gli elementi teorici, la cui validità permanente deve essere riconosciuta, dagli errori storicamente e psicologicamente spiegabili. Al contrario! Ma cosa dire quando quelli che, ieri, non giuravano che sul padre fondatore lo rendono oggi responsabile degli errori di una posterità intellettuale e politica la cui perversità rileva della patologia più elementare?

Questi apostati del marxismo sospettano il padre ripudiato di aver di proposito omesso o sottovalutato il “politico” e di non aver risposto alla domanda essenziale del perché della messa in tutela della società civile da parte del potere dello Stato. Altri lo accusano di “accecamento di fronte ai diritti dell’uomo”. Ora, i fatti parlano da sé: Marx ha passato i quattro decenni della sua carriera di comunista militante a vituperare, come difensore “borghese” dei diritti dell’uomo, le tre maggiori forme del “totalitarismo” del suo tempo: il bonapartismo, lo zarismo e l’assolutismo prussiano.

È questo nemico accanito del Leviatano moderno che tutta questa letteratura accademica antimarxista assocerà al “gulag”! Aggiungiamo che è per scelta che egli si è collocato nel campo della democrazia “borghese”: vittima sin dai suoi esordi letterari della violazione dei diritti dell’uomo in Germania, in Francia e in Belgio, si è rifugiato in Inghilterra, questa metropoli del capitale che gli ha offerto un rifugio sicuro dove poteva non soltanto continuare a scrivere liberamente, ma anche condurre campagna per il diritto di associazione e il suffragio universale.

Su questo Marx democratico e liberale, ma anche democratico rivoluzionario, mi è stato dato di dire l’essenziale nei miei lavori come nei miei commenti degli scritti di Marx pubblicati nella Pleiade: mi applico a demolire la leggenda di Marx costruita sia da degli adepti zelanti che da avversari ottusi. In questo stesso momento, preferisco tenermi lontano dalla mischia e dal baccano provocati dalle celebrazioni ufficiali e ufficiose. Ho in cantiere un opuscolo dedicato a questa leggenda, di cui i misfatti ideologici, tanto intollerabili possano essi essere, sono poca cosa in confronto alla miseria reale del mondo, che nessuna teoria, fosse essa marxiana o marxista, non potrebbe far scomparire. Sarà il mio contributo a un omaggio di cui il defunto celebrato e maledetto può certo fare a mano, ma che si collocherà fuori dalla triplice impresa di sotterramento ricordato.

Ma riaffermando che si deve considerare Marx come il primo – e il più efficace – critico del marxismo, ci si può domandare se, a vostra volta, non contribuite anche a una certa mistificazione di Marx, ad esempio scaricandolo totalmente dal peso dei suoi “discepoli”, caricando Engels di tutti i mali e in particolare quello di aver inaugurato il culto del suo amico, il giorno stesso del suo funerale?

– Mi sono accontentato di mostrare che una intelligentsia affetta da ideologia consolatrice si sforza nel ridurre, spesso per pura piccola gloria, in qualche specie come l’investimento più redditizio del suo capitale intellettuale, la potenza demistificatrice dell’opera di Marx. Soltanto la sua carriera di autore marginale e privo di mezzi ha impedito Marx di elaborare sistematicamente il progetto di una triplice critica scientifica delle istituzioni borghesi.

Ma basta leggere la sua opera per capire che, lungi dal rifiutare di “pensare il politico”, egli ha posto il “politico” al centro delle sue preoccupazioni. Sicché la sua Economia è rimasta incompiuta, che non ha potuto che a fatica porre l’ultima mano all’unico libro del Capitale, mentre l’insieme dei suoi scritti storico-politici, di fatto, la sua critica del politico, appariva come un insieme relativamente compiuto. Essa si impone oggi alla nostra riflessione con più pertinenza convincente della Critica della filosofia e la Critica dell’economia politica, come l’opera del primo teorico dell’anarchismo, dunque del critico e denunciatore senza concessione sia del vero capitalismo quanto del falso socialismo.

È su questo punto essenziale che dovrebbe aver luogo il dibattito riguardante il ruolo di Engels. Contrariamente a ciò che si pretende a volte, non lo ritengo affatto come responsabile di tutte le metamorfosi e distorsioni subite dal pensiero marxiano – soprattutto dopo l’istituzione del marxismo-leninismo come religione di Stato – nella fondazione di ciò che ha vincolato, suo malgrado, sotto il concetto di “marxismo”.

Ma come rimanere indifferenti di fronte alle conseguenze, oggi chiaramente percettibili, di questo gesto di consacrazione elevato presto alla dignità di un dogma indiscutibile? Come disconoscere il fatto che specializzandosi nelle questioni militari Engels ha lasciato, senza sospettarlo, alla posterità marxista un’eredità ambigua e alienante che, battezzato “marxismo-leninismo”, costituirà la negazione assoluta della causa emancipatrice per la quale Marx ha vissuto e combattuto?

Tuttavia, quest’ambiguità può volgersi contro gli eredi alienati: Engels avrebbe senza difficoltà riconosciuto in loro i continuatori arrabbiati e ciechi della politica zarista. Non dimentichiamo che Marx stesso non ha cessato di predicare “la guerra rivoluzionaria”. A prezzo di una concessione volgarmente “riformista” alla vocazione civilizzatrice dell’Occidente borghese, contro il dispotismo asiatico, e specialmente contro la Russia, questo “ultimo bastione della reazione europea”.

Siamo seri! Engels sarebbe stato l’ultimo a farsi prendere in trappola da una ideologia politica accomodata in salsa “marxista”, e nulla di ciò che ha detto o fatto, in quanto legatario spirituale del suo amico, può servire a legittimare quel marxismo.

Il monopolio della Mecca marxista

In quali condizioni e in quale spirito avete intrapreso la pubblicazione delle opere di Marx nella “Pléiade”? Con quali ostacoli e critiche, sopratutto politiche, vi siete dovuto confrontare? Non pensate di essere oggi meglio recepito e capito? In fin dei conti, vi è, a vostro parere, un uso possibile, fecondo, di Marx? O si tratta di un pensiero superato?

Accettando la pesante responsabilità di un’edizione delle opere di Marx nella “Bibliothèque de la Pléiade”, conoscevo i rischi di un’impresa concepita a controcorrente di una tradizione radicata. Essa urtava un’usanza editoriale diventata per così dire una legge non scritta, affrontando il mito della doppia fondazione di una scienzia nova chiamata “marxismo”. Inoltre, essa spezzava il monopolio che la Mecca marxista possiede nel campo delle edizioni che si pretendono scientifiche dei “classici del marxismo”.

Se oggi ho la convinzione di essere riuscito, malgrado le difficoltà e gli ostacoli che è facile immaginare, in compenso, ho fallito in una simile impresa, ma molto più ambiziosa: il progetto di un’edizione del giubileo delle opere di Marx nel testo originale. La storica di questo scacco formerà indubbiamente un capitolo della Leggenda di Marx che ho in cantiere. Il mio progetto doveva conformarsi al desiderio dell’autore di far udire un appello sempre ricominciato e sempre attuale, una requisitoria eticamente giustificato.

L’edizione del giubileo doveva soprattutto far apparire perché quest’opera, non appena essa si afferma in simbiosi con le sue fonti apertamente o tacitamente riconosciute, ripugna a presentarsi come un tutto compiuto, il compimento non essendo concepibile in questo continuo processo di teoria e di prassi, orientato verso una fine chiaramente enunciata: la generazione della società umana o dell’umanità sociale, compimento delle concezioni degli utopisti, dei riformatori e dei rivoluzionari.

Non avendo mai ricercato l’approvazione o brigato il verdetto della confraternita degli specialisti, la disapprovazione dei Magister scholarum della teologia marxista non è affatto riuscita ad ostacolare la ricezione più che favorevole del mio lavoro di editore e di commentatore dell’insegnamento marxiano. Ciò che mi importava innanzitutto, è che questa edizione possa raggiungere gli ambienti ai quali Marx destinava le sue opere.

La classe operaia è rivoluzionaria o non è nulla“, ha dichiarato Marx, cosciente che tutti i prestigi del verbo dialettico rimangono vani davanti all’atteggiamento di rassegnazione o di sottomissione degli iloti moderni. A rischio di urtare l’opinione universalmente ammessa, affermo che la vita postuma dell’autore di Il Capitale è lungi dall’aver cominciato. Se è vero, come credeva Nietzsche, che “alcuni individui nascono postumi”, questa proposizione non si applica ancora a Marx.

In verità, i cento anni di marxismo trionfante dimostrano il contrario di una resurrezione spirituale di questo pensatore che si riconosceva essenzialmente nella sua attività di educatore in situazione di apprendimento permanente. Il trionfo del marxismo come ideologia del socialismo realmente inesistente dissimula di fatto una sconfitta flagrante: la carriera postuma del pensatore e pratico dell’etica proletaria somiglia a una lunga agonia piuttosto che a una presenza rivoluzionaria.

[Traduzione di Massimo Cardellini]

MARX al cinema. Il giovane Karl Marx – film (2017) – [Selezione di testi a cura di Massimo Cardellini].

Riteniamo sia piuttosto interessante riportare alcune recensioni o articoli che trattano sulla stampa italiana dell’uscita oggi 5 aprile 2018 del film sui giovani Marx ed Engels. Il lettore anche lievemente acculturato in generale e meglio ancora quello che posseggono dei rudimenti di storia e di filosofia e di critica ideologica non potranno che trarne giovamento e soprattutto diletto.
La lettura dei commenti sui cosiddetti social ne costituiscono un complemento di spasso ulteriore da cui, superato il primo inevitabile sbigottimento, non può che subentrare una forma di godimento per l’avversione alla figura di Marx e del suo pensiero, indice di una abissale ignoranza verso una tematica a dir poco fondamentale del pensiero e della storia mondiale.

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SCHEDA del film:

Il Giovane Karl Marx – Le jeune Karl Marx

FRANCIA, GERMANIA, BELGIO – 2017
CAST:
Regia: Raoul Peck
  • Attori: August Diehl – Karl Marx
    Stefan Konarske  – Friedrich Engels
    Vicky Krieps  – Jenny von Westphalen-Marx
    Hannah Steele  – Mary Burns
    Olivier Gourmet  – Pierre-Joseph Proudhon
    Alexander Scheer  – Wilhelm Weitling
    Michael Brandner  – Joseph Moll
    Niels Bruno Schmidt  – Karl Grün
  • Sceneggiatura: Pascal Bonitzer, Raoul Peck
  • Fotografia: Kolja Brandt
  • Musiche: Alexei Aigui
  • Montaggio: Frédérique Broos
  • Scenografia: Benoît Barouh
  • Costumi: Paule Mangenot
PRESENTATO AL 67. FESTIVAL DI BERLINO (2017) NELLA SEZIONE ‘BERLINALE SPECIAL GALA’.

Quando Marx baciò Engels

Luca Cangianti

da: Carmilla. Letteratura, immaginario e cultura d’opposizione

 7 novembre 2017

La spiaggia di Ostenda è costeggiata dalla Galleria Reale, un porticato di quattrocento metri che unisce l’ippodromo con il parco e la villa del re dei belgi. Poi ci sono i ristoranti, i caffè, i negozi turistici, i complessi condominiali dallo stile accettabile e quelli decisamente orribili. Lì, davanti al mare delle Fiandre, oltre 170 anni fa, un Karl Marx ancora ventenne, in equilibrio sui frangiflutti di pietra, discuteva ispirato con Friedrich Engels di una rivoluzione che sarebbe stata al tempo stesso esistenziale, filosofica e sociale. “Der junge Karl Marx” (Il giovane Karl Marx), il film del regista haitiano Raoul Peck abbonda di scene a forte impatto visivo e simbolico. In questo modo riesce a sintetizzare con notevole abilità concetti filosofici complessi e sentimenti di grande intensità.
La famosa XI Tesi su Feuerbach (“I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo, ma si tratta di trasformarlo”) è ad esempio enunciata dal filosofo tedesco dopo uno sbocco di vomito causato da una sbornia colossale; i manoscritti di critica ai giovani hegeliani sono riletti a lume di candela in un’atmosfera calda e sensuale da Karl, dall’amico Friedrich e dalla moglie Jenny von Westphalen. Di tenore erotico è lo stesso sviluppo del rapporto tra Marx ed Engels; prima caratterizzato da reciproca antipatia, poi da conflitto e corteggiamento intellettuale, infine da passione travolgente: una corsa a perdifiato tra vicoli e anfratti per sfuggire alle grinfie degli sbirri, i fili della vita e della filosofia che si riannodano in un pub fumoso, un abbraccio forte come l’amore che spazza via i tiranni e la tristezza, e perfino un bacio (sulla fronte, però). È qui che Peck raggiunge il suo massimo, perché alla base della rivoluzione c’è una forma d’amore, di desiderio di vivere e lottare insieme. La rivoluzione è la fuoriuscita degli individui dalla solitudine, è il loro divenire comunità cosciente di un destino. Il bacio tra Marx ed Engels è l’annuncio della primavera insurrezionale del 1848.“Der junge Karl Marx” è girato in tre lingue (tedesco, francese e inglese) e dallo scorso marzo è nei cinema tedeschi, francesi e belgi. Da ottobre è anche disponibile in dvd in edizione tedesca, ma ancora non è noto quando e se arriverà nelle sale italiane. In un primo momento può sembrare un biopic piuttosto mainstream, ma solo perché è una produzione di qualità, con un’ambientazione curata e attori che recitano bene. È sorprendente come in poco meno di due ore Peck riesca a disegnare con grande verosimiglianza la personalità di Marx: l’intransigenza teorica, la trasandatezza nell’abbigliamento, la predilezione suicida per i sigari puzzolenti, l’assoluto deficit pragmatico, le mani bucate come arrivavano un po’ di soldi, la passione per i crostacei, i sensi di colpa (e forse d’inferiorità) nei confronti della sua compagna, l’investire tutta la libido nei confronti di una palingenesi basata sullo smascheramento scientifico della falsa apparenza. Nasce così l’ossessione che perseguita il filosofo per tutta la vita: scrivere un libro che porti alla luce il mostro invisibile del capitalismo, ricostruendone il complesso metabolismo. Marx iniziò a lavorare al Capitale già negli anni ’40, scrivendolo e riscrivendolo in varie forme, pubblicandone ogni tanto una parte senza mai completarlo, perché in fondo il suo oggetto era infinito e mutante [1].
Ben caratterizzata è anche la figura di Engels, in conflitto con il padre industriale tessile, e dunque con la sua classe d’appartenenza. Risultato di questo attrito è una personalità simpaticamente contraddittoria e umanissima. Il giovane Friedrich è anticonformista, frequentatore di ambienti operai e irlandesi, ma anche profondamente borghese, amante del buon vino e degli agi vittoriani.
Gli altri personaggi storici che nella narrazione hanno un ruolo secondario non sono mai delle comparse anodine. Ognuno conserva infatti un tratto saliente: Proudhon sorride bonariamente, Weitling ha gli occhi da pazzo e fa discorsi incendiari, Ruge ha paura della propria ombra, Bakunin parla già d’anarchia e diffida del socialismo autoritario.
Tuttavia, a guardar bene, c’è ancora di più in questo film: allusioni subliminali al presente, microscopiche (e probabilmente volute) divergenze dalle fonti storiche che conferiscono alla narrazione un’autenticità che nessuna pignoleria sarebbe capace di restituire. Da questo punto di vista si possono citare: Jenny von Westphalen che dà del “tu” a Engels e alla sua compagna Mary Burns, Marx fluente in inglese già nel 1845, ma soprattutto il falso storico più colossale, eccitante e azzeccato: il filosofo di Treviri più bello e affascinante del suo amico biondo, grazie al fisico e all’interpretazione dell’attore tedesco August Diehl. Insomma, se il film è adatto a qualsiasi tipo di pubblico, i conoscitori della vita e del pensiero di Marx ne trarranno un piacere supplementare grazie alle brillanti soluzioni narrative utilizzate per mettere in evidenza dettagli storici e snodi teorici.
Il Karl Marx di Raoul Peck è l’esatto contrario del vecchio profeta barbuto, adorato e imbalsamato dal socialismo reale. È un ventenne pieno di passione, arroganza, fragilità caratteriale e fisica. Lo vediamo fare l’amore con Jenny, supplicare per un posto di lavoro, cambiare idea più volte, sentirsi in colpa verso la famiglia, frequentare centri sociali del tempo come il Red Lion di Londra, studiare voracemente, entusiasmarsi, deprimersi, ubriacarsi e combattere come un leone. Questo giovane Marx non è un cavaliere senza macchia e neanche un noioso topo di biblioteca, è un uomo profondamente ferito che si dedica a un’avventura disperata, nobile e ambiziosa. Nel film, che copre l’arco temporale che va dal 1842 al 1848, non si rivelano le cause della sua ferita e la battaglia finale contro l’antagonista è lasciata ai titoli di coda, quando le immagini delle rivoluzioni novecentesche, delle lotte anticoloniali, di Che Guevara e Nelson Mandela, sono accompagnate dalle note di Like a rolling stone: “When you ain’t got nothing, you got nothing to lose”, canta Bob Dylan. Similmente Marx scrive nelle parole conclusive del Manifesto del partito comunista: “I proletari non hanno da perdere che le loro catene. Hanno da guadagnarci tutto un mondo.”

[1]

  1. Cfr. Francis Wheen, Il Capitale. Una biografia, Newton Compton, 2007.

Il giovane Marx: un film

da: “Le Parole e le cose” Letteratura e realtà

Federica Gregoratto

Sono già passati circa dieci anni dall’inizio dell’ultima crisi finanziaria che ha messo in ginocchio l’economia mondiale, soprattutto occidentale. Una delle trasformazioni sociali, politiche e culturali più evidenti che sta segnando la fase attuale (e terminale?) [1] della società capitalista è la presa di coscienza dei limiti, intrascendibili, e dei fallimenti, irreversibili, del progetto social-democratico e liberale. Le procedure democratiche e il sistema dei diritti non sembrano più soluzioni adeguate, o quantomeno sufficienti, per domare la volontà di potenza e violenza delle classi dominanti, mediare le relazioni con il “diverso”, godere delle libertà rese disponibili dal capitalismo tenendone sotto controllo, allo stesso tempo, le derive (auto)-distruttrici.

A destra, si cercano nuove ricette appellandosi a rozzi demagoghi o a nuove ladies di ferro. L’obiettivo principale è quello di rimuovere tutto ciò che appare sopraggiunto solo di recente: nuove forme di vita e religione arrivate con gli ultimi copiosi flussi migratori, nuove preoccupazioni, per esempio sul futuro del pianeta, cui la scienza ci mette ora di fronte, o nuovi generi sessuali, fluidi, aperti, negoziabili. A sinistra, invece, gli abbozzi di soluzione più interessanti – gli esperimenti di cooperazione di Occupy Wall Street o dei recenti movimenti di lotta contro le nuove destre neoliberali, da Washington a Budapest, da Istanbul a Londra, le forme di solidarietà mediterranea nei confronti di profughi e profughe, le prove con il reddito di base e con la riduzione della giornata lavorativa – non possono fare a meno che appigliarsi teoricamente a certi concetti base formulati molto tempo fa nel solco delle tradizioni socialiste e comuniste. Marx è un, o meglio il riferimento obbligato.

Le jeune Karl Marx (o, in tedesco, Der Junge Karl Marx), diretto dal regista haitiano Raoul Peck e mostrato per la prima volta all’ultima Berlinale, narra la formazione del pensiero marxista negli anni cruciali dal 1842 al 1848 in un modo che, sullo sfondo del contesto appena tratteggiato, acquista una particolare rilevanza. Due scritti sono associati a queste due date, uno sconosciuto ai più, l’altro conosciuto da tutti. Il primo, che il regista sceglie di trasporre nelle immagini dell’ouverture del film, è l’articolo “Debatten über das Holzdiebstahlsgesetz”, pubblicato nella Reinische Zeitung: in queste pagine, il giovane Marx critica la legge, emanata solo pochi anni prima dal governo prussiano, che condanna la raccolta di legna nelle foreste “private”. Ben cinque sesti delle accuse penali in Prussia interessavano “furti” di questo genere, commessi dai poveri contadini alla disperata ricerca di materiale per riscaldarsi. Il secondo testo, ovviamente, è il Manifesto del Partito comunista, redatto da Marx e Engels con l’intento di mettere nero su bianco le basi del neonato movimento.

Le jeune Karl Marx è un film filosofico e letterario, perché mette in primo piano la produzione teorica dei due padri fondatori del comunismo. Altri sono i testi non semplicemente citati, ma la cui stesura diventa parte integrante del plot: per esempio Le tesi su Feuerbach (scritto nel 1845), che Marx e Engels avrebbero buttato giù per sancire la loro nuova amicizia al termine di una notte di eccessi alcolici; o Miseria della filosofia (1947), cui Jenny Marx avrebbe dato un titolo molto più ironico e sibillino. Proprio la scelta dello scritto iniziale e di quello finale, tuttavia, mostrano che la strategia di Peck non è semplicemente storica, ma piuttosto sistematica. Il primo riferimento pone l’accento sulla tematica della cosiddetta accumulazione primitiva, formulata ancora acerbamente negli anni ’40, facendone una chiave di lettura per l’intero pensiero marxiano. Peck sembra qui raccogliere la tesi di quei critici marxisti, come Rosa Luxembourg, o più recentemente Silvia Federici o David Harvey, secondo i quali la violenta espropriazione da parte del capitale delle risorse condivise collettivamente, come i rami caduti dagli alberi, non stia semplicemente all’origine del capitalismo, ma ne rappresenti la condizione fondamentale e costante di riproduzione. Per quanto riguarda la divulgazione delle idee portanti del comunismo, affidata alle pagine del Manifesto più famoso della storia, è evidente che il regista vuole stabilire una continuità tra il momento storico delle sue origini europee e le lotte più recenti che possono dirsi, in qualche modo, ispirate da questa tradizione.

 La prova più evidente di una tale continuità la si trova nei titoli di coda, in cui le note di Bob Dylan accompagnano una carrellata gioiosa di scene che ritraggono alcuni degli eventi o personaggi simbolo dell’emancipazione socio-politica nel ventesimo secolo: Che Guevara, il Muro di Berlino, Nelson Mandela, #Occupy. Ma non è tutto. Nel corso del film, altri temi vengono toccati il cui potenziale riflessivo non ha perso affatto di attualità. Due in particolare mi pare importante rilevare: la natura agonistica del movimento, o del partito, e il ruolo della teoria in relazione alla prassi rivoluzionaria.

Il primo punto è probabilmente, se letto in chiave di attualità, il più problematico. Le scene centrali del film sono dedicate alla sofferta mossa politica di Marx e Engels di trasformare la Lega dei Giusti in una decisamente più combattiva, la Lega dei Comunisti. Nel suo discorso durante il congresso di Londra nel giugno 1847, Engels espone gli argomenti in favore della nuova Lega criticando soprattutto il punto di vista astrattamente morale e l’ideologia orientata alla conciliazione universale, all’amore e alla fratellanza che avevano caratterizzato il movimento fino a quel momento. Alla luce di quello che oggi sappiamo sui cosiddetti “socialismi reali”, queste critiche possono apparire problematiche se interpretate semplicemente come rifiuto della morale tout court e giustificazione della violenza. Ma Peck sembra qui piuttosto presentare i propositi di Engels e Marx come il tentativo di fondare la prassi trasformatrice non su astratti punti di vista morali, sull’ideale cristiano della fratellanza o dell’agape, o sulla volontà di raggiungere un’intesa con l’umanità intera. I principi troppo generali e gli ideali non sono infatti in grado di afferrare le condizioni materiali esistenti; le emozioni positive generalizzate, d’altra parte, non possono che tradire un’inefficace ingenuità di fronte alle brutture, nefandezze e sofferenze dell’ordine sociale dato. La conoscenza, innanzitutto empirica, della complessità in cui ci si trova ad agire, l’attenzione strategica per le conseguenze possibili delle azioni, la capacità di sopportare dissenso e incomprensione, la comprensione delle differenze costitutive di un “soggetto” rivoluzionario in trasformazione: queste le caratteristiche necessarie, secondo Peck, per una prassi socio-politica che potremmo anche chiamare, con Dewey, un “comunismo dell’intelligenza” [2].

   Ma quale il ruolo degli intellettuali – e degli scienziati e dei filosofi – in tutto questo? La posizione di Le jeune Karl Marx rispetto a questa annosa questione è chiara. Nessuna lotta socio-politica può rinunciare all’impegno teorico. Uno dei pregi della pellicola, tra l’altro, è l’accurata ricostruzione delle tre fonti principali del pensiero marxiano: l’idealismo tedesco, la teoria economica inglese e il socialismo francese. Il lavoro teorico non è semplicemente un’emanazione, un prodotto o una funzione secondaria della lotta: una certa autonomia della teoria è necessaria affinché essa possa svolgere il suo compito di fornire indicazioni e immagini più o meno dettagliate che orientino l’azione. Allo stesso tempo, la teoria non può arrogarsi nessuna funziona di guida, non può credere di essere superiore all’azione concreta. In una delle scene chiave e centrali del film, Marx e Engels si devono recare umilmente di fronte ad un comitato di lavoratori e cercare di convincerli che sanno di che cosa stanno parlando. Tutto quello che riescono a farsi concedere, giustamente, è di essere messi alla prova: la validità di un impianto teorico può emergere solo grazie al confronto diretto con la realtà – quella realtà che la teoria stessa vuole trasformare. Anche qui si avverte un’eco del pensiero (socialista) deweyano: se vogliamo una teoria al servizio della prassi trasformatrice, essa non può che porsi come fallibile e pertanto rivedibile. Ecco perché, ci dice Raoul Peck poco prima dei titoli di coda nella schermata riassuntiva delle tappe bi(bli)ografiche successive del suo protagonista, Marx non poteva terminare la sua opera magna: l’evoluzione delle condizioni materiali, sociali, politiche e culturali sollecita allo stesso tempo un’evoluzione della teoria, e a Il Capitale si devono aggiungere sempre nuovi capitoli.

  Nel suo ultimo libro, Axel Honneth si ripromette di rivitalizzare il progetto socialista riprendendone l’idea chiave, quella di “libertà sociale”, ma anche criticando gli errori commessi dai primi socialisti [3]. Tre sono i retaggi, secondo Honneth, da cui il pensiero socialista dovrebbe prendere congedo per riguadagnare attualità, e dunque riuscire a incanalare la rabbia diffusa contro le condizioni di vita presenti: primo, l’idea che il progresso storico verso l’emancipazione, e dunque il superamento del capitalismo, sia un progresso necessario; secondo, la convinzione che l’esistenza di una classe particolare, il proletariato, sia di sé legata a certi interessi socialisti e comunisti; [4] terzo, la fissazione sull’economico e il disinteresse nei confronti di altre due sfere fondamentali per la condizione umana moderna, ovvero quella politica e quella delle relazioni intime, famigliari, di amore e amicizia. Il film di Peck sembra voler contraddire su tutti i punti l’analisi di Honneth.

  Fino ad ora ho cercato in effetti di mostrare come Le jeune Karl Marx rigetti con decisione una visione anacronistica di materialismo storico, facendo della dimensione politica un nodo cruciale della lotta sociale. Come notato in precedenza, il nodo centrale del film, ma anche della formazione di Marx (e Engels), è data dalla sconfitta della corrente moralista all’interno della Lega dei Giusti e la costituzione della Lega Comunista. Uno dei pregi maggiori del film, non emerso fino ad ora, risiede inoltre nell’ampio spazio dedicato alle relazioni intime tra i protagonisti, costitutive per l’attività teorica e politica: il sostegno di Jenny Marx, che va ben oltre il semplice ruolo di moglie devota, [5] la passione di Engels per Mary Burns, che lo spinge a studiare più da vicino le condizioni di lavoro e vita dei lavoratori inglesi, l’affetto, ammirazione e dipendenza reciproca, non scevra di conflitti, tra Marx e Engels, ma anche i complicati sentimenti di Marx per Proudhon, nel film descritto quale mentore che seduce e allo stesso tempo respinge, incoraggia e allo stesso tempo delude. In L’idea di socialismo, e in altre opere, Honneth pensa alla sfera delle relazioni intime come al luogo in cui la libertà sociale – quella forma di libertà di cui gli altri e le altre non sono un limite ma una condizione – si manifesta in modo più immediato e concreto, fornendo in un certo senso un modello da applicare anche altrove. In Le jeune Karl Marx, questa idea è presa sul serio. La vita privata e affettiva di Marx ed Engels non è mostrata come un semplice complemento al, o peggio, come ad un rifugio dalla pubblicità del conflitto intellettuale e politico, ma, al contrario, come al laboratorio in cui idee e strategie vedono la luce, si raffinano e in un certo senso vengono messe alla prova. Il privato non è ridotto immediatamente al politico, ma i due sono intrecciati: non solo le condizioni sociali ed economiche e l’impegno politico influenzano e limitano la sfera affettiva; allo stesso tempo, quest’ultima nutre, mantiene vive, incanala le energie e le forze, sia intellettuali che emotive, che si dispiegano nella lotta. L’accento sul ruolo costitutivo delle relazioni intime non significa però, daccapo, riabilitare un’ideale di amore/amicizia improntato all’armonia, o vincolato a certe istituzioni. In una delle ultime scene, la lavoratrice Mary spiega a Jenny von Westphalen che la libertà, anche quella individuale, è per lei la condizione per continuare a lottare. Per questo non può che rifiutare gli agi, anche economici, che una relazione ufficializzata e socialmente riconosciuta con Engels potrebbe concederle. Così facendo, non solo non si lascia ingabbiare dal ruolo di madre, ma neppure dal modello romantico tradizionale [6]. Così come Marx aveva dichiarato, in faccia al borghese che giustificava il lavoro minorile, “quello che voi chiamate profitto, io lo chiamo sfruttamento”, Mary potrebbe ora dire, prendendo a prestito le parole di Silvia Federici: “loro lo chiamano amore, noi lo chiamiamo lavoro non pagato.”[7]

Note

[1] Secondo Wolfgang Streeck si tratta per l’appunto di una fase terminale: cfr. il suo “How Will Capitalism End?”, New Left Review 87, May-June 2014, pp. 35-64.

[2] Cfr. J. Dewey, Filosofia sociale e politica. Lezioni in Cina (1919-1920), a cura di F. Gregoratto, trad. di C. Piroddi, Rosenberg & Sellier, Torino 2017.

[3] A. Honneth, L’idea di socialismo, trad. di M. Solinas, Feltrinelli, Milano 2016.

[4] La premessa di un legame intimo e necessario tra classe proletaria – che designa quel gruppo di persone che dipendono dal loro lavoro per vivere, e che dunque sono estremamente vulnerabili al potere di coloro che controllano le condizioni di lavoro – e interesse al superamento del sistema capitalistico viene messa efficacemente in discussione anche nel libro di Didier Eribon Ritorno a Reims, in uscita per Bompiani nel 2017.

[5] Il coinvolgimento in prima persona delle donne nella prassi politica in quegli anni era già qualcosa di rivoluzionario, anche tra i socialisti. Sul ruolo di Jenny Marx si veda il bel libro di Mary Gabriel, Love and Capital. Karl and Jenny Marx and the Birth of a Revolution, Back Bay Books, New York/London 2011.

[6] Nel film la posizione di Mary circa questa questione non è posta come necessariamente superiore ad altre alternative. Se la sua scelta di non diventare madre e l’accenno al modello poliamoroso sono esplicitamente presentati come forme di libertà, altrettanto libero è lo stile di vita di Jenny von Westphalen, il cui matrimonio con Marx le ha permesso di rompere con le convenzioni dell’aristocrazia tedesca.

[7] S. Federici, Il punto zero della rivoluzione, a cura di A. Curcio, Ombre Corte, 2014.

«Il giovane Karl Marx», l’uomo, l’azione politica e il lavoro teorico

Eugenio Renzi

“Il Manifesto”, 03.04.2018

Esce giovedì il film di Raoul Peck dedicato al filosofo tedesco, ambientato negli anni dell’incontro con EngelsEsce infine in Italia, giovedì prossimo, il film di Raoul Peck su Karl Marx. Questo piccolo evento non può non intrigare il proletariato italiano. Ma che cosa ha da attendersi da un film uno spettatore di sinistra che ancora non conosce il pensiero del padre della filosofia della prassi? La difficoltà di ogni biografo del genio di Treviri è data dal fatto che la maniera di presentare i vari aspetti della sua esistenza è inevitabilmente anche un modo di interpretare il rapporto tra la vita privata, l’azione politica e il lavoro teorico.
Ora, in un film in costume, dove l’intreccio ha tendenza a dominare la scena, il rischio è di dare la priorità al romanzo, e quindi di cadere, colore a parte, in un’operetta borghese. Rischio accentuato dalla biografia del fondatore del socialismo scientifico che, in particolare in gioventù, non manca di avventure di ogni genere.
Quando il film comincia, il redattore della «Gazzetta renana» è già sposato con Jenny von Westphalen, l’aristocratica che ha scelto la ribellione alla sua classe, sposando il figlio di un ebreo convertito. La loro storia non evolverà d’un millimetro. Il film racconta invece le circostanze dell’incontro con Engels a Parigi.
I due sono già convinti ammiratori l’uno dell’altro. Devono solo confessarselo. Per il resto, Peck, e il suo sceneggiatore Pascal Bonitzer (ex dei «Cahiers» «époque Mao» e regista a sua volta) hanno cercato di evitare lo schema classico dei biopic: l’ascesa, la disgrazia, la redenzione.
Certo, il futuro fondatore dell’Internazionale passa attraverso vari naufragi economici e politici. È sempre sull’orlo della fame, alla ricerca di qualche soldo per il pane, braccato dalla polizia, costretto all’esilio. Ma la costanza della situazione di povertà e di precarietà è un altro modo per togliere al lato dickensiano il ruolo di trazione del film e dare più spazio agli aspetti teorici. Ma come si filma la teoria? Peck non ha voluto fare un film pedante. Ha cercato di concentrare lo specifico del pensiero di Marx in un concetto unico che irriga tutto: l’idea del conflitto.

IL GIOVANE KARL MARX. Intervista a Raoul Peck

 IL GIOVANE KARL MARX, LA RIVINCITA DI UN GRANDE SCONFITTO

A 30 anni dalla caduta del muro, complice l’aggressività del capitalismo globale, non sembra più un tabù professarsi apertamente marxisti. Dal 5 aprile al cinema.

Mymovies

Roy Menarini, mercoledì 4 aprile 2018

Magari non è uno spettro quello che si aggira per l’Europa e per il mondo negli ultimi anni, e forse è più che altro simile a un morto vivente. Eppure il marxismo, magari con un “neo-” davanti, è una delle correnti di pensiero politico e filosofico più in auge in questo periodo. Filosofi del calibro di Slavoj Zizek o Alain Badiou, che possiamo tranquillamente considerare superstar dell’editoria e del dibattito internazionale, si professano apertamente marxisti, e oggi – a ormai trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino – non è più tabù professarsi tali, anche a causa dell’aggressività del capitalismo globale e l’evidente arretramento delle democrazie occidentali.

Questo clima culturale, dunque, non deve essere stato estraneo alla decisione di mettere in cantiere Il giovane Karl Marx, curioso caso di film storico in costume di produzione indipendente (e internazionale), dove il budget limitato non impedisce la passione biografica.

E del resto non è un caso che a trovarsi dietro la macchina da presa sia Raoul Peck, regista militante haitiano che dopo anni di clandestinità cinematografica e militanza documentaristica dirige ora un affresco storico. Nato ad Haiti, cresciuto a Berlino, vissuto in Congo, poi cosmopolita, e ancora ministro della cultura del suo paese, poi spesso negli Stati Uniti, Peck ha una biografia movimentata e coraggiosa, e una filmografia altrettanto imprevedibile. Giusto lo scorso anno, con I Am Not Your Negro, ci aveva riportato la voce e la scrittura di un gigante (da noi poco noto) della narrativa come James Baldwin, intervenendo con forza nel dibattito sul razzismo e la diseguaglianza tra bianchi e neri nella nuova America degli anni Duemila.

Meno consueto vederlo alla regia di un dramma come questo, che però sembra andare all’origine dell’attivismo politico grazie a Karl Marx, verso il quale – e qui torniamo all’aporia di partenza: una figura sconfitta dalla storia che oggi riceve attenzioni sorprendenti – nutre una simpatia indiscutibile. Qui si cela anche la mossa più astuta di Peck e degli sceneggiatori: il racconto di giovinezza. Rappresentando Karl Marx come un rivoluzionario puro, e immergendolo nei furori giovanili, ne viene stemperata la carica più attuale (che sarebbe forse diventata indigesta a una larga fetta di pubblico) per immergerla nel contesto delle ingiustizie ottocentesche dove si trova a operare. È da questo scenario che poi gli spettatori decideranno se – come Peck suggerisce – le motivazioni profonde e le sperequazioni di classe da cui l’attività di Marx e Engels prese forza si ripresentano ancora oggi, o se invece limitare l’efficacia del racconto alla sua storicizzazione.

In ogni caso, anche ad accontentarsi della ricostruzione d’epoca, Il giovane Karl Marx fornisce indicazioni utili ai dibattiti e alle sofferte decisioni del periodo, per esempio intorno alla galassia socialista e alle indecisioni di Proudhon o al ruolo più borghese e dialogante di Engels.

E se è vero che talvolta sembra di trovarsi di fronte a “period drama” da piccolo schermo, è anche innegabile che il budget ristretto ha spinto Peck a concentrare tutto l’apparato emotivo e politico sui volti e sui dialoghi, lavorando in set claustrali e privilegiando gli interni. Anche le rivoluzioni nascono in una stanza.

Ecco la bella vita del giovane Karl Marx prima di scrivere il manuale comunista

Il film di Peck sugli anni «scatenati» del filosofo insieme con Engels

Cinzia Romani

“Libero” – Mar, 03/04/2018

Mentre la sinistra italiana subisce una Caporetto epocale e rischia di sparire, ecco Il giovane Karl Marx (dal 5, distribuisce Wanted), film drammatico dell’haitiano Raoul Peck, ex-ministro della cultura nella Haiti post-regime e autore noto per il documentario I’m not your Negro (2016), biopic antirazzista sull’intellettuale afroamericano James Baldwin: premio Bafta e Oscar 2017 come miglior documentario.

Alle vicende storicizzanti, che richiamano l’attualità, Peck è allenato. Stavolta, intanto che in Europa libertà, uguaglianza e diritti dei cittadini non sono più bandiere dei partiti comunisti, è di Karl Marx che egli tratta. Del Marx ventenne, in particolare, ritratto come un ragazzo pieno di vita, che fa l’amore a Parigi, beve birra a Londra e si scapiglia come si deve insieme all’amico Friedrich Engels, lui pure sexy quanto basta per parlare al cuore delle platee non bacucche.

«Voglio mostrare alle giovani generazioni la forza del pensiero rivoluzionario: oggi ci manca il modo di pensare di Karl Marx», spiega il regista, che ha ingaggiato August Diehl, uno degli attori tedeschi contemporanei più famosi al mondo, per incarnare il filosofo di Treviri. E se siamo abituati a pensare a Marx come lo raffigura l’unica foto che gira di lui, con la lunga barba bianca da vecchio, dovremo ricrederci. L’economista che nell’Ottocento ha profetizzato quanto si avvera nel mondo globalizzato («i poveri sempre più poveri, i ricchi sempre più ricchi»), ha viaggiato come un hippy on the road, ha patito la fame, ha accettato ogni lavoro pur di sostentare la sua famiglia. E’ stato ragazzo nel periodo 1844-1848, quando, non ancora trentenne, doveva ancora affermarsi come punto di riferimento di sinistra dell’epoca.

Per quanto singolare sembri, finora nessuno aveva pensato a un film sugli anni prima che Marx scrivesse il Manifesto del Partito Comunista, pubblicato a Londra il 21 febbraio 1848, in tedesco e in forma di opuscolo. Una pubblicazione che, nei Settanta, campeggiava nelle biblioteche degli studenti «Revoluzzer» e degli studiosi impegnati, con la traduzione di Palmiro Togliatti (Edizioni Rinascita), poi caduta nel dimenticatoio, fino alla recente riproposizione nell’Economica Laterza.

Del giovane Marx, in Italia, soltanto Croce e Gentile, alla fine dell’Ottocento, avevano parlato via epistolario. E se Andy Warhol ha capito il lato pop di Marx, nato nel 1818 e morto a Londra il 14 marzo 1883, riproducendone serialmente l’icona barbuta, quale impatto avrà Il giovane Marx sui giovani ai quali è indirizzato? «Sarebbe bello poter guardare il mondo di oggi attraverso gli occhi di Marx», si è augurato il direttore della Berlinale Dieter Kosslick, quando, l’anno scorso tale cineromanzo di formazione di due ore, è passato al festival dividendo la critica. Troppo cerebrale per lo Hollywood Reporter, il film auspica una «Marx Renaissance», nel peggior momento delle sinistre europee. Non a caso finisce sulle note di Like a Rolling Stone, cantata da Bob Dylan.

[Selezione dei testi dalla rete a cura di Massimo Cardellini]

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BUON NUOVO SECOLO DI VITA KARL MARX

Tra poche settimane ricorrerà il 200° anno della nascita di Karl Marx, una figura senz’altro molto controversa e non soltanto tra i suoi detrattori quanto soprattutto, e peggio ancora, tra i suoi ancor più numerosi sostenitori nel corso delle varie epoche storiche che si sono succedute da quanto questa concezione è nata.
 
Poiché il nostro paese, come d’altronde tanti altri in Europa e nel mondo, ha avuto storicamente dei cosiddetti partiti e organizzazioni sindacali e leghe di cooperative “di sinistra”, che si dicevano addirittura marxisti, (e che forse nel loro piccolo, in origine lo sono anche stati per un poco), questo blog, attraverso presentazione di materiale storico e critico, vorrebbe che si giungesse infine ad una conoscenza adeguata di ciò che genericamente è stato chiamato “marxismo”, e cioè essenzialmente una mera strategia ideologica elettoralistica nel corso della sua storia primitiva o un totalitarismo in una successiva fase leninista.
Ribadire ancora una volta, e in modo meticoloso e circostanziato, cosa sia e ancor più cosa sia stato realmente il “marxismo” o se si preferisce la concezione materialistica della storia, per distinguerlo dalle ideologie collaborazionistiche con il sistema capitalistico avanzato occidentale oppure dalla prassi totalitaria delle ex semicolonie, come la Russia zarista o la Cina imperiale, che sbarazzandosi del dominio occidentale hanno creduto di poter instaurare dall’alto, gerarchicamente e militarmente il “comunismo”, è uno dei compiti di Marx201.
Un’altra esigenza, anch’essa di natura storica ma anche di critica ideologica autenticamente marxiana, sarà quella di contribuire alla conoscenza delle organizzazioni e delle figure teoriche che mantenendosi fedeli allo spirito del pensiero marxiano si sono opposte alle derive politiche e ideologiche dello pseudomarxismo imperante e lo hanno combattuto senza tanti compromessi e giri di parole, come invece è stato per la frazioni dissidenti all’interno sia della socialdemocrazia (revisionismo) sia del bolscevismo leninismo (Trotskysmo; bordighismo e altre derivazioni leniniste).
 
Il blog quindi presenterà molto materiale reperibile in rete e non, adatti a delineare una critica storica e ideologica dello pseudomarxismo e dei suoi crimini, e soprattutto adatti a far un bilancio storico e portare alla conoscenza di molti la grandezza di eventi, figure e concezioni che si sono mantenuti al livello del creatore del loro ispiratore che è stato un uomo e non certo un icona.
Massimo Cardellini