Categorie

Matrimonio e divorzio: leggi che li regolano

 

Il divorzio è l’istituto giuridico che permette lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio quando tra i coniugi è venuta meno la comunione spirituale e materiale di vita.

Si parla di scioglimento qualora sia stato contratto matrimonio con rito civile, di cessazione degli effetti civili qualora sia stato celebrato matrimonio concordatario.

Anche il procedimento di divorzio può seguire due percorsi alternativi, a secondo che vi sia o meno consenso tra i coniugi:

  • divorzio congiunto, quando c’è accordo dei coniugi su tutte le condizioni da adottare (in questo caso il ricorso è presentato congiuntamente da entrambi i coniugi)
  • divorzio giudiziale, quando non c’è accordo sulle condizioni (in questo caso il ricorso può essere presentato anche da un solo coniuge)

Il divorzio si differenzia dalla separazione legale in quanto con quest’ultima i coniugi non pongono fine definitivamente al rapporto matrimoniale, ma ne sospendono gli effetti nell’attesa di una riconciliazione o di un provvedimento di divorzio.

Il divorzio è disciplinato dal codice civile (art. 149 c.c.), dalla legge 898/1970 (che ha introdotto l’istituto per la prima volta in Italia) e dalla legge n. 74/1987 (che ha apportato delle modifiche significative alla precedente).

Le cause che permettono ai coniugi di divorziare sono tassativamente elencate nell’art. 3 della legge 1970/898 e attengono principalmente ad ipotesi in cui uno dei coniugi abbia attentato alla vita o alla salute dell’altro coniuge o della prole, oppure abbia compiuto specifici reati contrari alla morale della famiglia.

La causa statisticamente prevalente che conduce al divorzio è la separazione legale dei coniugi protratta ininterrottamente per un periodo di tempo (che oggi è ridotto a 6 mesi, che diventano 12, se la separazione è stata giudiziale). Il termine decorre dalla prima udienza di comparizione dei coniugi innanzi al tribunale nella procedura di separazione personale, anche quando il giudizio contenzioso si sia trasformato in consensuale. Per la decorrenza del termine non vale il tempo che i coniugi hanno trascorso in separazione di fatto, senza cioè richiedere un provvedimento di omologa al Tribunale.

Il divorzio può quindi essere richiesto:

  • in caso di separazione giudiziale: qualora vi sia stato il passaggio in giudicato della sentenza del giudice;
  • in caso di separazione consensuale: a seguito di omologazione del decreto disposto dal giudice;
  • in caso di separazione di fatto: se la separazione è iniziata 2 anni prima del 18 dicembre 1970

Nei primi due casi, tra la comparizione delle parti davanti al Presidente del Tribunale nel procedimento di separazione e la proposizione della domanda di divorzio devono comunque essere trascorsi almeno sei mesi (o dodici se la separazione è stata giudiziale).

Con il divorzio viene meno lo status di coniuge e si possono contrarre nuove nozze.

La donna perde il cognome del marito.

A seguito di divorzio, vengono meno anche i diritti e gli obblighi discendenti dal matrimonio (artt. 51, 143, 149 c.c.), cessa la destinazione del fondo patrimoniale (art. 171 c.c.) e viene meno la partecipazione dell’ex coniuge all’impresa familiare (art. 230 bis c.c.).

Nel caso di divorzio giudiziale, qualora non vi sia accordo tra i coniugi sui rapporti patrimoniali, il tribunale può riconfermare le decisioni già adottate in sede di separazione, oppure – a seguito delle prove prodotte dalle parti o dei controlli tributari disposti dallo stesso giudice per valutare la capacità contributiva di ciascun coniuge – può stabilire in merito all’eventuale assegno divorzile e all’affidamento e mantenimento dei figli.

Non si possono invece chiedere provvedimenti in ordine ai beni di proprietà dei coniugi, fatta salva la possibilità per il coniuge affidatario o collocatario della prole di chiedere l’assegnazione dell’abitazione familiare, anche se non proprietario del bene.

Per quanto riguarda l’acquisto di abiti da sposa e ‘abitazione familiare e l’affidamento dei figli valgono sostanzialmente gli stessi principi stabiliti per la procedura di separazione.

L’assegno divorzile ha invece una natura diversa da quello che può essere stabilito in sede di separazione, in quanto trova causa nello scioglimento del vincolo matrimoniale.

L’assegno di divorzio ha causa nello scioglimento del vincolo matrimoniale ed ha, quindi, natura diversa dall’assegno di mantenimento e da quello alimentare eventualmente concessi in sede di separazione, che presuppongono invece l’esistenza e la persistenza del rapporto coniugale.

L’assegno divorzile ha natura complessa:

  1. una componente assistenziale, per cui è necessario valutare il pregiudizio che può causare ad uno dei coniugi lo scioglimento del vincolo matrimoniale;
  2. una componente risarcitoria, per cui bisogna accertare la causa che determina la rottura del rapporto;
  3. una componente compensativa, per cui è necessario valutare gli apporti di ciascun coniuge alla conduzione familiare.

L’assegno può essere concesso quando sussista anche una sola di queste tre componenti.

Normalmente, il versamento dell’assegno divorzile è riconosciuto ad uno dei coniugi poiché questi ha diritto di mantenere lo stesso tenore di vita avuto in costanza di matrimonio.

L’assegno deve essere versato dal momento del passaggio in giudicato della sentenza, ma può essere richiesto pure successivamente, se le condizioni di vita di uno dei divorziati lo richieda (nell’ipotesi della sussistenza di un oggettivo stato di bisogno).

L’assegno può essere oggetto di rinuncia, ma anche in questo caso, se sopraggiunge uno stato di bisogno, sarà possibile revisionare le decisioni assunte precedentemente dal tribunale.

L’assegno divorzile può essere versato mensilmente, oppure liquidato in una sola soluzione, previo accertamento del tribunale sulla congruità della somma offerta.

Qualora sia liquidato in un’unica soluzione viene meno qualunque diritto della parte che lo ha ricevuto ad ulteriori richieste di natura economica, che sono ritenute dalla legge stessa improponibili. In tal caso il coniuge non potrà vantare alcun diritto neanche in ambito successorio.

Qualora l’assegno venga versato mensilmente, il coniuge che lo riceve, in caso di morte dell’ex coniuge, potrà ottenere una quota dell’eredità proporzionale alla somma percepita con assegno mensile e vedersi riconosciuto automaticamente il diritto alla pensione di reversibilità o ad una quota di essa.

L’assegno si estingue al momento in cui colui che lo percepisce passa a nuove nozze o qualora colui che è obbligato a versarlo muore o fallisce.

Qualora l’obbligato non versi l’importo stabilito è possibile agire esecutivamente nei suoi confronti o nei confronti di chi è suo debitore (ad esempio il datore di lavoro o una banca), per ottenere il pagamento dovuto.

Inoltre, al fine di tutelare il legittimo diritto riconosciuto con la sentenza, è possibile chiedere idonea garanzia di natura reale o personale, oppure il sequestro dei beni del coniuge obbligato.

Nel caso di mancato pagamento dell’assegno, possono essere soggetti a pignoramento anche lo stipendio o la pensione del debitore obbligato.

L’affidamento dei figli in caso di divorzio, così come per il caso della separazione, è oggi disciplinato dalle norme introdotte con la Legge n. 54 dell’8 febbraio 2006.

Il principio fondamentale è che, anche in caso di divorzio dei genitori, il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale.

Pertanto, in sede di divorzio e salvo diverso accordo tra i coniugi, il giudice deve valutare prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori (affidamento condiviso) oppure stabilisce a quale di essi i figli sono affidati (affidamento esclusivo), sempre e comunque considerando l’esclusivo interesse della prole.

Il giudice determina inoltre i tempi e le modalità della presenza dei figli presso ciascun genitore, fissando altresì la misura e il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione della prole (si veda in seguito).

Il coniuge affidatario in via esclusiva avrà la potestà sui figli oltre all’amministrazione e l’usufrutto legale sui loro beni.

Il genitore divorziato non affidatario conserverà l’obbligo (ma anche il diritto) di mantenere, istruire ed educare i figli.

Il genitore non affidatario è tenuto a versare un assegno di mantenimento per la prole.

L’assegno viene versato mensilmente e devono essere corrisposte anche le somme relative alle spese considerate straordinarie (ad es. quelle scolastiche, ricreative, mediche, sportive o per le vacanze). L’importo, per legge, deve essere rivalutato annualmente secondo gli indici ISTAT.

Il giudice può anche stabilire un assegno a favore dei figli maggiorenni, da versare a loro direttamente, quando non abbiano adeguati redditi propri.

L’art. 155-quater del codice civile stabilisce che l’interesse dei figli è anche determinante per stabilire a quale dei coniugi sarà assegnato il godimento della casa familiare.

In caso di morte dell’ex coniuge, il coniuge divorziato, poiché è definitivamente venuto meno il vincolo matrimoniale, non avrà alcun diritto sull’eredità.

Il coniuge divorziato potrà ricevere una quota di eredità solo se è titolare dell’assegno alimentare o dell’assegno divorzile, purché questi non siano stati versati in un’unica soluzione.

Fino all’emanazione della “Legge sul Divorzio” (legge n. 898/1970, detta anche “Legge Fortuna-Baslini”), non erano previste cause di scioglimento del matrimonio diverse dalla morte di uno dei coniugi: prima dell’avvento della Legge sul Divorzio, il matrimonio era quindi considerato legalmente indissolubile. La Legge sul Divorzio prevede i casi in cui è consentito il divorzio; il caso di gran lunga prevalente è dato dalla separazione legale dei coniugi che dura senza interruzioni da almeno 12 mesi se la separazione è giudiziale o da almeno 6 mesi se la separazione è consensuale (tali termini sono stati previsti dalla c.d. Legge sul Divorzio breve, in vigore dal 26 maggio 2015, e sostituiscono il precedente termine di 3 anni). Il procedimento di divorzio può essere contenzioso o a domanda congiunta e, una volta pronunciato, ha effetti sul piano civile, patrimoniale, successorio e sull’affidamento degli eventuali figli. Anziché rivolgersi al Tribunale gli ex-coniugi possono ora divorziare mediante un accordo raggiunto al termine della procedura di negoziazione assistita da un avvocato, prevista dal DL 132/2014 (così come convertito con l. 162/2014), oppure – a certe condizioni – mediante un accordo raggiunto davanti al Sindaco quale Ufficiale di Stato Civile.

>Che cosa è
>Casi di divorzio
>La negoziazione assistita da avvocati o l’accordo innanzi all’Ufficiale di Stato civile

>Divorzio giudiziale
>Divorzio a domanda congiunta
>L’annotazione della sentenza di divorzio nel Registro di Stato Civile
>Effetti del divorzio

 

Che cosa èTorna su

Nel caso di matrimonio civile (ossia di matrimonio contratto in Comune davanti all’Ufficiale dello Stato Civile), il divorzio è lo scioglimento definitivo del vincolo matrimoniale, pronunciato con sentenza da parte del Tribunale competente; lo scioglimento del vincolo può essere ora l’effetto anche di un accordo raggiunto al termine di un’apposita procedura di negoziazione assistita da un avvocato, introdotta dal DL 132/2014 così come convertito, oppure di un accordo innanzi al Sindaco quale Ufficiale di Stato Civile (ma solo se ricorrono determinate condizioni).
In caso di matrimonio concordatario (ossia quando il matrimonio è stato celebrato in Chiesa e poi regolarmente trascritto nei registri dello Stato Civile del Comune), si parla più propriamente di “cessazione degli effetti civili” del matrimonio stesso: permangono infatti gli effetti sul piano del sacramento religioso (a meno che non si ottenga una pronuncia di annullamento o di nullità da parte del Tribunale Ecclesiastico Regionale o della Sacra Rota).

 Casi di divorzioTorna su

Prima di pronunciare la sentenza di divorzio, il Tribunale deve sempre tentare la riconciliazione e accertare che la comunione spirituale e materiale tra i coniugi non possa più essere mantenuta o ricostituita (art. 1 della Legge sul Divorzio): in altre parole, prima di pronunciare il divorzio il Giudice deve sincerarsi che la frattura nei rapporti fra marito e moglie non possa essere in alcun modo ricomposta.
Oltre a ciò, il Giudice deve controllare la sussistenza di almeno uno dei presupposti tassativamente previsti dalla legge. In estrema sintesi, i casi di divorzio sono i seguenti:

  1. i coniugi sono separati legalmente e, al tempo della presentazione della domanda di divorzio, lo stato di separazione dura ininterrottamente da almeno 12 mesi se la separazione è giudiziale o da almeno 6 mesi se la separazione è consensuale (tale termine decorre in ogni caso dal giorno della comparizione delle parti davanti al Presidente del Tribunale nel procedimento di separazione);
  2. uno dei coniugi ha commesso un reato di particolare gravità (ad esempio è stato condannato con sentenza definitiva all’ergastolo o a una pena superiore a 15 anni di reclusione) oppure – a prescindere dalla durata della pena – è stato condannato per incesto, delitti contro la libertà sessuale, prostituzione, omicidio volontario o tentato di un figlio, tentato omicidio del coniuge, lesioni aggravate, maltrattamenti, ecc.;
  3. uno dei coniugi è cittadino straniero e ha ottenuto all’estero l’annullamento o lo scioglimento del vincolo matrimoniale o ha contratto all’estero un nuovo matrimonio;
  4. il matrimonio non è stato consumato;
  5. è stato dichiarato giudizialmente il cambio di sesso di uno dei coniugi.

 

La negoziazione assistita da avvocati o l’accordo innanzi all’Ufficiale di Stato civileTorna su

Occorre soffermarsi sull’importante novità prevista dal D.L. 132/2014, così come modificato dalla relativa legge di conversione (n. 162/2014).

Questa normativa dà la possibilità agli ex-coniugi di divorziare tramite una procedura facoltativa a quella giudiziale: la convenzione di negoziazione assistita da avvocati. In pratica, in questi casi gli ex-coniugi possono cercare di trovare un accordo bonario, grazie all’assistenza di avvocati (ciascuna delle due parti deve essere assistita da un legale e i due avvocati non devono appartenere allo stesso Studio Legale per evitare conflitti d’interesse). La negoziazione assistita inizia con l’invio di un invito a concludere la convenzione per il divorzio; la mancata risposta all’invito o il rifiuto sono elementi che potranno – in caso di successivo giudizio – essere tenuti in considerazione dal Giudice. L’accordo fra gli ex-coniugi deve essere raggiunto entro un termine prestabilito, comunque non inferiore a un mese dall’inizio della procedura di negoziazione assistita. L’accordo è sottoscritto dagli avvocati che assistono le parti. Nel sottoscrivere l’accordo, gli avvocati ne garantiscono la conformità «alle norme imperative ed all’ordine pubblico» e autenticano le sottoscrizioni apposte dagli ex-coniugi. Gli avvocati che assistono gli ex-coniugi divorziati hanno l’obbligo di trasmettere la copia autenticata dell’accordo all’Ufficiale dello Stato Civile del Comune in cui il matrimonio fu iscritto o trascritto. Se non ci sono figli minorenni, incapaci o portatori di handicap gravi, occorrerà poi ottenere il nullaosta del Pubblico Ministero (ma non è previsto un termine entro il quale il nullaosta deve essere richiesto). Se invece ci sono figli minorenni, incapaci o portatori di handicap gravi, l’accordo deve essere trasmesso entro e non oltre 10 giorni al Pubblico Ministero, il quale potrà rilasciare la necessaria autorizzazione oppure, entro 5 giorni, ritrasmettere lo stesso accordo al Presidente del Tribunale, affinché si ordini la comparizione degli ex-coniugi. (Il procedimento relativo al rilascio da parte del Procuratore della Repubblica del nulla osta o dell’autorizzazione è esente dal contributo unificato di iscrizione a ruolo dovuto per ciascun grado di giudizio su richiesta di attività giurisdizionali delle parti interessate. Allo stesso modo è esente il procedimento davanti al Presidente del Tribunale).
In alternativa, qualora non vi siano patti di trasferimento patrimoniale (ossia trasferimenti di beni immobili, mobili o somme di denaro non crea problemi, invece, la previsione, nell’accordo concluso davanti all’ufficiale dello stato civile, di un obbligo di pagamento di una somma di denaro a titolo di assegno periodico) e/o non vi siano figli in comune che siano minori o incapaci o portatori di handicap gravi o anche solo non autosufficienti dal punto di vista economico, il D.L. 132/2014 prevede addirittura la possibilità di divorziare innanzi al Sindaco quale Ufficiale di Stato Civile, senza necessità di assistenza legale da parte di un avvocato (che rimane facoltativa).

In tutti gli altri casi, ci si dovrà necessariamente rivolgere al Giudice, con il cd. “divorzio giudiziale” o “a domanda congiunta”.

 Divorzio giudizialeTorna su

Lo scioglimento del vincolo matrimoniale può essere richiesto da uno dei coniugi, anche se l’altro coniuge non è d’accordo.
Il procedimento cd. in contenzioso (per la mancanza di accordo dei coniugi) si svolge innanzi al Presidente del Tribunale del luogo in cui il secondo coniuge ha la propria residenza o il proprio domicilio; nel caso in cui il secondo coniuge sia residente all’estero o risulti irreperibile, la domanda di divorzio si presenta al Tribunale del luogo di residenza o di domicilio del coniuge richiedente.
Nel ricorso si deve aver cura di indicare l’esistenza di figli di entrambi i coniugi.
Se il coniuge richiedente è residente all’estero, è competente qualunque Tribunale.
Ciascun coniuge deve essere assistito dal proprio difensore.
Come previsto dalla Legge sul Divorzio, alla prima udienza il Presidente del Tribunale tenta la conciliazione e accerta che la comunione spirituale e materiale tra i coniugi non possa essere mantenuta o ricostituita. Il Presidente emana quindi un’ordinanza con i provvedimenti temporanei e urgenti necessari per regolamentare gli aspetti patrimoniali e che interessano i figli nella pendenza del procedimento. Il Presidente nomina un Giudice Istruttore e fissa la data della relativa udienza innanzi a quest’ultimo. Il procedimento prosegue poi come un processo ordinario, con la fissazione di altre udienze. Se il procedimento comporta una lunga fase istruttoria, vale a dire un lungo periodo di acquisizione delle prove (testimoni, perizie, ecc.), il Tribunale emana una sentenza provvisoria, che intanto consenta ai coniugi di riottenere lo stato libero.

Divorzio a domanda congiuntaTorna su

Lo scioglimento del vincolo matrimoniale può essere richiesto da entrambi i coniugi. Come nel divorzio in contenzioso, anche in questo caso i coniugi devono stare in giudizio assistiti da un difensore che, tuttavia, può essere unico per entrambi.
Il procedimento si svolge innanzi al Tribunale in camera di consiglio, ossia con una procedura molto più snella del divorzio in contenzioso.
In questo caso tutto si esaurisce in una sola udienza innanzi al Tribunale in camera di consiglio: l’udienza è fissata dal Presidente del Tribunale dopo aver letto il ricorso. All’udienza il Tribunale tenta la conciliazione e accerta che la comunione spirituale e materiale tra i coniugi non può più essere mantenuta o ricostituita. Quindi il Tribunale verifica la sussistenza dei presupposti richiesti dalla Legge sul Divorzio ed emette la sentenza di scioglimento del vincolo matrimoniale (o di cessazione degli effetti civili, in caso di matrimonio concordatario).
L’iter del divorzio a domanda congiunta è quindi più veloce e più semplice dell’iter del divorzio giudiziale.

L’annotazione della sentenza di divorzio nel Registro di Stato CivileTorna su

Sia che venga emessa al termine di un procedimento in contenzioso, sia che venga emessa alla fine di un procedimento “a domanda congiunta”, la sentenza di divorzio viene trasmessa all’Ufficiale di Stato Civile per l’annotazione nel Registro dello Stato Civile del luogo in cui fu trascritto il matrimonio.

Effetti del divorzioTorna su

La sentenza di divorzio produce i seguenti effetti:

  1. in caso di matrimonio civile, si ha lo scioglimento del vincolo matrimoniale; in caso di matrimonio religioso, si verifica la cessazione degli effetti civili (permane, invece, il vincolo indissolubile sul piano del sacramento religioso);
  2. la moglie perde il cognome del marito che aveva aggiunto al proprio dopo il matrimonio (ma può mantenerlo se ne fa espressa richiesta e il Giudice riconosce la sussistenza di un interesse della donna o dei figli meritevole di tutela);
  3. fintantoché il coniuge economicamente meno abbiente non passi a nuove nozze, il Giudice può disporre che l’altro coniuge sia tenuto a corrispondere un assegno periodico (detto “assegno divorzile”): l’importo è quantificato in base alle condizioni e ai redditi di entrambi i coniugi, anche in rapporto alla durata del matrimonio (vedi scheda sulla modificazione delle condizioni di divorzio);
  4. viene decisa la destinazione della casa coniugale e degli altri beni di proprietà;
  5. i figli minorenni vengono affidati a uno dei coniugi, con obbligo per l’altro di versare un assegno di mantenimento della prole, o a entrambi congiuntamente (cd. “affidamento condiviso”), nel rispetto di quanto previsto anche dagli artt. da 337-bis a 337-octies cod. civ. (così come introdotti dal D.Lgs. 154/2013 in materia di filiazione);
  6. ciascuno dei coniugi perde i diritti successori nei confronti dell’altro;
  7. se la sentenza di divorzio aveva a suo tempo riconosciuto a un coniuge il diritto all’assegno di mantenimento, tale coniuge ha diritto anche alla pensione di reversibilitàdell’ex coniuge defunto (o a una sua quota), a condizione che nel frattempo il coniuge superstite non si sia risposato.

In ogni caso, se uno dei coniugi matura il diritto al trattamento di fine rapporto (TFR) prima che sia pronunciata la sentenza di divorzio, l’altro coniuge ha diritto a una parte di tale importo.

Da martedì 26 maggio è  più facile dirsi addio. Entrano infatti in vigore le nuove norme sul divorzio breve, grazie alla riforma approvata dal Parlamento lo scorso 22 aprile e poi pubblicata in Gazzetta ufficiale il 6 maggio. Non saranno più necessari tre anni per dirsi addio, come previsto dalla riforma della legge Fortuna-Baslini, ma solo 6 mesi, se la separazione è consensuale, o al massimo un anno se si decide di ricorrere al giudice.

E le nuove procedure possono valere anche chi ha una causa di divorzio già in corso. Secondo alcune stime, sarebbero circa 200 mila i procedimenti pendenti che potrebbero dunque approfittare di regole più veloci.

Le novità

Numerose le novita introdotte dalla nuova legge. I tempi, innanzitutto. Fino a oggi lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio poteva essere chiesto da uno dei coniugi non prima di tre anni di separazione. Con il divorzio breve il termine scende a 12 mesi per la separazione giudiziale e a 6 mesi per quella consensuale, indipendentemente dalla presenza o meno di figli.

Novità, poi, sulla comunione dei beni, che si scioglie quando il giudice autorizza i coniugi a vivere separati o al momento di sottoscrivere la separazione consensuale; prima si realizzava solo con il passaggio in giudicato della sentenza di separazione. Non è stato affatto facile arrivare a questo punto.

Un lungo percorso

E pensare che nel 1800 il Codice di Napoleone già consentiva di sciogliere i matrimoni civili, (ma serviva il consenso dei genitori e dei nonni). Ma con l’Italia unita, il divorzio rimase un tabù. Nel 1902 non fu approvata una direttiva del governo Zanardelli che prevedeva il divorzio solo in caso di adulterio, lesioni al coniuge, condanne gravi. Bisogna così arrivare alla seconda metà degli anni Sessanta per l’avvio della battaglia in nome del divorzio: con il progetto di legge del socialista Loris Fortuna, le manifestazioni dei radicali, la Lega italiana per l’istituzione del divorzio. E così si arriva alla svolta, al dicembre 1970 quando radicali, socialisti, comunisti, liberali e repubblicani approvarono la legge; contrari la Dc e il Msi. Ma anche allora la strada fu tortuosa. L’Italia cattolica, antidivorzista, chiese il referendum: il 12 maggio 1974, l’87,7% degli italiani ando’ al voto per scegliere se abrogare o meno la legge Fortuna-Baslini; grazie a quasi il 60% dei no, restò in vigore. Arriva, poi, la prima forma di divorzio breve, con la riforma nel 1987 e con i tempi del divorzio che passano dai 5 ai 3 anni. Il 22 aprile l’ulteriore grande passo, in attesa del divorzio immediato, stralciato dal Ddl, e del riconoscimento degli altri diritti civili che l’Italia ancora aspetta. (ANSA).

Lo scorso 22 aprile la Camera dei deputati ha approvato in via definitiva il testo in materia di modifica delle norme riguardanti lo scioglimento del matrimonio (cessazione dei suoi effetti civili nel caso di matrimonio religioso). L’effetto più incisivo del provvedimento è che il periodo intercorrente dalla separazione personale affinché si possa chiedere il divorzio non è più di tre anni dalla comparizione dei coniugi davanti al Presidente del Tribunale per il giudizio di separazione, ma di dodici mesi: circostanza, questa, che accorcia ulteriormente i tempi, dal momento che fra il deposito del ricorso per separazione e detta udienza di comparizione intercorrono diversi giorni.

Il termine scende a sei mesi nel caso di separazione consensuale e in tal caso decorre dalla comparizione dei coniugi avanti al Presidente dove viene firmato il verbale di separazione che verrà omologato dal Tribunale; la separazione di fatto (ossia non sancita dal Tribunale), invece, non rileva ai fini del termine utile per ottenere lo scioglimento del matrimonio o la cessazione dei suoi effetti civili.

La legge è intervenuta anche a mettere ordine, con una tempestività da più parti invocata, ai rapporti economici fra moglie e marito; stabilisce infatti che, nel caso di separazione personale, la comunione dei beni tra i coniugi si scioglierà nel momento in cui, in sede di udienza presidenziale, il Presidente del Tribunale li autorizzerà a vivere separati, o dalla data di sottoscrizione del verbale di separazione consensuale dei coniugi dinanzi al presidente, purché omologato. Prima che intervenisse la novella, invece, la comunione legale si scioglieva soltanto con il passaggio in giudicato della sentenza di separazione; sentenza che, nei casi di separazioni giudiziali particolarmente tormentate, poteva intervenire anche molto tempo dopo che i coniugi vivevano separati, con l’anomala conseguenza che tutti i beni acquisiti dai coniugi continuavano a ricadere in comunione pur essendo venuta meno la loro convivenza ed essendosi quindi distinte le posizioni personali anche in ordine alla gestione della propria esistenza.

In particolare, se i coniugi sono in regime di comunione legale la domanda di separazione è comunicata all’ufficiale dello stato civile ai fini dell’annotazione a margine dell’atto di matrimonio, come pure viene comunicata allo stesso ufficiale, per la stessa incombenza, l’ordinanza presidenziale con la quale i coniugi sono autorizzati a vivere separati. La domanda di divisione della comunione legale tra i coniugi può essere introdotta non unitamente alla domanda di separazione o di divorzio, ma in separato giudizio. La ragione è che il procedimento di separazione è un procedimento speciale che si introduce con un ricorso e la divisione è un procedimento ordinario che si introduce con atto di citazione.

 

La riduzione del termine si applica anche alle domande di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio pendenti all’entrata in vigore della legge. Vero è che il procedimento di separazione costituisce il presupposto della domanda di divorzio procedibile solo dopo l’emissione della sentenza parziale che decide sullo status. La legge contiene anche due norme di diritto processuale. In particolare, l’art. 1 stabilisce che, se alla data d’instaurazione del giudizio di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio è ancora pendente il giudizio di separazione relativamente alle domande accessorie, la causa venga assegnata al giudice della separazione personale. L’art. 2, a sua volta, contiene una norma integrativa del secondo comma dell’art. 189 disp. att. c.p.c.; la novella, infatti, stabilisce che l’ordinanza con la quale il Presidente del Tribunale o il giudice istruttore emette i provvedimenti temporanei e urgenti che reputa opportuni nell’interesse della prole e dei coniugi (ordinanza che costituisce titolo esecutivo), conserva la sua efficacia fino a quando non venga sostituita con altro provvedimento emesso dal Presidente del Tribunale o dal giudice istruttore a seguito di nuova presentazione del ricorso per la cessazione degli effetti civili o per lo scioglimento del matrimonio.

Nel nostro sistema giuridico, come si ricorderà, è stato difficile introdurre il divorzio dal momento che la Chiesa Cattolica ritieneil matrimonio indissolubile e, secondo il Concordato con lo Stato Italiano, mantiene la sua giurisdizione per la nullità del matrimonio celebrato in Chiesa.
Lo Stato Italiano, con la famosa legge n. 898/1970 (modificata nel 1987, ed anche recen temente dal punto di vista processuale), non parla di divorzio, ma di scioglimento del matrimonio civile, cioè quello celebrato solo in Comune e di cessazione degli effetti civili, per il matrimonio celebrato in Chiesa, secondo il Concordato. E configura questo istituto come “rimedio” alla impossibilità di proseguire la convivenza coniugale. La stessa legge stabilisce quando, non più possibile la convivenza, può essere chiesto lo scioglimento del vincolo matrimoniale: prevede la possibilità di pronuncia immediata in determinati casi: condanna penale di uno dei coniugi per grave reato contro l’altro coniugi o i figli, inconsumazione, divorzio ottenuto all’estero dal coniuge straniero, cambiamento di sesso, ovvero, e questa è la stragrande maggioranza, quando i coniugi vivono separati legalmente da almeno tre anni.
Si sa bene, ma giova ripeterlo, che con la separazione legale (consensuale o giudiziale), si interrompe la convivenza, ma si resta marito e moglie. Fino a che non c’è la sentenza di divorzio, i coniugi separati possono riconciliarsi in quanto riprendono, nella pienezza, la convivenza matrimoniale, con un comportamento di fatto, spontaneo, che non deve essere autorizzato da nessuno, tanto meno dal giudice.
Trascorsi tre anni di ininterrotta separazione, ciascuno dei coniugi potrà chiedere il divorzio e l’altro non ha ragioni giuridiche per opporsi: il giudice del divorzio può solo accertare, su precisa domanda di parte, se la separazione è stata interrotta da riconciliazione o meno.
Col divorzio, il cosiddetto coniuge “più debole”, che generalmente è la moglie, ma non è detto… può chiedere l’assegno di divorzio che può essere concesso se ricorrono determinate condizioni stabilite dall’art. 5 della legge stessa:
“Con la sentenza (di divorzio), il Tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi, anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno, quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”.
Ne consegue che l’assegno di divorzio va chiesto, e devono sussistere le condizioni perché il Tribunale lo conceda.
La giurisprudenza (ossia le sentenze dei giudici) si è esercitata per stabilire quando va dato l’assegno e come decidere del suo ammontare.
1) L’assegno di divorzio è indipendente dall’accordo di separazione. Cioè, il Giudice del divorzio non dovrebbe essere condizionato da quello che è stato deciso in sede di separazione: ma quello stabilito in separazione può essere … una sorta di “indizio”. In via di fatto, se in sede di separazione non è stato stabilito un assegno per la moglie e la moglie si è mantenuta da sola negli anni di separazione, dovrà dimostrare rigorosamente il fondamento del suo diritto.
2) L’assegno di divorzio ha una “funzione” eminentemente assistenziale. Come dire che il coniuge può vedersi riconoscere un assegno solo se si trova in condizioni economiche tali da averne bisogno.
3) Il “bisogno” non vuol dire stato di indigenza assoluta, ma mancanza dei mezzi necessari a mantenere il “tenore di vita” che si aveva nel corso del matrimonio. Dal che deriva che possono ottenere l’assegno di divorzio anche quelle donne che pur avendo mezzi per sopravvivere, non possono, tuttavia, mantenere il tenore di vita che avevano durante il matrimonio per via delle risorse del marito: belle case, servitù, gioielli e vestiti di firma, viaggi e vacanze, ricevimenti, ecc. ecc.. Però bisogna anche che il coniuge obbligato, il marito, continui ad avere tali risorse.
4) Quando sussistono le condizioni sopra dette, il giudice che intende attribuire al coniuge economicamente più debole, l’assegno di divorzio, potrà tuttavia ridurlo, sino ad azzerarlo, in relazione:
– “al contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ciascuno e a quello comune”;
– al reddito personale
– alla durata del matrimonio.
Non esistono “tabelle” fissate dalla legge che stabiliscano l’ammontare dell’assegno di mantenimento per moglie e figli ed, in particolare, per l’assegno di divorzio. Alcuni tribunali si sono dati dei criteri di liquidazione. Particolarmente noto è quello indicato dal tribunale di Monza (cfr. www.Altalex.com). L’assegno viene comunque stabilito sulla base delle risorse reddituali e patrimoniali delle parti e la legge concede al giudice potere discrezionale.
Per completare il quadro, solo se c’è l’assegno di divorzio:
– il coniuge divorziato potrà ottenere il 40% del TFR, che spetta al coniuge obbligato, in caso di cessazione del proprio rapporto di lavoro subordinato, per gli anni in cui il matrimonio (fino alla pronuncia di divorzio), è coinciso con il rapporto di lavoro. Si ricordi, il TFR non spetta pro quota al coniuge, se percepito durante la separazione.
– al coniuge divorziato spetta la pensione di reversibilità dell’altro coniuge. Ma bisogna chiederla con una causa, e verrà divisa tra i coniugi superstiti.
Da ultimo, la legge del divorzio permette ai coniugi di CONCORDARE che uno versi all’altro una certa somma a tacitazione definitiva di ogni possibile pretesa economica. È la cosiddetta devoluzione “una tantum”. Il tribunale dovrebbe valutare che la somma sia equa, in genere, si limita a ratificare l’accordo, dal momento che anche in questo caso, non ci sono tabelle e non è prevista una istruttoria sulla congruità davanti al Tribunale.
Tenuto conto, come dicevamo, che la maggior parte della cause di divorzio in Italia, viene promossa quando vi è stata separazione ininterrotta per almeno tre anni, è logico che sia il momento della separazione quello in cui bisogna organizzarsi per la vita separata: come distribuire i compiti di accudimento dei figli, quale dei due deve andarsene dalla casa coniugale, quali le risorse per poter vivere separatamente.
E questo va detto soprattutto per le donne che solitamente si devono maggiormente occupare della crescita dei figli dedicandosi a loro, con minori possibilità di guadagnare.
Spesso, troppo spesso, avviene che nel momento della separazione, sulla spinta emotiva, le donne non riescano a valutare tutte le difficoltà cui vanno incontro, pur di interrompere una convivenza dolorosa.
Quando arriva la richiesta di divorzio, sono passati almeno tre anni dalla separazione e non ci si può opporre, salvo che non ci sia stata nel frattempo la riconciliazione.
Capita che nel momento del divorzio le donne si pentano di aver accettato la separazione a condizioni inique. O comunque avviene che abbiano subito la negatività del comportamento del coniuge verso di loro e verso i figli: situazioni che hanno “rovinato” la loro esistenza.
Ebbene, si assiste, in giurisprudenza, ad un lento cammino che espande il riconoscimento del danno risarcibile, nella fattispecie di “danno esistenziale”, con attenzione anche verso i temi della famiglia (legami parentali; potestà dei genitori; vincoli di solidarietà familiare).

La famiglia nasce come oasi di sicurezza e di pace. Ma può custodire segreti di prevaricazione e di violenza: molto più spesso di quanto non si creda.

Il fenomeno è diventato oggi socialmente visibile perché la famiglia non é più improntata su un modello gerarchico e le donne di oggi (che hanno raggiunto la parità di diritti), non sono più educate a subire la subalternità e si sono ribellate alla violenza. Hanno messo in campo servizi, soprattutto di volontariato: centri di accoglienza, gruppi di auto-aiuto, spazi di ascolto, assistenza legale.

Il fenomeno è, così, diventato di dominio pubblico.

Sul piano sociologico, la violenza intra-familiare appare ancora oggi soprattutto maschile. Origina dalla convinzione del maschio di poter dominare con la forza. Può derivare da un atavico condizionamento culturale, ed altrettanto condizionate possono essere le donne, quando accettano un ruolo passivo e vittimistico e diventano al tempo stesso complici e “parte lesa”.

Certo è che, come si legge sulla cronaca dei giornali, la spirale di violenza in famiglia può raggiungere livelli aberranti e letali.

Senza trascurare che, se la violenza fisica è più facilmente riconoscibile, è ancora difficile portare alla luce la violenza morale che, nei rapporti familiari, si manifesta subdola, con conseguenze devastanti.

Come contrastare la violenza in famiglia?

Vogliamo qui riparlare della legge n.154/2001, che avevano illustrato in un precedente articolo, per ricordare che questa legge predispone a favore della persona maltrattata uno strumento semplice ed accessibile: l’allontanamento immediato dalla casa del maltrattante.

Prima di questa legge, era difficile sottrarsi alla violenza. Le donne che subivano, dovevano “scappare”: rivolgersi ai centri antiviolenza, trovare rifugio da qualche parte, portare con sé i figli, sradicandoli dalle loro abitudini. Anche se denunciavano il reato commesso in loro danno, potevano non essere applicabili le misure cautelari previste dal codice.

Questa legge attribuisce al giudice il potere di comminare una misura cautelare specifica a carico di chi commette violenza in famiglia, allontanadolo immediatamente dalla casa.

E le pubbliche amministrazioni (che fanno sempre fatica a dedicare capitoli di spesa al finanziamento di strutture e comunità destinate all’accoglienza delle persone maltrattate e dei loro figli minori), con quanto risparmiano, potrebbero meglio informare dell’esistenza di questa legge.

Ricordiamo a chi ci legge che il potere di allontanamento compete al giudice:

Al giudice penale, in pendenza del procedimento; e, su richiesta del P.M., lo stesso giudice penale può ingiungere il pagamento periodico di un assegno a favore delle persone conviventi che, per effetto della misura cautelare disposta, rimangano prive di mezzi adeguati. Ed è’ prevista anche la possibilità che l’assegno debba essere versato direttamente al beneficiario dal datore di lavoro dell’imputato.

Ma compete anche al giudice civile, senza che sia necessario fare denuncia penale, quando la condotta del coniuge o del convivente sia “causa di grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà”

Il giudice civile:

– ordina a chi commette violenza la cessazione della condotta;

– dispone l’allontanamento dalla casa familiare;

– richiede l’intervento dei servizi sociali del territorio o dei centri di mediazione familiare;

– impone al maltrattante il pagamento dell’assegno quando, per effetto del provvedimento medesimo, manchino al famigliare mezzi adeguati.

Chi non osserva l¹ordine di protezione emesso nei suoi confronti commette il reato previsto e punito dell’art. 388 del codice penale (“Mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice”: reato perseguibile a querela di parte, per il quale è comminata una pena fino a tre anni di reclusione, in alternativa con la multa).

Chiaramente, al giudice bisognerà offrire la prova (documentale e/o testimoniale), perché possa accertare la sussistenza dei maltrattamenti e del grave pregiudizio, ed emettere il provvedimento.

Una raccomandazione alle persone maltrattate: non accettate di subire violenza. Questa legge è dalla vostra parte.

L¹allontanamento della persona maltrattante evita alla vittima, e agli altri componenti della famiglia, il trauma ulteriore di dover abbandonare la casa e i luoghi abituali, per fuggire dalla violenza. La famiglia, per quanto possibile, resta unita nel luogo dove ha i suoi interessi e le sue relazioni: lavoro, scuola, amici.

Il contrasto alla violenza, e particolarmente a quella commessa in famiglia sulle donne, sui minori, sulle persone deboli, è il un passaggio indispensabile per una diffusa educazione di pace.

Nella società moderna emerge sempre di più sensibilità verso i bisogni del bambino, nella consapevolezza che nell’infanzia si determinano le strutture della personalità.
Non basta che i genitori abbiano un rapporto affettivo intenso con i loro figli, devono essere capaci di farli crescere armoniosamente: ai genitori è richiesto un dovere di comprensione e di competenza per quelli che sono le particolari necessità dei bambini. Una nuova visione dell’infanzia che si sviluppa sulla spinta delle istanze delle donne di “parità di diritti” e di “autoderminazione” nella scelta della maternità, contrastando il potere patriarcale. La famiglia non è più “un’isola che il diritto lambisce”, come diceva un insigne giurista (governata dal padre), ma si è sviluppato nel diritto moderno, in ambito amministrativo, civile e penale un sempre più ampio intervento dello Stato nella famiglia a protezione dei diritti dei più deboli: i bambini e le donne.

Accanto al tradizionale diritto di famiglia, che regola il matrimonio, la filiazione e gli aspetti economici della convivenza familiare, è sorto un nuovo diritto, il “diritto minorile”.

Il cardine è rappresentato dal’ “interesse del fanciullo”, come recitano le convenzioni internazionali: ogni decisione degli adulti che riguarda il bambino o l’adolescente, deve essere ispirata dalla realizzazione del suo “benessere”, indirizzata alla sua crescita armonica.

Anche per la legge italiana, proteggere l’ “interesse del minore” vuol dire assicurare alla persona bambino, comunque nato, legittimo o illegittimo, una serie di diritti personali/relazionali, che colgono la dimensione affettiva ed educativa dei diritti della personalità.

Sono i genitori, innanzitutto che devono realizzare l’ “interesse del minore”.

Il codice civile dice che è obbligo dei genitori “mantenere istruire ed educare la prole, tenendo conto delle capacità, delle inclinazioni naturali, delle aspirazioni dei figli” (art. 147).

Quindi, il bambino ha diritto a genitori che lo accolgano quando nasce e lo amino, che lo accudiscano e tutelino la sua crescita, che lo mantengano e gli diano una istruzione per avviarlo all’autonomia.

Non è più necessario, per la legge, che la famiglia del minore sia quella legittima, fondata sul matrimonio. I genitori naturali hanno verso il figlio gli stessi obblighi stabiliti per i genitori legittimi. O meglio, ogni genitore deve accudire il suo bambino, non importa se è sposato o meno.

E se un bambino è abbandonato, maltrattato o trascurato dai suoi genitori, è la legge che stabilisce come e chi deve occuparsi di lui. La Costituzione dice che lo Stato deve provvedere a che i compiti genitoriali siano assolti (art. 30)

E’ lo Stato, quindi, che ha il compito di controllare che si realizzi il diritto della persona bambino a crescere armoniosamente, intervenendo a protezione del minore, con i suoi i suoi organi amministrativi (servizi sociali) ovvero giudiziari (giudici), quando questo diritto viene violato.

I “servizi sociali” che si occupano dei minori, che lo Stato Italiano ha organizzato e riorganizzato con le varie riforme dell’assistenza e della sanità (quei servizi che, una volta, si occupavano solo di aiuto ai bisognosi, in concorso con le organizzazione di assistenza e beneficienza), hanno allargato la loro sfera di influenza. Hanno assunto una funzione complessa che comprende non solo il sostegno materiale, ma allarga le sue competenze verso la comprensione dei bisogni psicologici e relazionali del minore nel contesto in cui vive, intervenendo adeguatamente se è pregiudicata la sua crescita.

E i servizi sociali dovrebbero avere la capacità di individuare, nella complessità dei rapporti sociali, ove convivono culture differenti, sacche di emarginazione e di povertà, innanzitutto le risorse e le solidarietà che si possono attivare nell’ambito familiare e nel contesto in cui vive il minore, segnalando al Tribunale se vi sono pregiudizi alla crescita del bambino così gravi da dover prendere provvedimenti nei confronti di genitori inadeguati.

Certo è che agli operatori sociali si richiedono elevatissime capacità professionali, oltre che adeguate risorse.

E’ vero che è solo il giudice a decidere i provvedimenti che devono essere presi, ma è anche vero che sono i servizi che forniscono gli elementi di fatto su cui si fonda il convincimento del Giudice.

Con la conseguenza che i servizi sociali sono sempre meno il riferimento di “aiuto” per i genitori e per i bambini che si trovano in difficoltà, ma assumono sempre di più la funzione di dare al Giudice la diagnosi, la prognosi, ed il “progetto” che ritengono utili a favore del minore: genitori e figli rischiano di trovarsi “oggetto” di un procedimento che viene discusso tra giudice e servizi, sulla loro pelle.

Senza dire che un altro compito dei servizi, può essere quello di mettere in esecuzione il provvedimento del giudice, per esempio, di allontamento del bambino dai genitori.

E’ questa complessità dell’operare dei servizi che spaventa.

Capita che la stampa e i mass media diano risonanza a casi in cui servizi sociali e giudici minorili portano via i bambini dai loro genitori.

Purtroppo, la superficialità di certe notizie non dà conto della complessità di certe situazioni.

La società civile deve adoprarsi innanzitutto perché i genitori siano informati e consapevoli dei loro importanti obblighi materiali morali ed educativi verso i figli; che i servizi abbiano le risorse e le professionalità per adempire ai loro compiti tanto complessi quanto delicati, ma anche che il “processo” che tutela l’interesse dei minori davanti al Giudice si svolga con adeguati strumenti di garanzia di tutela sia dei diritti dei bambini che dei diritti dei genitori.

Ma il nostro legislatore è in altre faccende affaccendato.

La legge che dovrebbe garantire il giusto processo minorile risale al 2001, continua ad essere prorogata nella sua entrata in vigore, perché mancano le risorse economiche. Mentre molte, troppe, le risorse vengono sprecate per interventi parcellizzati e disorganizzati, a pioggia, dietro pressioni contingenti.

Il legislatore italiano continua ad intervenire nel sistema giuridico del nostro Paese in modo del tutto asistematico e disorganico utilizzando leggi e leggine senza porsi il problema che la forza di un ordinamento giuridico sta nella sistematicità delle regole del processo per la tutela dei diritti.
Particolarmente in materia di famiglia, e specificamente riguardo ai FIGLI, anche se uno dei capisaldi della riforma del 1975 è stato la pur imperfetta equiparazione della situazione dei figli naturali a quella dei figli legittimi, cercando di tutelare l’ “interesse del minore”, comunque sia nato (dal matrimonio o senza matrimonio), tuttavia è sempre rimasta senza soluzione la elaborazione di un processo unitario per le crisi familiari. Sono rimaste concorrenti le competenze del Tribunale Ordinario, quella del Tribunale per i Minorenni, del Giudice Tutelare e del Presidente del Tribunale, articolate in differenti “riti” Collegio, Giudice Unico, Camera di consiglio e così via…
La miopia del legislatore continua sull’onda di pressioni disparate, che fanno proliferare leggi speciali e novelle dei codici, per tutelare interessi di questo o quello con mezzi e strumenti per farsi sentire.
Non fa eccezione la nuova legge sull’affidamento condiviso (L. 8 febbraio 2006 n. 54): all’art. 1, modifica il codice civile (art. 155: aggiungendo gli articoli 155 bis, tre, quater, quinques, sexies); all’art. 2, modifica il codice di procedura civile (art. 708, inserendo l’art. 709 bis); all’art. 3 detta “Disposizioni penali”, richiamando l’art. 12 sexies della legge sul divorzio (reato ex art. 570 del codice penale, per la violazione degli obblighi di natura economica); all’art. 4 detta “Disposizioni finali”; e chiude con l’art. 5, per significare che dalla legge non derivano nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.
Riguardo ai principi sostanziali, la legge, fermamente voluta dalle associazioni dei padri separati, stabilisce quello della “bigenitorialità”. Vale a dire: anche se i genitori non convivono più, il minore “ha diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere cura, educazione ed istruzione da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale” (art. 1)
Chi non è d¹accordo con questo principio?!
Probabilmente non c’era bisogno di una legge, dal momento che la cosiddetta “bigenitorialità” è acquisita nella giurisprudenza minorile.
D’altra parte, il rapporto madre/figlio, determinato dalla gravidanza, dall¹allattamento, dal primo apprendimento nel rapporto simbiotico con la madre, è asimmetrico rispetto al ruolo paterno, ed é improbabile che una “legge” possa stabilire una “eguaglianza”², senza tener conto della differente situazione biologica. Tanto è vero che, al di là delle pressioni delle associazioni dei padri separati, particolarmente quando i bambini sono molto piccoli, sono proprio i padri che li affidano tranquillamente alla madre (oltre il 90%, nelle separazioni consensuali).
Il problema non è l’affermazione astratta della “bigenitorialità”, ma l’attuazione nel concreto. E, si è detto in molte occasioni, non si può andare con i carabinieri a imporre ai genitori di comunicare correttamente tra loro. Semmai possono essere usati strumenti psicologici, come la mediazione familiare, per condurre i genitori che si separano ad affrontare il proprio trauma personale nel rapporto con l’altro, evitando pericolose strumentalizzazione dei figli.
Ma la legge affida al giudice la sentenza, che potrà essere una pronuncia di difficile esecuzione, se non ci sono le premesse di una corretta comunicazione tra i genitori nell¹interesse del figlio ed un equilibrio anche di supporto economico.
E, così capita di sentire padri che brandiscono l’affido condiviso come una clava: Dicono: “³Io non vado in mediazione: la pazza sei tu, che ti vuoi separare.” Minacciano: “Adesso che c’è l’affido condiviso ti farò vedere se ti devo dare l’assegno….”; Sostengono: “Ti faro vedere come controllo io il bambino;” Oppure, “Il bambino lo porto da mia madre…”, moltiplicando il contenzioso al quale attribuiscono aspettative rivendicative, proprio quando le madri che lavorano, invece, si aspettano dall’affido condiviso maggiore collaborazione nell’educazione dei figli.
Per la verità, le prime sentenze applicative della legge, appaiono abbastanza “ragionevoli”. Rielaborando concetti già consolidati, siccome la vita quotidiana del bambino non può essere sballottata dagli umori di contesa, alla pronuncia di affido condiviso si accompagna il “collocamento” del minore nella casa di uno dei due genitori: il più idoneo, ad avviso del Tribunale, che continua ad essere la madre, regolando più i meno minuziosamente, a seconda delle necessità e delle risultanze di causa, il rapporto del figlio con l’altro genitore.
Ma questa legge, con una piccola frase inserita nell¹art 4: “disposizioni finali” ha sollevato anche un grosso problema che riguarda la competenza nel caso di genitori naturali che si separano, laddove è detto: “Le disposizioni della presente legge di applicano anche in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati”.
Nonostante le lacune processuali della riforma del diritto di famiglia, si era consolidata la competenza del Tribunale per i Minorenni per l’affidamento dei figli naturali, mentre è del Tribunale Ordinario la pronuncia sull’affidamento ed il mantenimento dei figli, in occasione dei procedimenti di separazione e di divorzio, ed è sempre del Tribunale ordinario la competenza per fissare il mantenimento per i figli naturali.
La nuova legge, sul punto, chiaramente lacunosa e tecnicamente imprecisa, non ha concentrato la competenza a decidere sull¹affidamento e sui profili economici per tutti i figli (naturali o legittimi, cioè nati dal matrimonio), ma ha portato ulteriore confusione.
Così, alcuni Tribunali per i Minorenni declinano la loro competenza sull’affidamento dei figli naturali, ritenendo competente il Tribunale Ordinario. Invece i Tribunali Ordinari ritengono che rimanga, per l’affidamento dei figli naturali, la competenza del tribunale per i minorenni.
Dovrà decidere, sul conflitto di competenza, la Corte di Cassazione.
Nel frattempo, siccome non possiamo dire ai figli minorenni di aspettare a crescere mentre i Tribunali decidono, raccomandiamo ai genitori, legittimi o naturali, di essere saggi e di trovare altri strumenti per risolvere i loro propri conflitti e dedicarsi a crescere serenamente i loro figli, nella convivenza o nella separazione.

A fine agosto le banche hanno fatto i conti per attuare la convenzione stipulata da ABI (Associazione Bancaria Italiana) ed il MEF (Ministero dell’economia e delle finanze), riguardo alla cosiddetta rimodulazione dei mutui a tasso variabile.
Migliaia di famiglie italiane che hanno in corso un mutuo a tasso variabile si trovano a dover fare due conti, e non semplici, per decidere se aderire o meno alla proposta che le banche hanno loro inviato.

Infatti, in forza a quanto stabilito dall’articolo 3 del decreto-legge 27 maggio 2008, n. 93, entrato in vigore il 29 maggio 2008, detto anche decreto di “rinegoziazione imposta” o “Tremonti” le poste italiane fanno gli straordinari per recapitare un notevole numero di lettere fresche, fresche di stampa.

Secondo la convenzione ABI-MEF, entro il 29 agosto 2008, le banche devono spedire ai loro clienti che hanno aperto un mutuo (finalizzato all’acquisto, ristrutturazione o costruzione dell’abitazione principale, a tasso variabile anteriormente al 29 maggio 2008) una proposta di rinegoziazione per riportare il valore della rata ai livelli del 2006:
Ma come è concepita la proposta?
Ovviamente, allungando i termini di rimborso del mutuo, spalmando il debito su più anni.

Per capire, di quanti anni e come funziona il meccanismo di calcolo, occorre entrare nel dettaglio di ogni singola situazione.
Le banche, ovviamente, non ci perdono nulla.
Offrono una proposta di rinegoziazione del mutuo basata sui valori correnti degli indici di interesse (IRS), apprestando, nel contempo, un nuovo piano di ammortamento, con una opportunità interessante (dal punto di vista delle banche) di poter gestire meglio il problema oggettivo e potenziale di attrito con la clientela per il ricaro delle rate; così evitano di dover spiegare al cliente come mai avevano consigliato di accendere un mutuo a tasso variabile, quando i tassi gravitavano a livelli minimi storici.
Offrire una rata più bassa è la faccia positiva ed accattivante della medaglia, perchè immediatamente si rende al cliente meglio sostenibile l’onere della rata troppo aumentata a causa del generale rialzo dei tassi, mentre l’altra faccia della medaglia, l’allungamento dei tempi del mutuo, è tutta da valutare, anzi da calcolare.

Sono proposte convenienti, da accettare. si stanno chiedendo in molti?
In generale sono proposte complessivamente più onerose, come si legge in una delle lettera che è stata pubblicata sulla stampa. La stessa banca ammette che, “in generale, la ristrutturazione comporta verosimilmente un esborso complessivo maggiore di quello che il mutuatario sosterrebbe continuando a rimborsare il mutuo secondo il piano di rimborso ad oggi in vigore”.

La scelta che spetta a chi deve pagare il mutuo deve attentamente essere ponderata.

Chi si trova, poco o tanto, alle strette con le rate deve analizzare ogni dettaglio della proposta verificarla a seconda delle proprie disponibilità ed esigenze della famiglia.
Ma il calcolo analitico non è una operazione semplice.
E occorre anche tener conto dell’opzione offerta dal decreto dello scorso anno, detto “Bersani”, sulla “portabilità” dei mutui: cioè la possibilità di “portare” il mutuo in un’altra banca che offre condizioni migliori o più adeguate, attraverso una procedura di “surrogazione”, non onerosa, In questo caso, se il mutuatario trova una banca che gli fa condizioni migliori, ha un oggettivo beneficio finanziario.
Quindi, va valutata anche la questione della possibilità o meno del cumulo delle due procedure, quella della rinegoziazione, che il decreto Tremonti impone alle banche di proporre alla propria clientela, e quella della surroga che il decreto Bersani permette, senza spese aggiuntive.l

Vediamo di spiegare meglio.

Da tre anni i tassi non hanno fatto che salire (vedi grafico) riepetto ai minimi che si erano stabilizzati intorno agli anni 2004-2005. In quegli anni chi stipulava un mutuo a tasso variabile, implicitamente ricercava l’opportunità che i tassi potessero ulteriormente diminuire ma aveva il rischio che potessero salire. Questo rischio era stato minimizzato; così. quasi tutti i mutui sono stati contratti a tasso variabile, con una rata che al momento costava mento, senza valutare l’opzione tasso fisso che avrebbe avuto una rata più alta, ma non c’era rischio che aumentasse.

Il rischio dell’aumento dei tassi restava alla banca.

euribor.jpg

 

D’altra parte, la famiglia che sottoscrive un mutuo, solitamente, ha l’obiettivo di acqusitare casa e non di fare previsioni sull’andamento dei tassi.

Adesso, come rimediare ad una rata variabile che diventa di mese in mese sempre più pesante?
Il governo è intervenuto. Quello precedente. con il decreto legge Bersani dello scorso anno, aveva stabilito che la soluzione potesse essere trovata nella concorrenza tra le banche che operano nel mercato finanziario, In un mercato competitivo e concorrenziale le banche dovrebbero professionalmente attuare tutte quelle azioni e promozioni utili per contendersi i favori dei clienti, offrendo proposte più accattivanti e tassi più convenienti.
Il decreto “Bersani” aveva lo scopo di favorire tale meccanismo, annullando i costi per passare il mutuo dalla banca con cui era stato stipulato in un’altra banca che offre condizioni più vantaggiose: una operazione di “surrogazione” generalmente indicata come “portabilità” del mutuo.

La surrogazione è la procedura con la quale il debitore può scegliere di sostituire (surrogare) la banca con cui aveva stipulato il mutuo originale, con una nuova banca di sua preferenza e disponibile alla surroga, mantenendo la stessa garanzia e mantenendo viva l’ipoteca registrata originariamente.
L’esperienza di poco più di un anno ha evidenziato che le banche non sono in concorrenza tra loro e comunque disattemdevano la gratuità della portabilità del mutuo. Una recente inchiesta fatta sul campo dalla associazione di consumatori Altroconsumo, su un consistente campione di banche tra

Roma e Milano ha dimostrato che il 95% di queste non attuavano la portabilità gratuita del mutuo.
Ne è seguita una segnalazione all’Antritrust che ad inizio agosto di quest’anno ha sanzionato ben 23 banche con multe per la cifra complessiva di 9 milioni e 680 mila euro. L’entità della sanzione, non è così importante come potrebbe far credere la cifra, perchè va divisa tra le 23 banche e diventa meno di 500,000,00 euro a banca, che sono un niente nel bilancio delle banca ed anche rispetto un problema di così grande importanza che coinvolge, probabilmente, più di nove milioni di persone.
Comunque, il decreto Bersani è in vigore e se si trova una banca disponibile, più conveniente, si può “portarle” il mutuo senza spese.

Con il decreto Tremonti, del nuovo governo, le banche hanno l’obbligo di scrivere direttamente ai propri clienti avendo aderito alla convenzione ABI-MEF.
Ma la loro proposta non è un prendere o lasciare. Entro il prossimo novembre chi ha ricevuto la proposta deve rispondere, se no, la rata continua a variare col variare dei tassi di interessi, come è stabilito nel contratto di mutuo.

Il meccanismo della rinegoziazione è impostato sul calcolo della rata media sostenuta nel 2006 definta nell’offerta delle banche “rata fissa secondo la convenzione ABI-MEF”.
Il mutuatario che accetta la proposta di rinegoziazione, pagherà questa rata fissa per tutto il tempo residuo del mutuo e per l’ ulteriore periodo necessario per ripagare gli ulteriori tassi di ammortamento e quelli variabili che incidevano sulla rata originaria.

Viene creato un nuovo contenitore chiamato “conto di finanziamento” che contabilizza gli addebiti delle differenze tra rate ed in aggiunta, gli interessi passivi che esso genera.

Dal punto di vista pratico il mutuatario paga una rata fissa per un tempo indeterminabile a priori che varierà comunque in funzione dell’andamento dei tassi futuri, perchè gli interessi passivi che vi si cumulano sono pur sempre funzione o dell’IRS o del tasso variabile originariamente scelto come indice per il mutuo, in genere l’Euribor.

Il tasso applicato per il calcolo degli interessi passivi del “conto di finanziamento” è previsto nella misura più bassa tra il tasso IRS a dieci anni più uno spread del 0,5% (correntemente circa il 5,5%) e quello previsto nel contratto originario (Eurobor + spread) (spread è il guadagno delle banche quando compra-vendono un prodotto finanziatrio, IRS ed EURIBOR sono indici di riferimento delle oscillazioni dei tassi).
Su tale conto sono addebitati anche le eventuali rate non pagate prima del 29 maggio 2008 e comunque tutto quanto sia maturato fino alla data della stipula della rinegoziazione. Quindi una importante alea di incertezza sulla futura ulteriore durata del mutuo nasce dunque dalle furure oscillazioni o dell’IRS o dell’Euribor.

Se i tassi scendessero e la rata originaria diventasse inferiore a quella della rata fissa ABI-MEF la differenza viene accreditata al conto di finanziamento fino al suo saldo, e successivamente si proseguirebbe a rimborsare il mutuo secondo lo schema a tasso variabile originariamente previsto.

Nella convenzione ABI-MEF Si prevede la possibilità di effettuare anche il cosidetto “cumulo” ovvero prima la rinegoziazione del mutuo e successivamente il trasferimento secondo quanto prescritto dal decreto Bersani. Non appare possibile invece fare al contrario perchè il decreto

Tremonti prevede che la rinegoziazione possa essere fatta per contratti antecedenti al 29 maggio 2008 e non per quei nuovi contratti, accesi per surroga, anteriori a tale data.

Ed allora che fare?
Beh! Occorre fare due calcoli, caso per caso!

Quarantacinque anni dopo l’approvazione della legge 898/70, che ha introdotto il divorzio in Italia, arriva una importante modifica delle norme che regolano lo scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio (questi i termini legali per indicare il divorzio).

Il 22 aprile scorso, infatti, è stata approvata la legge che istituisce il divorzio breve. In questo articolo vengono quindi illustrate le principali novità introdotte dalla legge, chi può usufruirne e da quando.

#1. Riduzione dei tempi per chiedere il divorzio: da tre anni a 12 o 6 mesi

La prima e più importante novità riguarda la riduzione del periodo di tempo che deve intercorrere tra la separazione dei coniugi ed il divorzio:  infatti la ‘vecchia’ legge  sul divorzio prevedeva che lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio (divorzio) potesse essere domandato da uno dei coniugi separati solo se la separazione si era protratta ininterrottamente da almeno tre anni, a decorrere dalla comparizione dei coniugi davanti al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale.

Le nuove norme intervengono sul punto accorciando nettamente i tempi per arrivare al divorzio dopo la separazione. La tempistica, però, varia a seconda del tipo di separazione fatto dai coniugi: separazione consensuale e giudiziale.

  • nelle separazioni giudiziali la durata minima del periodo di separazione ininterrotta dei coniugi si riduce da tre anni a 12 mesi: quindi decorsi 12 mesi dalla comparizione dei coniugi davanti al presidente del Tribunale i coniugi potranno ottenere il divorzio;
  • nelle separazioni consensuali il periodo di tempo necessario per il divorzio si riduce ancora di più: 6 mesi. Anche in questo caso la decorrenza del termine inizia dalla comparsa dei coniugi davanti al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale. Questo termine più breve, inoltre, si applica anche a quelle separazioni che, inizialmente sorte come giudiziali, si trasformano in consensuali, per avere i coniugi trovato nel un accordo nel corso del giudizio.

La riduzione dei tempi per ottenere il divorzio costituisce la presa d’atto da parte del nostro legislatore di una semplice verità: la quasi totalità delle coppie che si separano, non si riconciliano.  Chi decide di separarsi non lo fa mai dall’oggi al domani, ma dopo avere preso atto di una crisi definitiva del rapporto familiare. Dopo la separazione ciascuno dei coniugi prende ognuno la propria strada, che quasi mai condurrà ad una futura ricostituzione del loro rapporto coniugale. Ciò che di fatto accade è che il matrimonio, inteso come rapporto, legame, viene meno al momento della separazione: con il divorzio viene cancellato solo un vincolo giuridico. Si è preso, quindi, atto dell’inutilità di mantenere questo vincolo giuridico per ben tre anni dopo la separazione, anche sulla base di una tendenza di fondo che da parte dei cittadini italiani, che ricorrono allo scioglimento della propria unione coniugale in altri paesi dell’Unione Europea, riducendo così i tempi per l’ottenimento del divorzio e senza necessità di passare per la separazione.

#2 Scioglimento della comunione dei beni

divorzioVeniamo adesso ad un’altra novità introdotta dalle legge, che riguarda le conseguenze sul piano patrimoniale della separazione personali dei coniugi, ovvero lo scioglimento della comunione

Prima della riforma, il momento effettivo in cui si verifica  la cessazione della comunione si ha con il passaggio in giudicato della sentenza di separazione: questa norma non è risultata essere adeguata alla realtà quotidiana, in cui gli effetti patrimoniali della comunione legale continuano a prodursi per i coniugi separati anche dopo l’interruzione della convivenza. Infatti, la cessazione della convivenza, ancorché autorizzata dal Tribunale, non impedisce che i beni successivamente acquistati dai coniugi ricadano nella comunione legale, dato che, in base all’art. 191 codice civile, lo scioglimento della comunione viene meno solo a seguito del provvedimento giudiziale che la pronunci in via definitiva, ovvero che omologhi l’accordo al riguardo intervenuto.

La nuova legge (modificando  l’art. 191 codice civile) anticipa quindi lo scioglimento della comunione legale:

  • nella separazione giudiziale, al momento in cui il presidente del tribunale, in sede di udienza di comparizione, autorizza i coniugi a vivere separati;
  • nella separazione consensuale, alla data di sottoscrizione del relativo verbale di separazione, purché omologato.

Quindi, dopo la separazione, gli acquisti fatti da ciascun coniuge non ricadranno più nella comunione, ma apparterranno in via esclusiva al coniuge che ha fatti l’acquisto.

Va detto, peraltro, che la norma sullo scioglimento della comunione riguarderà comunque una minoranza di coppie, atteso che da qualche tempo chi si sposta sceglie quasi sempre il regime della separazione dei beni.

#3  Da quando ed a chi si applica la nuova legge

La legge è stata approvata in  via definitiva dal Parlamento, ma non è stata ancora pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale. Le norme sul divorzio breve entreranno quindi in vigore dopo il quindicesimo giorno dalla sua pubblicazione sulla G.U. Quando ciò avverrà, presumibilmente tra circa un mese, ne daremo avviso sul blog (*).

La nuove disposizioni si applicheranno anche ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della legge, quindi anche nei casi in cui il procedimento di separazione che ne costituisce il presupposto risulti ancora pendente alla medesima data.

Possono dunque beneficiare dei nuovi termini abbreviati per il divorzio sia coloro che si sono già separati sia le coppie il cui procedimento di separazione è ancora in corso. Potranno inoltre, beneficiare dei nuovi termini anche  le parti che si sono separate utilizzando le recenti disposizioni in tema di negoziazione assistita o si siano rivolte all’ufficiale di stato civile come previsto dal d.l. 132/2014.

A questo proposito ricordo che il procedimento di separazione e divorzio era stato recentemente già oggetto di modifiche normative: infatti risalgono allo scorso anno l’introduzione di 2 nuove procedure per ottenere la separazione e il divorzio senza passare dal Tribunale: si tratta della negoziazione assistita e degli accordi di separazione e divorzio davanti al sindaco, di cui parleremo a breve in un altro articolo.

(*) AGGIORNAMENTO: la legge sul divorzio breve (Legge 6 maggio 2015, n. 55)  è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale Serie Generale n.107 del 11-5-2015 ed entrerà in vigore dal 26/05/2015.

Nel diritto di famiglia, oggigiorno, si pone il problema di stabilire il diritto applicabile nonché la giurisdizione in tema di separazione e divorzio delle coppie internazionali la cui nascita è diretta conseguenza della sempre maggiore mobilità dei cittadini comunitari ed extracomunitari all’interno dello spazio dell’Unione Europea. La questione, infatti, si pone in relazione a quelle coppie con nazionalità comune o di nazionalità diversa che per motivi di lavoro o altro si trasferiscono in un uno Stato membro o anche terzo, diverso da quello dove hanno contratto matrimonio. Il Libro verde del 14 marzo 2005 della Commissione Europea (trattasi di un documento di riflessione su uno specifico tema politico che, spesso, rappresenta il primo passo per eventuali successivi sviluppi legislativi), con riguardo alla legge applicabile e competenza giurisdizionale in tema di divorzio, ha evidenziato come marito e moglie possano trovarsi, per ipotesi, a non sapere in anticipo quale legge nazionale potrà essere applicata nel loro caso. Ciò accade soprattutto a causa delle notevoli differenze esistenti tra i sistemi di diritto internazionale privato dei vari Stati e alla difficoltà di tali disposizioni: basti pensare che vi sono norme di conflitto che – come nel caso dell’Italia, ex art. 31 L. 218/1995 – si rifanno ai criteri della residenza e della cittadinanza per stabilire la connessione più stretta tra i coniugi e la legge applicabile; altre – è il caso dei Paesi nordici, Regno Unito e Irlanda – che utilizzano il criterio della lex fori.1 Sul piano sostanziale vi è poi l’ulteriore difficoltà data dalle diversità, tra le varie legislazioni, in materia di scioglimento del vincolo matrimoniale: vi sono alcuni ordinamenti che non conoscono l’istituto della separazione personale dei coniugi (per esempio, quello austriaco e finlandese) altri invece come quello maltese e marocchino non contemplano il divorzio; così come vi è differenza in merito alle cause di scioglimento, all’efficacia e ai tempi necessari per addivenire alla cessazione del matrimonio. – 2 – La separazione e il divorzio internazionale 2. Qual è il giudice competente e il diritto applicabile nella separazione e nel divorzio internazionale?- Nei procedimenti di separazione e divorzio tra coppie internazionali si deve prima individuare il giudice competente, secondo i criteri dettati dall’art. 3 del Regolamento Ue n. 2201/2003, e poi la legge da applicare al caso, da determinare, oggi, secondo le norme di conflitto del diritto internazionale privato dello Stato davanti alla cui autorità giurisdizionale è stato promosso il giudizio – la Legge 31 maggio 1995 n. 218, nel caso dell’ordinamento italiano – , e dal 21 giugno 2012 secondo i criteri indicati nel Regolamento Ue n. 1259/2010. Poiché nel procedimento di separazione e divorzio sorge spesso l’esigenza di assumere anche provvedimenti relativi alla responsabilità genitoriale e al mantenimento dei figli e del coniuge, si deve tenere presente che per questi provvedimenti accessori occorre fare riferimento, per determinare il giudice competente e la legge applicabile, ai criteri indicati nei Regolamenti che trattano specificamente dette materie. Si potrebbe di conseguenza verificare l’esigenza di adire giudici di Paesi diversi per ottenere non solo una pronuncia di separazione o divorzio ma anche l’emissione di un provvedimento su condizioni accessorie, e/o di applicare leggi diverse a seconda della materia da regolamentare. La competenza giurisdizionale: Il Regolamento UE n. 2201/2003- In seno alla Comunità Europea sono state elaborate una serie di disposizioni per unificare le disposizioni sui conflitti di competenza in materia matrimoniale e in materia di potestà dei genitori, semplificando nello stesso tempo le formalità per riconoscimento un rapido e automatico delle decisioni e per la loro esecuzione. Inizialmente, tali disposizioni dovevano formare oggetto di una Convenzione (c.d. Bruxelles II, a integrazione della Convenzione di Bruxelles del 1968, divenuta in seguito il Regolamento CE 44/2001), successivamente sono state trasfuse nel Regolamento 1347/2000, entrato in vigore il 1 marzo 2001. Il predetto regolamento è stato abrogato e sostituito dal Regolamento n. 2201/2003 del Consiglio del 27 novembre 2003, relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e di responsabilità genitoriale, in vigore dal 1 marzo 2005 in tutti i Paesi Ue, eccezione fatta per la Danimarca. Il regolamento 2201/2003 si distingue dal precedente perché estende la disciplina della giurisdizione alla responsabilità genitoriale, incluse le misure di protezione del minore, il diritto di visita, la tutela, la curatela, la collocazione del minore in famiglia o istituto, il trasferimento illecito e il mancato rientro del minore, con la duplice finalità, da un lato, di tenere conto della Convenzione sulla potestà genitoriale e le misure di protezione di minori elaborata dalla Convenzione dell’Aja del 1996, e, dall’altro, di facilitare il lavoro dei giudici do – tandoli di un unico strumento che consenta loro di decidere anche su questioni corollari a quella matrimoniale. Come espressamente dice il Considerando n.8: “il presente regolamento non dovrebbe riguardare questioni quali le cause del divorzio, gli effetti del matrimonio sui rapporti patrimoniali o altri provvedimenti accessori ed eventuali”. a) La tassatività e l’esclusività della competenza giurisdizionale in materia matrimoniale Le norme di cui al provvedimento normativo in esame sulla competenza giurisdizionale hanno carattere esclusivo e tassativo ( art. 6), sotto un duplice profilo:  – non sono derogabili dalla volontà né espressa, né tacita delle parti le quali, dunque, non potranno scegliere un giudice diverso da quello individuato dai criteri di cui all’art. 3 Regolamento UE 2201/2003, ovvero in via residuale dall’art. 7;  trattandosi di una disciplina regolamentare, questa prevale su quella interna di ciascuno Stato membro di contenuto differente, nonché sulle convenzioni internazionali concluse dagli Stati dell’Unione, tra di loro o con Stati terzi. L’applicazione diretta e immediata dei regolamenti Ue in tutti gli Stati membri comporta due conseguenze principali: tutti possono avvalersi delle disposizioni del regolamento e invocarle direttamente dinanzi al giudice che deve applicarle; i regolamenti si applicano allo stesso modo in tutta l’Unione e ciò facilita ovviamente la pronunzia di una sentenza nelle controversie tra cittadini residenti in Paesi diversi.2 La Corte di Cassazione italiana, nel recepire questi principi, ha affermato che il giudice nazionale deve applicare il diritto interno interpretandolo alla luce della normativa europea, onde garantirne la piena effettività (Cass., S.U., 17 novembre 2008, n. 27310). – 3 – La separazione e il divorzio internazionale b) Come si determina la competenza del giudice È competente, ai sensi dell’art. 3 del Regolamento Ue n. 2201/2003, a pronunciare una sentenza di separazione personale, o di divorzio, o di annullamento del matrimonio, di una coppia internazionale, il giudice dello Stato membro: 1) nel cui territorio si trova: la residenza abituale di uno dei coniugi in caso di domanda congiunta; * oppure, se la domanda non è congiunta: – la residenza abituale dei coniugi, o l’ultima residenza abituale dei coniugi se uno di essi vi risiede ancora, la residenza abituale del convenuto, o la residenza abituale dell’attore se questi vi ha risieduto almeno per un anno immediatamente prima della domanda, oppure se vi ha risieduto almeno per sei mesi immediatamente prima della domanda, se è cittadino dello stesso Stato membro o, nel caso del Regno Unito e dell’Irlanda, ha ivi il proprio “domicile”; 2) di cui i due coniugi sono cittadini o del “domicile” di entrambi i coniugi. L’art. 7 del Regolamento Ue 2201/2003 prevede anche una competenza residuale, qualora nessun giudice di uno Stato membro sia competente ai sensi degli artt. 3, 4 e 5 del Regolamento stesso, disponendo che in tal caso la competenza, in ciascuno Stato membro, è determinata dalla legge di tale Stato. Inoltre, il cittadino di uno Stato membro che ha la residenza abituale nel territorio di un altro Stato membro può, al pari dei cittadini di quest’ultimo, invocare le norme sulla competenza qui in vigore contro un conve – nuto che non ha la residenza abituale nel territorio di uno Stato membro né ha la cittadinanza di uno Stato membro o che, nel caso del Regno Unito e dell’Irlanda, non ha il proprio “domicile” nel territorio di uno di questi Stati membri. Il giudice dello Stato membro che è stato investito di una controversia ha l’obbligo di verificare la sussistenza della propria competenza, e qualora non risulti competente secondo i criteri dettati dal Regolamento n. 2201/2003, deve, ai sensi dell’art. 17 del medesimo, dichiarare d’ufficio la propria incompetenza. Il Regolamento n. 2201/2003 si applica anche ai cittadini di Paesi che non sono membri dell’Unione europea, purché abbiano vincoli sufficientemente forti con il territorio di uno degli Stati membri in conformità dei criteri di competenza previsti dal detto Regolamento, criteri che, secondo il Considerando n. 12 del Regolamento n. 1347/2000, si fondano sul principio che deve esistere un reale nesso di collegamento tra il soggetto interessato e lo Stato membro che esercita la competenza. c) La nozione di “residenza abituale” La nozione di residenza abituale di cui all’art 3 del Regolamento UE 2201/2003 è stata delineata dalla Corte di Giustizia che ha preliminarmente sottolineato che le nozioni impiegate nel Regolamento devono essere interpretate autonomamente, senza fare riferimento al diritto nazionale, al fine di assicurare un’interpretazione e un’applicazione uniformi delle disposizioni sulla competenza e di evitare conflitti di competenza. Nelle sentenze 2 aprile 2009 (procedimento C-523/07) e 22 dicembre 2010 (procedimento C-497/10) la Cor – te di Giustizia Ue ha affermato che per individuare la residenza abituale si deve in particolare tenere conto della durata, della regolarità, delle condizioni e delle ragioni del soggiorno nel territorio di uno Stato membro di una persona o di una famiglia.3 Di recente, le Sezioni Unite civili della Suprema Corte, nella sentenza n. 15328 del 25 giugno 2010, hanno messo in luce che il concetto di residenza abituale deve essere inteso quale il luogo in cui il soggetto ha fissato, con carattere di stabilità, il centro permanente e abituale dei propri interessi. La residenza non deve essere pertanto intesa in senso meramente formale quale il luogo anagrafico, quanto piuttosto quale residenza effettiva, ovvero il luogo del concreto e continuativo svolgimento della vita persona – le ed eventualmente lavorativa al momento della proposizione della domanda giudiziale. d) Litispendenza internazionale La litispendenza è un ipotesi frequente nelle separazioni e nei divorzi di coppie internazionali: capita, infatti, che i coniugi presentino contemporaneamente una domanda di separazione avanti a due tribunali di due Stati diversi, perché vi è l’interesse di uno dei coniugi ad adire il giudice di uno Stato membro che ritiene possa essergli più favorevole. L’art. 19, paragrafo 1, del Regolamento n. 2201/2003 disciplina questi casi di litispendenza, prevedendo che qualora dinanzi a autorità giurisdizionali di Stati membri diversi, e tra le stesse parti, siano state proposte domande di divorzio, separazione personale dei coniugi e annullamento del matrimonio, il giudice successiva- – 4 – La separazione e il divorzio internazionale mente adito sospende d’ufficio il procedimento finché non sia stata accertata la competenza da parte del giudice preventivamente adito. Ciò non significa che il giudice adito per primo sia per tale motivo competente in merito alla causa da decidere, ma semplicemente che solo il giudice adito per primo può decidere sulla competenza. Conseguentemente, quando un’autorità giudiziaria è stata adita ai sensi dell’articolo 3 del Regolamento e si è dichiarata competente, i giudici di altri Stati membri non sono più competenti e devono respingere qualunque domanda successiva. Inoltre, poiché l’art. 21 del Regolamento n. 2201/2003 prevede l’automaticità del riconoscimento delle decisioni in materia matrimoniale emesse in uno Stato membro, con il conseguente divieto di ricorrere a un procedimento ulteriore, non è neppure possibile per un giudice di altro Stato membro riesaminare la fattispecie sotto il profilo sia giurisdizionale (competenza del giudice che ha emesso la decisione) che del merito (in tal senso si veda Trib. Roma 24 gennaio 2007, n. 1437; Trib. Bari 21 settembre 2007, n. 2163). Nel caso di coniugi aventi una doppia cittadinanza (di Paesi Ue), il coniuge che per primo promuove il giudizio ha il diritto di scegliere fra le autorità giurisdizionali dei due Stati membri, che sarebbero entrambi competenti, e il giudice per primo adito applicherà la legge, secondo le norme del diritto internazionale privato dello Stato adito.3 e) Domande riconvenzionali Il giudice competente a conoscere della domanda principale è anche competente a conoscere di eventuali domande riconvenzionali proposte dalla convenuta, purché rientrino nel campo di applicazione del regolamento (articolo 4). Allo stesso modo ai sensi dell’articolo successivo il giudice di uno Stato membro che ha emesso una decisione di separazione personale è competente per convertirla in una decisione di divorzio quando ciò è previsto dalle leggi dello Stato. La disposizione non trova applicazione nel nostro ordinamento secondo il quale lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili può essere pronunciato solo se è stata definita con sentenza passata in giudicato la separazione giudiziale fra i coniugi (Cc, articolo 151), ovvero è stata omologata la separazione consensuale (Cc, articolo 158, e articolo 3, comma 2, della legge 898/1970).4 f) Il riconoscimento automatico delle decisioni in materia matrimoniale L’automaticità (art. 21) si fonda sul principio della reciproca fiducia e impone il duplice divieto del riesame, sia della competenza del giudice che ha emesso la decisione, sia del merito di quest’ultima. Al provvedimento di separazione, divorzio o annullamento sono attribuiti, in virtù del riconoscimento, i medesimi effetti che esso ha determinato nell’ordinamento di origine. La decisione – decreto, sentenza, ordinanza, nonché gli atti di natura amministrativa – di divorzio, separazione personale dei coniugi o annullamento di matrimonio proveniente da uno Stato membro cui il Regolamento è applicabile è suscettibile di riconoscimento. Le decisioni in materia matrimoniale possono incidere sul rapporto di coniugio, determinando lo stato di separazione tra i coniugi ovvero lo scioglimento del matrimonio o il suo annullamento.5 Va sottolineato che ai fini del riconoscimento, a differenza della Legge 218/95, il Regolamento in esame non richiede che la sentenza sia definitiva, ossia passata in giudicato; l’art. 27 comma 1 del Regolamento UE 2201/2003 conferisce al giudice cui è richiesto il riconoscimento, la facoltà di sospendere il procedimento, se la decisione è stata impugnata nello Stato di origine con un mezzo di impugnazione ordinario.6 In ogni caso, poiché il riconoscimento delle decisioni in materia matrimoniale è automatico, il coniuge inte – ressato a fare valere la decisione, deve esibire all’ufficiale di stato civile copia della stessa “che presenti le condizioni di autenticità prescritte” (articolo 37), nonché un certificato (redatto ai sensi dell’articolo 39 su un modulo allegato) da cui risulti il requisito della non impugnabilità della decisione stessa, se è stata resa in contumacia e la data da cui decorrono gli effetti giuridici nello Stato membro in cui è stata pronunciata. Per l’Italia l’ufficiale di stato civile provvederà alle necessarie trascrizioni, se ovviamente ne ritiene sussistenti i presupposti, ai sensi delle disposizioni di cui al Dpr 3 novembre 2000 n. 396.4 L’art. 21 del Regolamento 2201/2003, però, sancisce il riconoscimento automatico delle sole decisioni pronunciate in uno Stato membro. Per quanto concerne le sentenze di separazione e divorzio provenienti da uno Stato extracomunitario, va segnalato che se queste sono anteriori e soddisfano le condizioni prescritte per il riconoscimento nello Stato membro richiesto, le pronunce di uno Stato terzo possono ostacolare l’efficacia di quelle rese in Stati membri (articolo 22, lettera d).7 – 5 – La separazione e il divorzio internazionale 3. Applicabilità del Regolamento UE 2201/2003 alle coppie di fatto Nell’ultimo ventennio si è avuta la diffusione di varie forme di convivenza che in Italia non hanno ancora trovato una compiuta regolamentazione. Diverso è il discorso per gli altri Paesi europei: Svezia, Danimarca e Francia riconoscono le unioni registrate tra persone di sesso diverso e dello stesso sesso; Olanda, Belgio e Spagna riconoscono il matrimonio delle coppie omosessuali. E’, tuttavia, da escludere l’applicabilità del Regolamento UE 2201/2003 alle unioni di fatto. Questo perché la Corte di Giustizia ha più volte definito l’istituto del matrimonio come un’unione tra due persone di sesso diverso. Nella sentenza del 31 maggio 2001 (cause C-122 e C-125/99, Regno di Svezia contro Consiglio Ue), la Corte di Giustizia aveva stabilito che nell’attribuire l’assegno di famiglia ai propri dipendenti coniugati, lo statuto del personale si riferisce al concetto di matrimonio che, secondo la definizione accolta comunemente negli Stati membri, designa una unione tra due persone di sesso diverso. La Corte di giustizia ha inoltre precisato che la mancata concessione di un simile beneficio al dipendente parte di un’unione stabile registrata in Svezia tra due persone di sesso identico non determina alcuna violazione dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Pertanto, l’equiparazione riconosciuta dalle leggi nazionali non rileva nell’ordinamento comunitario. – 6 – La separazione e il divorzio internazionale 4. La competenza giurisdizionale secondo la Legge 218/95 L’art. 32 della Legge 218/1995, intitolata “Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato”, sulla giurisdizione in materia di divorzio stabilisce che: “In materia di nullità e di annullamento del matrimonio, di separazione personale e di scioglimento del matrimonio, la giurisdizione italiana sussiste, oltre che nei casi stabiliti dall’art. 3, anche quando uno dei coniugi è cittadino italiano o il matrimonio è stato celebrato in Italia”. La norma in questione estende notevolmente la portata della giurisdizione italiana. Come stabilito, infatti, dal Tribunale di Roma, nella sentenza n. 9235 del 6 maggio 2008: “La domanda di separazione personale, quando nessuno dei coniugi sia cittadino italiano e il matrimonio non sia stato celebrato in Italia, è devoluta alla cognizione del giudice italiano, nella disciplina dell’art. 3 della legge 31 maggio 1995, n. 218, in relazione al successivo art. 32, non solo se il convenuto sia residente o domiciliato in Italia (primo comma), ma, in difetto di tale situazione, anche se la parte attrice abbia residenza (anche di fatto) in Italia, tenendosi conto che l’ultima parte del secondo comma di detto art. 3, rendendo operanti ai fini della giurisdizione pure i criteri stabiliti per la competenza territoriale, con riguardo alle controversie non soggette alla Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968 (resa esecutiva con legge 21 giugno 1971, n. 804), comporta l’applicabilità dell’art. 18, secondo comma, c.p.c., sul foro della residenza dell’attore, ove il convenuto non abbia residenza o domicilio in Italia (cfr. SEZ. U, Ordinanza n. 1994 del 03 febbraio 2004)”. Inoltre, come stabilito dal Tribunale di Bari, I Sezione Civile, nella sentenza del 15 marzo 2007: “Sussiste la giurisdizione italiana ex articolo 32 della legge 218/1995, in materia di nullità e di annullamento del matrimonio, di separazione personale e di scioglimento del matrimonio, quando uno dei coniugi è cittadino italiano o il matrimonio sia stato celebrato in Italia, sussiste altresì ex articolo 31 stessa legge, nel caso in cui la legge nazionale comune dei coniugi al momento della domanda di separazione fosse quella italiana. È competente a conoscere della domanda qualsiasi tribunale della Repubblica, qualora il coniuge ricorrente sia residente all’estero e il coniuge convenuto sia anch’egli residente all’estero o risulti irreperibile. Il termine di ininterrotta separazione dei coniugi, ai fini della proponibilità della domanda di divorzio, decorre dal giorno della comparizione delle parti innanzi al presidente del tribunale nel procedimento di separazione, anche nel caso in cui, questo, si sia in seguito estinto”. – 7 – La separazione e il divorzio internazionale 5. Il riconoscimento delle sentenze straniere di separazione e divorzio, secondo la L. 218/1995- L’art. 65 della L. 218/1995 disciplina l’ipotesi specifica del riconoscimento delle sentenze straniere in materia di famiglia: hanno effetto in Italia i provvedimenti stranieri relativi alla capacità delle persone nonché all’esistenza di rapporti di famiglia o di diritti della personalità quando essi sono stati pronunciati dalle autorità dello Stato la cui legge è richiamata dalle norme della presente legge o producono effetti nell’ordinamento di quello Stato, anche se pronunciati da autorità di altro Stato, purché non siano contrari all’ordine pubblico e siano stati rispettati i diritti essenziali della difesa. Peraltro, la Suprema Corte di Cassazione, nella sentenza n. 10378 del 28 maggio 2004, ha precisato che: “il nuovo complesso della disciplina del riconoscimento delle sentenze straniere in Italia, così come configurato dalla legge di riforma del sistema italiano di diritto privato italiano n. 218 del 1995, non ha delineato un trattamento esclusivo e differenziato delle controversie in tema di rapporti di famiglia riconducendole obbligatoriamente nell’ambito operativo della disciplina di cui all’art. 65 (e perciò anche dei suoi presupposti), ma ha descritto, con l’art. 64, un meccanismo di riconoscimento di ordine generale (riservato in sé alle sole sentenze), valido per tutti tipi di controversie, ivi comprese perciò anche quelle in tema di rapporti di famiglia e presupponente il concorso di tutta una serie di requisiti descritti nelle lettere da a) a g) di questa ultima disposizione normativa; rispetto a un tale modello operativo di ordine generale, la legge ha affidato poi all’art. 65 la predisposizione di un meccanismo complementare più agile di riconoscimento – allargato, di per sé e questa volta, alla più generale categoria dei provvedimenti – riservato all’esclusivo ambito delle materie della capacità delle persone, dei rapporti di famiglia o dei diritti della personalità – il quale, nel richiedere il concorso dei soli presupposti della non contrarietà all’ordine pubblico e dell’avvenuto rispetto dei diritti essenziali della difesa, esige tuttavia il requisito aggiuntivo per cui i provvedimenti in questione siano stati assunti dalle autorità dello Stato la cui legge sia quella richiamata dalle norme di conflitto”. Sulla base di queste premesse, con sentenza del 5 novembre 2010 n. 221, il Tribunale Civile di Belluno ha dichiarato l’inammissibilità di una domanda di separazione giudiziale e ha, invece, riconosciuto una sentenza ucraina di divorzio, – così come richiesto dal resistente del giudizio -, la cui efficacia era, tuttavia, contestata dalla ricorrente a causa della contrarietà all’ordine pubblico italiano, cui la sentenza avrebbe dato luogo, per – ché priva di statuizioni riguardanti l’affidamento dei figli e il mantenimento del coniuge economicamente debole e perché pronunciata senza una precedente sentenza di separazione. – 8 – La separazione e il divorzio internazionale 6. Il riconoscimento della sentenza di divorzio pronunciata all’estero, senza il previo periodo di separazione dei coniugiLa Corte di Cassazione, I Sezione Civile, nella sentenza del 25 luglio 2006 n. 16978, ha statuito che: “In tema di riconoscimento di sentenza straniera di divorzio, la circostanza che il diritto straniero (nella specie, il diritto di uno Stato degli USA) preveda che il divorzio possa essere pronunciato senza passare attraverso la sepa – razione personale dei coniugi e il decorso di un periodo di tempo adeguato tale da consentire ai coniugi medesimi di ritornare sulla loro decisione, non costituisce ostacolo al riconoscimento in Italia della sentenza straniera che abbia fatto applicazione di quel diritto, per quanto concerne il rispetto del principio dell’ordine pubblico, richiesto dall’art. 64 comma 1, lettera g), della legge 31 maggio 1995, n. 218, essendo a tal fine necessario, ma anche sufficiente, che il divorzio segua all’accertamento dell’irreparabile venir meno della comunione di vita tra i coniugi.” – 9 – La separazione e il divorzio internazionale 7. Il diritto applicabile La Legge 218/95 Una volta individuato il giudice competente, in base ai criteri di cui al regolamento UE 2201/2003, a decide – re della separazione ovvero del divorzio, va determinata la legge applicabile sul piano sostanziale. La legge 218/1995 stabilisce quali leggi, italiana o straniera, debbano essere applicate a quei casi che abbiano un profilo internazionalprivatistico. In tema di separazione e divorzio, l’art. 31 della Legge 218/95 dispone: La separazione e lo scioglimento del matrimonio sono regolati dalla legge nazionale comune dei coniugi al momento della domanda di separazione o di scioglimento del matrimonio; in mancanza si applica la legge dello Stato nel quale la vita matrimoniale è prevalentemente localizzata. La separazione personale e lo scioglimento del matrimonio, qualora non siano previsti dalla legge straniera applicabile, sono regolati dalla legge italiana. Il Legislatore italiano, dunque, ha adottato quale criterio di collegamento principale, per l’individuazione della legge applicabile, quello della nazionalità comune ai due coniugi; nel caso i due avessero nazionalità diverse, opera il criterio della prevalente localizzazione della vita matrimoniale. La I Sezione Civile della Corte di Cassazione, nella sentenza n. 7599 del 4 aprile 2011 ha precisato che il criterio di collegamento della vita matrimoniale : “(…) va inteso in senso dinamico, come centro principale degli interessi e degli affetti dei coniugi, il quale spesso, ma non necessariamente, coincide con la residenza familiare, potendo i componenti della famiglia anche avere residenze diverse; pertanto, ancorché per lungo tempo la vita matrimoniale sia stata localizzata in uno Stato, qualora successivamente, ed anche se da un breve lasso di tempo, si verifichi un mutamento, è alla nuova localizzazione che il giudice deve fare riferimento, rilevando il concreto atteggiarsi dei rapporti familiari al momento della presentazione della domanda.” In via sussidiaria, opera il criterio della lex fori, ossia della legge italiana, laddove la separazione o il divorzio sia invocata dallo straniero il cui ordinamento di origine non prevede la possibilità di sciogliere il vincolo matrimoniale. La ratio della disposizione è, quindi, quella di proteggere il “diritto al divorzio”, spettante anche a chi non abbia alcun legame con la legge italiana. Il Regolamento UE 1259/2010- Il Libro verde del 14 marzo 2005 della Commissione Europea ha evidenziato le difficoltà, riscontrate all’interno dei Paesi dell’Unione, nel regolare situazioni familiari che presentano un alto tasso di complessità in rela – zione all’individuazione della legge applicabile e alle diverse scelte seguite negli ordinamenti nazionali. Dal momento, però, che non tutti gli Stati membri erano favorevoli all’adozione di una disciplina sostanziale comune, piegandosi, così, alla volontà dell’Unione Europea, si è fatto ricorso al meccanismo della cooperazione rafforzata, ex art. 329, paragrafo 1, del Trattato di Lisbona, sul funzionamento dell’Unione europea, arrivando all’adozione del Regolamento del Consiglio del 20 dicembre 2010 n. 1259, relativo alla legge applicabile in materia di divorzio e separazione personale. Di conseguenza, il regolamento in questione prenderà avvio il 21 giugno 2012 nei seguenti Stati: Austria, Belgio, Bulgaria, Francia, Germania, Italia, Lettonia, Lussemburgo, Malta, Portogallo, Romania, Slovenia, Spagna, Ungheria – non hanno, invece, aderito alla cooperazione rafforzata: Repubblica Ceca, Cipro, Danimarca, Estonia, Finlandia, Gran Bretagna, Irlanda, Grecia, Lituania, Paesi Bassi, Polonia, Slovacchia, Svezia -. (8) a) Finalità e ambito di applicazione del Regolamento 1259/2010 Attraverso l’armonizzazione delle norme di conflitto, il regolamento in questione persegue una duplice finalità. La prima, di portata generale ed esplicitata al punto 1) dei “considerando”, è legata alle finalità stesse dell’Unione, quali già enunciate nell’articolo 2 del trattato sull’Unione europea: contribuire, attraverso l’adozione di “misure nel settore della cooperazione giudiziaria nelle materie civili con implicazioni transnazionali”, alla creazione di uno “spazio di libertà, sicurezza e giustizia in cui sia assicurata la libera circolazione delle persone”. La seconda finalità, di carattere più specifico, è affermata al punto 9) dei “considerando”: istituire un quadro giuridico chiaro e completo in materia di legge applicabile al divorzio e alla separazione personale negli Stati membri partecipanti e, in pari tempo, garantire ai cittadini soluzioni adeguate per quanto concerne la certezza del diritto, la prevedibilità e la flessibilità, così da “impedire le situazioni in cui un coniuge domanda il di- – 10 – La separazione e il divorzio internazionale vorzio prima dell’altro per assicurarsi che il procedimento sia regolato da una legge che ritiene più favorevole alla tutela dei suoi interessi”. È evidente la volontà di censurare il fenomeno del c.d. forum shopping – proprio del diritto privato internazionale-, per cui un soggetto sceglie un foro, tra le varie giurisdizioni disponibili, non già perché il più appropriato a giudicare una controversia, ma perché le norme sul conflitto di leggi che questo tribunale utilizzerà porteranno a una applicazione della legge a lui più favorevole (peraltro, in tema di separazione e divorzio, di tale fenomeno se n’è occupata ampiamente la stampa nazionale degli ultimi tempi). Il Regolamento n. 1259/2010 si applica alla separazione e al divorzio, ma non all’annullamento del matrimonio, e neppure alla regolamentazione delle questioni relative agli effetti patrimoniali del matrimonio, alla responsabilità genitoriale e alle obbligazioni alimentari, che anche dopo l’avvio dell’applicazione del Regolamento continueranno a far riferimento per la legge applicabile alle norme di conflitto vigenti nello Stato membro interessato. b) L’utilizzo della volontà come criterio di collegamento principale L’articolo 5 attribuisce dunque ai coniugi la facoltà di designare di comune accordo la legge applicabile al divorzio e alla separazione personale, purché si tratti di una delle seguenti leggi:  a) quella dello Stato della residenza abituale dei coniugi al momento della conclusione dell’accordo;  b) quella dello Stato dell’ultima residenza abituale dei coniugi se uno di essi vi risiede ancora al momento della conclusione dell’accordo;  c) quella dello Stato di cui uno dei coniugi ha la cittadinanza al momento della conclusione dell’accordo;  d) quella del foro, e cioè la legge del luogo in cui ha sede l’autorità giudiziaria scelta dalle parti. Lo stesso articolo 5 precisa che tale accordo debba, in linea generale, esser concluso “al più tardi nel momento in cui è adita l’autorità giurisdizionale”; e tuttavia, è ammesso che i coniugi possano designare la legge ap – plicabile anche quando il procedimento sia già stato incardinato, ma solo se ciò sia consentito dalla legge del foro (quella, cioè, del giudice già adito). c) Universalità e validità dell’accordo delle parti sulla legge applicabile, ex art 5 Reg. UE 1259/2010 L’articolo 4 del Regolamento statuisce il carattere universale della scelta operata dai coniugi: la legge designata, infatti, si applica anche ove non sia quella di uno Stato membro partecipante alla cooperazione raffor – zata nel settore della legge applicabile al divorzio e alla separazione personale. La legge applicabile al divorzio e alla separazione personale è dunque da intendersi non solo quella di uno Stato membro partecipante alla cooperazione rafforzata, ma anche quella “di uno Stato membro non partecipante (alla cooperazione rafforzata) o la legge di uno Stato non membro dell’Unione europea”. Circa l’esistenza e la validità dell’accordo avente a oggetto la scelta della legge applicabile, l’articolo 6 del regolamento n. 1259 statuisce che l’una e l’altra “si stabiliscono in base alla legge che sarebbe applicabile in vir – tù del presente regolamento se l’accordo o la disposizione fossero validi”. Ciò significa che occorre, innanzitutto, aver riguardo alla legge statale che le parti hanno designato e poi ricercare in quella stessa legge i requisiti perché la convenzione de qua possa ritenersi valida (si pensi alla disciplina dettata dalla legislazione italiana in materia di errore, violenza e dolo). L’aspetto della validità formale dell’accordo è regolato dall’articolo 7, che prescrive le seguenti regole:  il minimum imprescindibile è costituito dall’atto scritto, nel cui concetto è annoverata qualsiasi comunicazione elettronica che permetta una registrazione durevole dell’accordo;  se la legge dello Stato membro partecipante alla cooperazione rafforzata, in cui entrambi i coniugi hanno la residenza abituale nel momento in cui è concluso l’accordo, prevede requisiti di forma supplementari per tali accordi (per esempio: il ricorso all’atto pubblico e/o alla presenza di testimoni), si applicano tali requisiti;  se, nel momento in cui è concluso l’accordo, la residenza abituale dei coniugi si trova in differenti Stati membri partecipanti, e se la legge di tali Stati prevede requisiti di forma differenti, l’accordo è formalmente valido se soddisfa i requisiti della legge di uno dei due Stati (e dunque anche se la scelta cada sulla legge che preveda requisiti formali meno rigorosi dell’altra);  infine, se, nel momento in cui è concluso l’accordo, uno solo dei coniugi ha la residenza abituale in uno Stato membro partecipante alla cooperazione rafforzata, e se tale Stato prevede requisiti di forma supplementari per questo tipo di accordo, si applicano tali requisiti. – 11 – La separazione e il divorzio internazionale d) I criteri di collegamento previsti in via sussidiaria: L’articolo 8 del regolamento detta le regole per l’individuazione della legge allorché le parti non abbiano effettuato alcuna scelta; tale legge è quella dello Stato:  della residenza abituale dei coniugi nel momento in cui è adita l’autorità giurisdizionale;  in mancanza: dell’ultima residenza abituale dei coniugi sempre che tale periodo non si sia concluso più di un anno prima che fosse adita l’autorità  giurisdizionale, se uno di essi vi risiede ancora nel momento in cui è adita l’autorità giurisdizionale;  in mancanza: di cui i due coniugi sono cittadini nel momento in cui è adita l’autorità giurisdizionale;  in mancanza: in cui è adita l’autorità giurisdizionale. e) Il contrasto con l’ordine pubblico Per l’articolo 12 del regolamento, l’applicazione di una norma della legge designata in virtù di quello stesso regolamento può essere esclusa solo qualora tale applicazione risulti manifestamente incompatibile con l’ordine pubblico del foro. Al riguardo, premesso che tale ordine si individua nelle norme di tutela di diritti fondamentali dell’uomo o in valori fondanti dell’intero assetto ordinamentale, la Corte di cassazione, nella sentenza n. 10378 del 2004, ha ritenuto che non costituisca violazione di tale ordine la previsione, contenuta in altro ordinamento, dello scioglimento del matrimonio “con procedure e per ragioni e situazioni non identiche a quelle contemplate dalla legge italiana”, purché l’accertamento dell’irrimediabile disfacimento della comunione familiare sia “condotto nel rispetto dei diritti di difesa delle parti, e sulla base di prove non evidenzianti dolo o collusione delle parti”. La Corte d’appello di Torino , nella sentenza 9 marzo 2006, a sua volta, ha ritenuto contrario al nostro ordine pubblico interno il ripudio-divorzio ammesso in un Paese straniero in cui vige il diritto musulmano, e ciò (fra l’altro) perché il ricorso a tale istituto, essendo consentito solo al marito, viola il principio della parità dei ses – si, discrimina i coniugi e dunque contravviene palesemente al principio di parità e solidarietà coniugale.9 – 12 – La separazione e il divorzio internazionale 8. Regolamentazione dei rapporti genitorialiNel corso dei procedimenti per separazione e divorzio viene in rilievo il problema di regolamentare i rapporti tra i genitori, in relazione all’affidamento dei figli, al loro collocamento presso un genitore e alle modalità di frequentazione del genitore non collocatario. a) La competenza giurisdizionale: il Regolamento 2201/2003 Nel caso in cui i genitori risiedano in Paesi diversi, si applicano le disposizioni di cui al Regolamento UE n. 2201/2003, in tema di responsabilità genitoriale. Ai sensi dell’art. 8 Regolamento 2201/2003, le regole di competenza si informano all’interesse superiore del minore e in particolare al criterio di vicinanza. La competenza giurisdizionale appartiene innanzitutto ai giudici dello Stato membro in cui il minore risiede abitualmente. Salvo eccezioni, al trasferimento della residenza abituale del minore da uno Stato membro all’altro, anche la competenza giurisdizionale passa ai giudici dello Stato membro di nuova residenza, facendo salvo però il principio della perpetuatio fori . Nel regolamento manca una definizione autonoma di residenza abituale. Per accertare la sussistenza della residenza abituale del minore nel proprio Stato, il giudice adito deve condurre un’indagine di fatto, avendo riguardo al centro effettivo della vita del minore, considerando molteplici fattori di indole individuale, sociale e familiare e non limitandosi a una valutazione del solo elemento temporale di permanenza del minore in un dato luogo. Il criterio di base della residenza abituale viene attenuato qualora si verifichi un cambiamento di residenza lecito (articolo 9) o illecito (articolo 10) ovvero in caso di accordo fra i titolari della responsabilità genitoriale (articolo 12). L’articolo 9, in caso di trasferimento lecito della residenza (abituale) di un minore da uno Stato membro all’altro, assegna ai giudici del precedente Stato di residenza abituale, entro tre mesi dal trasferimento del minore, una competenza limitata alla modifica di una decisione sul diritto di visita resa in detto Stato membro prima del trasferimento, a condizione che il titolare del diritto di visita in base alla predetta decisione continui a risiedere abitualmente nello Stato in questione (paragrafo 1). L’interessato può così fare adeguare la decisione sul proprio diritto di visita al recente cambio di residenza del minore dal giudice che meglio conosce la situazione e senza la necessità di adire il giudice di un altro Stato membro. L’ultrattività della competenza in parola non opera se il suddetto titolare del diritto di visita abbia accettato la competenza dei giudici del nuovo Stato di residenza abituale del minore partecipando ai procedimenti dinanzi a essi senza contestarla (paragrafo 2). In caso di trasferimento illecito o mancato rientro del minore, ex art. 10 Regolamento 2201/2003, la compe – tenza spetta al giudice dello Stato membro nel quale il minore aveva la residenza abituale immediatamente prima del trasferimento o del mancato rientro conserva la competenza giurisdizionale fino a che il minore non abbia acquisito la residenza in un altro Stato membro e:  a) se ciascuna persona, istituzione o altro ente titolare del diritto di affidamento ha accettato il trasferimento o mancato rientro;  b) se il minore ha soggiornato in quell’altro Stato membro almeno per un anno da quando la persona, istituzione o altro ente titolare del diritto di affidamento ha avuto conoscenza, o avrebbe dovuto avere conoscenza, del luogo in cui il minore si trovava e il minore si è integrato nel nuovo ambiente e se ricorre una delle condizioni previste all’articolo 10 del regolamento. L’articolo 12 disciplina l’ipotesi della proroga di competenza, stabilendo che l’accordo delle parti interessate può valere ad assegnare la competenza giurisdizionale in materia di responsabilità genitoriale ai giudici di uno Stato diverso da quello della residenza abituale del minore in due distinte ipotesi. In primo luogo, per le domande sulla responsabilità genitoriale sussiste la competenza dei giudici dello Stato membro in cui venga esercitata, ai sensi dell’articolo 3 del regolamento stesso, la competenza sulle domande di divorzio, separazione personale dei coniugi o annullamento del matrimonio collegate alle prime se almeno uno dei coniugi esercita la responsabilità genitoriale sul figlio e tale competenza sia stata accettata espressa – mente o in qualsiasi altro modo univoco dai coniugi e dai titolari della responsabilità genitoriale alla data in cui i giudici sono aditi e sia conforme all’interesse superiore del minore. Tale competenza sussiste tanto nel caso in cui il minore sia figlio di entrambi i coniugi quanto di uno solo di questi. Essa cessa al passaggio in giudicato della decisione sul vincolo matrimoniale ovvero, se successivo, al passaggio in giudicato della decisione sulla responsabilità genitoriale o quando uno dei due procedimenti sia terminato per un’altra ragione. – 13 – La separazione e il divorzio internazionale In secondo luogo sussiste la giurisdizione dei giudici di uno Stato membro con cui il minore abbia un legame sostanziale (in particolare perché tale Stato è quello di residenza abituale di uno dei titolari della responsabilità genitoriale, ovvero lo Stato di cui il minore è cittadino) sempre a condizione che tale competenza sia stata accettata espressamente o in qualsiasi altro modo univoco da tutte le parti al procedimento e sia conforme all’interesse superiore del minore. Si presume che la competenza in questione sia conforme all’interesse superiore del minore quando questi abbia la residenza abituale in un terzo Stato che non sia parte della Convenzione dell’Aja del 1996, concernente la competenza, la legge applicabile, il riconoscimento, l’esecuzione e la cooperazione in materia di potestà genitoriale e di misure di protezione dei minori e in particolare quando nel paese terzo interessato un procedimento si riveli impossibile. L’articolo 13, invece, statuisce la competenza dello Stato membro in cui si trova il minore, quando non sia possibile stabilire la sua residenza abituale né fare operare l’articolo 12 sulla proroga di competenza. Il criterio di competenza in parola opera anche rispetto ai minori rifugiati o sfollati a livello internazionale a causa di disordini nei loro Paesi. Infine, l’art. 15 del Regolamento 2201/2003 prevede, in via eccezionale, che il giudice dello Stato membro competente nel merito, se ritiene che il giudice di un altro Stato membro abbia un legame particolare con il minore e risulti pertanto più adatto a trattare il caso o una sua parte specifica può interrompere l’esame dello stesso e invitare le parti a presentare domanda al giudice dell’altro Stato membro, fissando un termine entro cui quest’ultimo deve essere adito, ovvero può chiedere direttamente al giudice dell’altro Stato membro di assumere la competenza (paragrafo 1). Il paragrafo 1 si applica su richiesta di una parte; su iniziativa della stes – sa autorità giudiziaria investita della causa; su iniziativa dell’autorità giudiziaria di uno Stato membro con cui il minore abbia un legame particolare. Nelle due ultime ipotesi è necessario che almeno una delle parti accetti il trasferimento della causa. Il legame particolare con un dato Stato membro deriva da una delle seguenti circostanze:  tale Stato è divenuto la residenza abituale del minore dopo che il giudice competente a conoscere nel merito è stato adito;  il minore in precedenza risiedeva abitualmente in questo Stato;  il minore è cittadino di tale Stato;  tale Stato è la residenza abituale di uno dei titolari della responsabilità genitoriale;  la causa riguarda misure di protezione del minore legate all’amministrazione, alla conservazione o all’alienazione di beni di questo che si trovano in tale Stato. La causa resta incardinata in capo al giudice precedentemente adito se le parti non adiscono nel termine indicato il giudice dell’altro Stato membro (paragrafo 4), o se quest’ultimo giudice non accetta la competenza entro 6 settimane dal momento in cui è stato adito. Se tali condizioni sono soddisfatte, il giudice precedentemente adito declina la propria competenza (paragrafo 5). È però necessario che tanto il giudice di provenienza, quanto quello a cui il caso viene trasferito siano concordi nel ritenere il trasferimento della causa rispondente all’interesse superiore del minore.10 b) competenza giurisdizionale in via residuale Nell’impossibilità di determinare la competenza di un giudice di uno Stato membro, in base ai criteri sopra richiamati, l’art. 14 del Regolamento 2201/2003 prevede, in via residuale, che la competenza in materia di responsabilità genitoriale è determinata in ciascuno Stato membro in base alla normativa nazionale. Per quanto concerne il nostro ordinamento, l’art. 37 della L. 218/1995 stabilisce che in materia di filiazione e di rapporti personali fra genitori e figli la giurisdizione italiana sussiste anche quando uno dei genitori o il figlio è cittadino italiano o risiede in Italia. c) Il diritto applicabile alla regolamentazione nei rapporti genitoriali Come per la separazione e il divorzio, la legge applicabile alla regolamentazione dei rapporti genitoriali viene individuata in base ai criteri di collegamento previsti dalla Legge 218/1995. L’art. 36 della predetta legge stabilisce che i rapporti personali e patrimoniali tra figli, compresa la potestà dei genitori, vadano regolati dalla legge nazionale del figlio. Il criterio di collegamento scelto dal legislatore tiene conto, innanzitutto, della centralità dell’interesse del figlio, cui è ispirata la normativa interna e internazionale in materia. In secondo luogo, permette di evitare una serie di problemi di collegamento cui darebbe adito l’applicazione della legge dei genitori, nel caso in cui questi abbiano cittadinanza differente. – 14 – La separazione e il divorzio internazionale La legge determinata in base all’art. 36 regola, non solo i diritti e i doveri reciproci di genitori e figli, ma an – che gli obblighi di assistenza morale e materiale, di istruzione ed educazione. La competenza giurisdizionale e la legge applicabile per i provvedimenti relativi alle obbligazioni alimentari Qualora nella separazione o nel divorzio sia necessario assumere provvedimenti in merito agli obblighi alimentari a favore di un figlio o di un coniuge, si deve fare riferimento al Regolamento Ue n. 4/2009, che si applica dal 18 giugno 2011. Per quanto riguarda la competenza, l’art. 3 di detto Regolamento afferma che è competente il giudice del luogo in cui il convenuto o il creditore risiede abitualmente; o il giudice che sia competente secondo la legge del foro a conoscere di un’azione relativa allo stato delle persone o alla responsabilità genitoriale, qualora la domanda relativa a un’obbligazione alimentare sia accessoria a detta azione, salvo che tale competenza sia fondata unicamente sulla cittadinanza di una delle parti; o l’autorità giurisdizionale competente a conoscere delle loro controversie in materia matrimoniale. L’art. 4 del Regolamento riconosce inoltre alle parti la possibilità di redigere un accordo per individuare il giudice competente a:  conoscere delle controversie che possono tra loro insorgere in materia di obbligazioni alimentari. Le parti possono scegliere tra il giudice dello Stato membro in cui una parte risiede abitualmente, o dello Stato di cittadinanza di una parte, o dello Stato competente a conoscere delle loro controversie in materia matrimoniale, o dello Stato membro in cui i coniugi hanno avuto l’ultima residenza abituale comune per un perio – do di almeno un anno. Per quanto riguarda la legge da applicare a queste controversie, l’art. 15 del Regolamento Ue n. 4/2009 rinvia al Protocollo dell’Aja del 23 novembre 2007 relativo alla legge applicabile alle obbligazioni alimentari negli Stati membri vincolati da tale strumento. Questo protocollo è stato ratificato dall’Unione europea l’8 aprile 2010, che ne ha stabilita l’applicazione nell’Unione in via provvisoria a decorrere dal 18 giugno 2011. Secondo l’art. 3 del protocollo si deve applicare, quale regola generale, la legge dello Stato di residenza abituale del creditore, o (art. 4) la legge del foro, qualora il creditore non possa ottenere gli alimenti dal debitore ai sensi della legge indicata all’art. 3, o abbia scelto quale giudice competente quello dello Stato dove il debitore ha la sua residenza abituale. Per le obbligazioni alimentari tra coniugi, nella separazione e divorzio, o tra persone il cui matrimonio è stato annullato, l’art. 3 non si applica, se risulta possibile applicare la legge nazionale dello Stato dell’ultima residenza abituale comune, o quella dello Stato che presenta un legame più stretto con il matrimonio (art. 5). I coniugi possono anche redigere un accordo scritto sulla legge applicabile alle loro controversie relative agli obblighi alimentari, che può coincidere con quella già concordata da applicarsi in caso di loro eventuale separazione o divorzio o per regolamentare il loro regime patrimoniale. Tuttavia, se l’obbligazione alimentare riguarda i figli minori, le norme del Protocollo non sono derogabili. La legge nazionale applicabile determina i criteri relativi all’an e al quantum. Con riferimento alla quantificazione degli alimenti, l’art. 14 del protocollo sottolinea tuttavia l’esigenza di tenere in considerazione i bisogni del creditore e le risorse economiche del debitore, così come ogni misura compensativa riconosciuta al creditore in sostituzione del pagamento periodico di alimenti. Da tenere presente che il rinvio operato dall’articolo 45 della legge n. 218/1995 alla Convenzione dell’Aja del 2 ottobre 1973 sulla legge applicabile alle obbligazioni alimentari deve intendersi sostituito a seguito dell’entrata in vigore delle nuove norme contenute nel Protocollo relativo alla legge applicabile alle obbligazioni alimentari adottato nell’ambito della Conferenza dell’Aja il 23 novembre 2007.(3)

Matrimonio e divorzio: leggi che li regolanoultima modifica: 2017-02-27T11:50:22+01:00da mariamarzio_2017