“Tra Verità e Onestà: La Vita di un Uomo Giusto”

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                      PENALE Molestie: anche una sola telefonata può integrare il reato Cassazione penale, sez. I, sentenza 08/02/2018 n° 6064 La sentenza in commento trae origine dall’appello proposto da un soggetto condannato in primo grado per il reato di molestia dal Tribunale di Treviso. Con sentenza del 4 luglio 2016, avendo lo stesso, per petulanza o biasimevole motivo, effettuato chiamate telefoniche mute o caratterizzate da riferimenti a persone conosciute dal denunciante ed avere inviato sms diretti all’utenza della persona offesa. L’imputato proponeva avverso la sentenza appello, in seguito riqualificato come ricorso, deducendo, tra le altre cose, il mancato riconoscimento della causa di esclusione della punibilità del fatto di particolare tenuità (ex art. 131-bis c.p.). Per meglio comprendere le motivazioni della Suprema Corte, appare opportuno preliminarmente soffermarsi brevemente sulla fattispecie in esame. Vai alla Sentenza L’articolo 660 del codice penale, intitolato “molestia o disturbo alle persone”, così recita: “chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo è punito con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda fino a € 516”. Innanzitutto è il caso di evidenziare che il reato in questione è contenuto nel libro III (delle contravvenzioni in particolare), titolo I (delle contravvenzioni di polizia), capo I (delle contravvenzioni concernenti la polizia di sicurezza), sezione I (delle contravvenzioni concernenti l’ordine pubblico e la tranquillità pubblica) – che indica il bene direttamente tutelato dalle relative fattispecie, perciò anche da quella in attenzione – del codice di diritto penale sostanziale. Lo stesso è certamente, in relazione al soggetto attivo, comune (lo si ricava dalla scelta del termine: “chiunque”). Anche la persona offesa, soggetto passivo, può essere “chiunque”, seppur identificata nella sua natura ed accezione individuale. Restano difatti esclusi gruppi di persone indeterminate. Per quel che concerne l’elemento soggettivo, sembra necessaria la ricorrenza del dolo specifico, da rinvenirsi nella coscienza e volontà di porre in essere condotte idonee a cagionare molestia. In tal senso: “Ai fini della configurabilità del reato di molestie, previsto dall’art. 660 cod. pen., per petulanza si intende un atteggiamento di arrogante invadenza e di intromissione continua e inopportuna nella altrui sfera di libertà […], per la cui integrazione è richiesta la coscienza e volontà della condotta nella consapevolezza della/ sua idoneità a molestare o disturbare il soggetto passivo, senza che possano rilevare gli eventuali motivi o l’eventuale convinzione dell’agente di operare per un fine non riprovevole o per il ritenuto conseguimento della soddisfazione di una propria legittima pretesa” (Cass. Pen., Sez. I, sentenza del 12/12/2003, n. 4053; Sez. I, sentenza del 06/10/1995, n. 11855; Sez. I, sentenza del 30/04/1998, n. 7051; Sez. I, sentenza del 26/11/1998, n. 13555). Perché una condotta possa assumere rilievo, ai fini della configurabilità del reato di molestia di cui all’art. 660 c.p., inoltre, nell’interpretazione data dalla Suprema Corte: “non è sufficiente che essa sia di per sé molesta o arrechi disturbo, ma è altresì necessario che sia accompagnata da petulanza o altro biasimevole motivo; condizione, questa, attinente all’elemento oggettivo del reato, più che al dolo specifico” (Cass. Pen., Sez. I, sentenza del 25/10/1994, n. 12230). Dalla pronuncia testé richiamata si deduce quindi che gli elementi della fattispecie astratta “per petulanza” e “per altro biasimevole motivo” non rientrano all’interno della sfera psicologica dell’agente ma, piuttosto, svolgono la funzione di descrivere la condotta tipica materiale, collocandosi sul piano oggettivo. Ad ogni buon conto, vi è giurisprudenza che sembra invece sposare diversa tesi: includendo la petulanza e/o il biasimevole motivo all’interno della sfera psicologica del soggetto attivo, invita l’interprete a porre maggiore attenzione sulle ragioni fondanti il contegno illecito. In tal senso, in una pronuncia del 2016 è stato stabilito che: “petulanza o altro biasimevole motivo – che ricadono inevitabilmente nella connotazione dell’elemento psicologico tanto da imporre la verifica del dolo […], consistente nella volontà di interferire in modo inopportuno – per ragioni che vanno apprezzate e qualificate attraverso un giudizio di valore – nell’altrui sfera di libertà” (Cass. Pen., Sez. I, sentenza del 14/10/2015, n. 5759).