209. Violette Ailhaud, L’uomo seme: “Il mio cuore e il mio corpo sono vuoti. Il primo piange l’uomo perduto. Il secondo l’uomo che non arriva.”

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VIOLETTE AILHAUD, L’uomo seme, Fandango/Playground 2014, nuova edizione con una postfazione di Valeria Parrella, 2016

Mi trovo in una di quelle piccole librerie dove è più facile trovare buoni libri rispetto a quelle troppo legate alla grande distribuzione.
Su una copertina rossa e grezza spicca un titolo che cattura la mia attenzione “
L’uomo seme”. Prendo in mano il libro, che è piccolo nel formato e che ha poche pagine, in tutto 60, compresa la bibliografia della collana in cui è pubblicato questo testo. Casa Editrice Fandango/Playground, anno dell’edizione italiana 2014, mentre in Francia, paese d’origine, è uscito nel 2006.
Ancora uno sguardo per sapere qualcosa in più, e vedo che si parla della Provenza. Mi basta. Già bastava il titolo. Esco dalla libreria convinta di avere in mano un piccolo tesoro. Lo è.
Valeria Perrella, nella postfazione, così scrive:

“Certo, bisogna credere a tutto dall’inizio alla fine. Intendo che bisogna credere alla storia del ritrovamento del manoscritto, alla veridicità dell’iter editoriale. Sa di falso, ma non puzza di falso. Sa di falso come sanno di falso gli incipit famosi della nostra letteratura universale, quelli che hanno bisogno di un pretesto, rocambolesco e narrativo al pari di ciò che seguirà, per cominciare. Come in Melville, per fare un esempio, quando il narratore si presenta. Qui l’autrice narratrice si presenta: è Violette Ailhaud, morta nel 1920, che lascia per disposizione testamentaria questo manoscritto in eredità alla donna della sua famiglia che avesse avuto la maggiore età negli anni ’50.
Così una sua nipote si trova tra le mani la storia vera di un villaggio provenzale all’epoca di Lui Napoleone Bonaparte. A me piace credere che sia andata così, e mi abbandono alla lettura, che si consuma rapidamente ma poi resta anche a distanza di molto tempo.” (pp.55-56)

E aggiunge:

“Non è difficile credere che da questo breve intensissimo racconto sia nata una riuscita messa in scena per il teatro.” (p. 58)

Anch’io sto al gioco, anzi, è un escamotage letterario che mi piace: Manzoni insegna, con i suoi Promessi Sposi che iniziano con il ritrovamento di un manoscritto anonimo del XVII secolo; e con lui si di-vertono allo stesso modo Matteo Maria Boiardo nell’Orlando Innamorato, e Ludovico Ariosto nell’Orlando Furioso; e Miguel de Cervantes nel Don Chisciotte. Sto al gioco, sebbene la lettura del racconto mi faccia conoscere una donna la cui coscienza femminile è molto attuale, ai miei occhi inusuale in una donna di campagna che nel 1919 scrive di ciò che accadde a lei e altre donne “dopo l’inverno del 1852”. Ma tutto è possibile, e se noi donne siamo oggi dove siamo con la “consapevolezza di genere”, lo dobbiamo a donne che di coscienza ne hanno avuta e sviluppata molto prima di noi adesso.
E’ un testo dove il Femminile trabocca da ogni parola, dove l’Eros vitale si fa strada in ogni sillaba, dove la determinazione della Vita è la Conduttrice Sapiente di ogni Gesto.
Compreso il Gesto Linguistico, la Parola, la Lingua materna, il Provenzale in questo caso, la lingua in cui si svolse la storia, che però l’autrice sceglie di scrivere in francese. E anche le considerazioni sulle due lingue, nell’introduzione, rivela la coscienza non comune di Violette Ailhaud. Che Lei sia esistita o no, io la penso reale come reale è ogni personaggio regalatoci dalla letteratura, dalla pittura, dalla mitologia. Ché si esiste in diversi modi, e non è detto che quello reale sia il più vero.
Pure se dovessi fermarmi al linguaggio usato, sintassi e parole, emergerebbe il personaggio letterario, cioè l’invenzione, perché anche lo stile è moderno. E credo che lo sia anche in francese, poiché la sua vicinanza con l’italiano dovrebbe aver facilitato la traduttrice Monica Capuani nell’essere fedele all’originale.
Ma sto al gioco, preferisco. D’altronde, io stessa ho guidato ragazzi e ragazze alla creazione di testi narrativi a partire da un documento storico il quale, molto spesso, nei loro scritti è diventato mero punto di partenza, escamotage, appunto, per narrare altro. E’ un bel gioco il narrare, e mi piace giocarlo.
Facciamo che … Facciamo che sia vero … Facciamo che lo è …

 

“Introduzione
Saule-Mort, 19 giugno 1919

Ho deciso di raccontare quel che è successo dopo l’Inverno del 1852 perché, per la seconda volta in meno di settant’anni, il nostro villaggio ha perso tutti i suoi uomini. L’ultimo è morto il giorno dell’Armistizio, l’11 novembre scorso.
Per noi donne non c’è vittoria, ma vuoto, e io unisco le mie lacrime a quelle di tutte le donne, tedesche o francesi, che vagano nelle loro case dove non c’è più un uomo. Piango quelle braccia perdute fatte per stringerci e per rovesciare la pecora durante la tosatura. Piango quelle mani rubate, fatte per accarezzare e per tenere la falce per ore.
Avevo sedici anni nel 1851, trentacinque nel 1870 e oggi ne ho ottantaquattro. Ogni volta la Repubblica ci ha falciato via i nostri uomini come noi si falcia il grano. Un lavoro perfetto. Ma il nostro ventre , la nostra terra di donne, non ha dato più messi. A forza di falciare gli uomini, è il seme che è venuto a mancare. La storia che racconto oggi, nella sera della mia vita, si è svolta in provenzale. All’epoca non avevamo altra lingua che quella, ricevuta dai nostri genitori. Il provenzale –patois lo chiamano i detrattori- è la mia lingua materna e io la ammiro per la sua resistenza. Tuttavia ho scelto di scrivere la storia in francese affinché quello di cui rendo testimonianza possa diffondersi al di là della nostra regione e anche perché amo questa seconda lingua. L’ho imparata, l’ho adottata come si adotta una patria, e l’ho insegnata. E’ quella della Repubblica per la quale tutti i nostri uomini hanno dato le loro vite in un colpo solo e noi le nostre, nel corso della nostra esistenza di donne.
Violette Ailhaud”
(pp. 5-7)

 

L’uomo seme” è uno di quei libri che rispondono anche alle mie domande sul viaggio: ‘Perché viaggio? Cosa guardo quando viaggio? Cosa vedo? Dove pongo la mia attenzione? Cosa conosco dei luoghi visitati?’, nate dal confronto dei resoconti di viaggio miei con quelli di altre persone: dello stesso luogo parlavamo come di paesi diversi.
Credo che certe cose si sentano, non solo nelle persone, ma anche nei luoghi. Che una terra che amiamo la conosciamo su piani altri che non quelli della coscienza. Perché amo la Provenza? Per la ricchezza e varietà dei suoi paesaggi? Per i platani che costeggiano le strade e riempiono anche la più piccola piazza? Per quella parte della sua storia che già conoscevo? Per la dolcezza dei suoi paesini? Perché vi è nato l’autore di uno dei miei libri preferiti, forse IL preferito,
‘L’uomo che piantava gli alberi’? Anzi, a questo proposito colgo connessioni tra L’uomo seme e L’uomo che piantava gli alberi, e cioè una indipendenza del cuore dei personaggi, la loro cura e attenzione alla Vita anche mentre intorno regna la devastazione.
Amo la Provenza, e non conoscevo la storia dell’insurrezione per la Repubblica del dicembre 1851, le guide che ho consultato non ne parlavano e non ne ho trovato tracce nei paesi visitati, ma forse ho conosciuto in altro modo questo suo spirito di libertà e giustizia: l’ho sentito. Aggiungo quindi un tassello importante, anche attraverso le informazioni storiche con cui arricchisce il libro Jean Marie Guillon, dell’Association 1851-Université de Provence.

“Il 2 dicembre 1851, Luigi Napoleone Bonaparte, due anni prima eletto presidente della Repubblica, assunse pieni poteri. La Costituzione gli vietava di ripresentarsi alle elezioni che si sarebbero dovute svolgere nel 1852. E allora lui abolì la Costituzione.
Davanti al colpo di Stato, il paese ebbe una reazione blanda. Neanche Parigi, punto di partenza della rivoluzione del 1848 che aveva istituito la Repubblica, si mosse più di tanto. I capi dell’opposizione vennero arrestati e presero la via dell’esilio. Le uniche reazioni importanti si ebbero nella Borgogna e soprattutto nel Midi, principalmente in Provenza e ai suoi margini. E’ questa l’originalità di questo movimento atipico, ed è anche il motivo per cui questa rivolta –provinciale, meridionale, rurale- è così largamente misconosciuta, anche se è la più importante del XIX secolo, insieme alla Comune di Parigi. L’altro suo tratto di originalità è il motivo scatenante: quei contadini, quegli artigiani, quei borghesi, quegli abitanti dei villaggi, per i quali il francese non era la prima lingua, imbracciarono le armi per difendere la legge. (pp. 49-50)
[…]
“Eppure, l’insurrezione di dicembre è una pietra miliare. E’ lì che si fonda la tradizione repubblicana, che è un’altra faccia dell’identità provenzale, che segnerà a lungo la sua storia con fermenti ancora oggi non del tutto scomparsi.” (p. 53)

 

Il testo del racconto si snoda in sette brevi capitoli su 41 pagine effettive di narrazione, 41 piccole pagine con lettere scritte grandi.
Una storia d’amore, anche. Un capolavoro lasciato in silenzio sugli scaffali discreti di librerie i cui proprietari si muovono nel fitto intrico delle case editrici alla ricerca di cose buone da offrire, per incontri preziosi ed eleganti, per ritrovare il gusto della letteratura e della poesia e della scrittura bella.
La storia narrata e le parole che la narrano sono un soffio denso come la vita, etereo e duraturo, fragile e forte, di organizzata fantasia e di rispettose decisioni prese oltre il senso comune, ma di quel tenace senso vitale che sa proporre un   nuovo collegato a radici profonde.

“Capitolo 1
Viene dal fondo della valle. Ancor prima che attraversi il fiume a guado, e che la sua ombra tagli, con un lento batter di ciglia, lo scintillante specchio d’acqua tra i banchi di terra e di rocce, sappiamo che è un uomo. I nostri corpi vuoti di donne senza marito si sono messi a risuonare in modo inconfondibile. Le nostre braccia stanche smettono tutte insieme di ammonticchiare il fieno. Ci guardiamo e ognuna di noi ricorda il giuramento. Chiudiamo le mani a pugno e stringiamo le dita fino a spezzarci le giunture: il nostro sogno è in cammino, gelido per il terrore e bruciante di desiderio. L’uomo sale. Cammina di buon passo. Eppure il suo incedere sembra lento, dolorosamente lento, per i nostri nervi scoperti. Raddoppiamo lo slancio del lavoro per ammazzare quel tempo che ci tortura. Forconi e rastrelli danzano una giga che ingrossa rapidamente i mucchi di fieno. Le nostre braccia si agitano, ma noi non ci siamo. Tutti i nostri sensi sono altrove, tesi verso di lui. Ogni volta che l’uomo si eclissa dietro un avvallamento del terreno, mi chiedo se non l’abbia sognato o se non sia lui che abbia semplicemente deciso di tornare indietro. Mi giro verso le mie compagne e leggo sulle loro facce la mia stessa angoscia.
Il tempo ci incalza, ci opprime. E’ come se il tempo ci gridasse dietro. Ci eravamo cullate nell’attesa, cullate nella certezza che un uomo sarebbe arrivato. Ed ecco che l’avvicinarsi di quell’uomo travolge la nostra pazienza e la trasforma da cagna buona, accucciata ai nostri piedi, in lupa affamata.
Sono più di due anni che non vediamo un uomo. Gli ultimi, i nostri, sono partiti nel febbraio del 1852 dopo una retata dei gendarmi che li spingevano con i loro fucili. Quei gendarmi erano quelli del nuovo impero di Luigi Napoleone Bonaparte, parricida della Seconda Repubblica di cui era stato presidente.” (pp. 9-11)
[…]
“Capitolo 2
Dal febbraio del ’52 nessuno è più salito al villaggio. All’inizio li abbiamo aspettati. Aspettavamo a piè fermo i rappresentanti dell’impero, della morale, della religione. Aspettavamo i predicatori e i soldati di ogni genere. Eravamo solo donne e bambini e sapevamo che ci saremmo dovute difendere contro quelle due famiglie di predatori di deboli.
Aspettavamo soprattutto quella metà della nostra umanità che era stata strappata alla nostra terra, ai nostri muri, ai nostri cuori.” (p. 15)
[…]
“Noi non sapevamo nulla. Non sapevamo se gli uomini deportati fossero ancora vivi. Nessuno veniva verso di noi. E neanche noi andavamo verso gli altri, per paura, per timore di scoprire che, al di là dell’orizzonte delle nostre terre non ci fosse nient’altro che il silenzio e la morte. Non ci siamo più mosse dal paese, impegnandoci fino allo spasimo nei lavori che esigevano, dall’alba a notte fonda, le bocche spalancate dei nostri figli, delle nostre bestie e dei nostri campi.” (pp. 16.17)
[…]
“Dunque, quell’uomo che corre lentamente verso di noi è il primo. Stringo la mela che ho in tasca. L’Ho raccolta ancora acerba, perché è caduta dall’albero in pieno luglio. Stringo questa mela liscia con la sua buccia segnata, come per la puntura di un ago, dall’impronta del verme che l’ha fatta cadere. Accarezzo questa mela e penso a Eva. All’improvviso, ho voglia di credere a quel mito e di essere la prima donna.
Dobbiamo aspettare quasi un’ora prima che l’uomo si presenti al confine del nostro campo. Noi lo guardiamo e lui ci guarda. Ha smesso di camminare e noi di muoverci. Lui sorride e mi sembra che la tensione contragga soltanto i nostri volti. Quando fa un passo in più verso noi, ci rimettiamo all’opera. All’improvviso la sua mano si posa sul mio braccio per fermarlo. Io lo guardo e da quell’istante so di appartenere a quell’uomo.” (pp. 18-19)
[…]
Capitolo 3
[…]
“Il mio cuore e il mio corpo sono vuoti. Il primo piange l’uomo perduto. Il secondo l’uomo che non arriva. Da due anni grido la mia rivolta di giovane donna devastata dal rapimento del suo promesso sposo, nel momento in cui l’avrebbe resa donna e madre. Da due anni il dolore mi riempie e mi rende gravida. Sanguino a ogni luna, troppo dal ventre e ininterrottamente dal cuore. Il dolore genera la mia collera e grido spesso contro il vento che mi restituisce la mia violenza come uno schiaffo assestato al volo. Vinta da quella lotta impari, guardo, inebetita, la terra che gira: fisso a lungo l’ineffabile linea, che separa l’ombra dal sole, spostarsi sulle piastrelle della cucina. La terra e il tempo mi avvolgono nel loro valzer folle. La vertigine mi placa con la sua carezza perfida che mi dà la nausea.” (p. 27)
Capitolo 4
[…]
“L’uomo legge. E’ quello che scopro portandogli la cena. Legge, ed è una cosa rara. Questa scoperta mi fa battere il cuore.” (p. 29)
[…]
“Ripenso ai nostri cinque libri che mio padre mi ha mandato a nascondere, all’epoca dell’ingresso in paese dei gendarmi, nell’anfratto ricavato nel precipizio del pozzo. Ripenso alle ore di apprendimento della lettura con mio padre quando avevo cinque anni. Ripenso al piacere di leggere e rileggere, di assaporare i suoni delle poesie recitate a squarciagola, nei campi, quando il vento fischiava forte. Ripenso a mia madre che sbraita contro mio padre lamentandosi che le idee della poesia mi avrebbero fatto girare la testa. Ripenso a mio padre che scoppia a ridere e bacia mia madre per farla tacere. “(p. 30)
[…]
““Chi sei?”. Alla domanda posta brutalmente l’uomo mi risponde porgendomi il passaporto che gli consente di circolare all’interno della Francia.” (pp. 30-31)


Come si chiude questa storia che si è aperta con un arrivo?
L’ultima parola del racconto è “
ancora”. A pag. 46.
Prima di riporre il libro guardo di nuovo il costo stampato sulla aletta posteriore, della quarta di copertina. Euro 7,00.
Le cose belle non hanno prezzo e costano poco.

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209. Violette Ailhaud, L’uomo seme: “Il mio cuore e il mio corpo sono vuoti. Il primo piange l’uomo perduto. Il secondo l’uomo che non arriva.”ultima modifica: 2020-08-12T17:55:22+02:00da mara.alunni