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43. "avere il mondo davanti agli occhi e non soltanto in cuore" ... "l'amore dimentico di sé è vero soltanto finché l'esigenza del Sé può essere messa in disparte"


"Perciò, per la nostra sedicente redenzione non dobbiamo usare l’Altro. L’Altro non è una scala per i nostri piedi. Dobbiamo piuttosto restare con noi stessi. Il bisogno di redenzione ama esprimersi attraverso un accresciuto bisogno d’amore con cui noi crediamo di rendere felici gli altri. Nel frattempo però siamo immersi fino al collo nella brama e nel desiderio di cambiare la nostra condizione, e a tale scopo amiamo l’Altro. Se avessimo già raggiunto il nostro scopo, l’Altro ci lascerebbe freddi. Però è vero che per la nostra redenzione abbiamo anche bisogno dell’Altro. Esso ci offrirà forse il suo aiuto spontaneamente, perché siamo in una condizione di malattia e di impotenza. L’amore per lui non è – e non deve essere – dimentico di sé. Sarebbe una menzogna. Giacché il suo scopo è la nostra redenzione. L’amore dimentico di sé è vero soltanto finché l’esigenza del Sé può essere messa in disparte." C. G. Jung, Il libro rosso, Bollati Boringhieri 2010 https://it.wikipedia.org/wiki/Libro_Rosso_(Jung)

Adi Holzer, Schwierige Passage, 2002

  Il pianto della scavatrice I Solo l’amare, solo il conoscere conta, non l’aver amato, non l’aver conosciuto. Dà angoscia il vivere di un consumato amore. L’anima non cresce più. Ecco nel calore incantato della notte che piena quaggiù tra le curve del fiume e le sopite visioni della città sparsa di luci, scheggia ancora di mille vite, disamore, mistero, e miseria dei sensi, mi rendono nemiche le forme del mondo, che fino a ieri erano la mia ragione d’esistere. Annoiato, stanco, rincaso, per neri piazzali di mercati, tristi strade intorno al porto fluviale, tra le baracche e i magazzini misti agli ultimi prati. Lì mortale è il silenzio: ma giù, a viale Marconi, alla stazione di Trastevere, appare ancora dolce la sera. Ai loro rioni, alle loro borgate, tornano su motori leggeri – in tuta o coi calzoni di lavoro, ma spinti da un festivo ardore i giovani, coi compagni sui sellini, ridenti, sporchi. Gli ultimi avventori chiacchierano in piedi con voci alte nella notte, qua e là, ai tavolini dei locali ancora lucenti e semivuoti. Stupenda e misera città, che m’hai insegnato ciò che allegri e feroci gli uomini imparano bambini, le piccole cose in cui la grandezza della vita in pace si scopre, come andare duri e pronti nella ressa delle strade, rivolgersi a un altro uomo senza tremare, non vergognarsi di guardare il denaro contato con pigre dita dal fattorino che suda contro le facciate in corsa in un colore eterno d’estate; a difendermi, a offendere, ad avere il mondo davanti agli occhi e non soltanto in cuore, a capire che pochi conoscono le passioni in cui io sono vissuto: che non mi sono fraterni, eppure sono fratelli proprio nell’avere passioni di uomini che allegri, inconsci, interi vivono di esperienze ignote a me. Stupenda e misera città che mi hai fatto fare esperienza di quella vita ignota: fino a farmi scoprire ciò che, in ognuno, era il mondo. Una luna morente nel silenzio, che di lei vive, sbianca tra violenti ardori, che miseramente sulla terra muta di vita, coi bei viali, le vecchie viuzze, senza dar luce abbagliano e, in tutto il mondo, le riflette lassù, un po’ di calda nuvolaglia. È la notte più bella dell’estate. Trastevere, in un odore di paglia di vecchie stalle, di svuotate osterie, non dorme ancora. Gli angoli bui, le pareti placide risuonano d’incantati rumori. Uomini e ragazzi se ne tornano a casa – sotto festoni di luci ormai sole – verso i loro vicoli, che intasano buio e immondizia, con quel passo blando da cui più l’anima era invasa quando veramente amavo, quando veramente volevo capire. E, come allora, scompaiono cantando. Il pianto della scavatrice, in P.P. Pasolini, Le ceneri di Gramsci (Garzanti, 2015)