44. Buon Anno Nuovo cari amici-viaggiatori di blog

49257791_10218347288421551_656400775265648640_nAndres Gamiochipi, Drawing Constellation III

Non c’era un altro mobile così grande nella stanza.
Né l’armadio a un’anta ampia ricoperta da uno specchio, né il letto a due piazze con grandi testiera e pediera in ferro.
Niente era grande come la foto di lui, appesa solitaria al centro della parete, e nient’altro su quella parete.
Nel resto della stanza c’erano coppie o più di cose. Accanto all’armadio, a sinistra, davanti alla finestra, il lavabo in metallo con lo specchio ovale, e brocca e conca poggiate sui due piani in marmo; a destra dell’armadio la cassapanca del corredo. Accanto al letto i comodini, e uno solo di essi con la lampada per la notte.
Nella parete opposta alla finestra, la gigantografia di lui a mezzobusto, illuminata tutto il giorno dalla luce esterna. Lui, vestito bene con l’abito della festa e un garofano all’occhiello; e un sorriso elegante, appena accennato ma convinto, e ormai eterno. E nient’altro su quella parete, come nessun altro nel cuore.
Lei ci aveva provato, una volta. Un uomo voleva sposarla. Lei ne parlò con la figlia di quattro anni, quasi a chiederle il permesso, forse aspettando il rifiuto che infatti arrivò puntuale, chissà da quale paura della bambina, alla quale veniva chiesta una decisione così grande dalla paura della madre. La paura, creatrice di nascondigli, di antri bui che sussurrano che non c’è mai via di uscita.
Così lei chiuse tutto il futuro dentro il no, pensando fosse un sì. E tutti pensarono fosse un sì. Le prigioni spesso appaiono come grandi scelte, ma lei non lo seppe mai, non volle saperlo: i sacrifici immani che ne seguirono erano solo la conferma di una serietà quotidiana, di una coerenza di vita che innalzava a eroismo ciò che non sapeva si chiamasse paura.
Cambiò molte case, lei. La prima dove visse da ragazza e da cui uscì per andare ad abitare nella casa di lui, con suoceri e cognati e cognate. Trenta passi che la fecero entrare in un mondo di grandi affetti. Quella è la casa dei ricordi, anche di noi che siamo venuti al mondo dopo e che non l’abbiamo abitata, ma solo visitata, piccolissimi nuovi rami di un albero che fu ferocemente potato dalla vita. Quella casa ci aspetta ancora, disabitata, abbandonata, io lo so; è lì per risentire l’odore di quel sangue che ancora scorre in noi, il suono delle voci che hanno quelle radici, le parole che possono raccontarla nel suo splendore di quegli anni, nella ricchezza di quella famiglia amorevole, numerosa e laboriosa.
Da quella casa di festa lei uscì dopo tanti anni, quando lui se ne era andato da tempo, in modo improvviso e violento; uscì dopo aver accudito tutti i famigliari di lui rimasti nella casa, lei che ne era diventata la vestale, la presenza di costante riferimento per tutti, il corpo già trasformato come un ramo d’inverno, la voce tramutata in un soffio caldo di primavera, un refolo raro solo per dire l’essenziale, un essenziale amorevole e null’altro, niente altro diceva se non parole amorevoli, rare ma amorevoli e basta.
Uscì insieme all’ultimo cognato rimasto per entrare in un’altra casa. E nella sua stanza la foto di lui aveva l’onore di un’intera parete. E così fu in un’altra casa, e poi in un’altra e in un’altra ancora, che fu quella dove la foto di lui era illuminata tutto il giorno dalla luce esterna.
Lei si spense lentamente, e la sua ultima casa fu la nostra, dove morì dimentica del mondo e spero dei dolori che la piegarono senza spezzarla, rendendo in tal modo ancor più  preziosi i suoi sorrisi e la sua generosità. Nella nostra casa aveva il letto prima nella mia cameretta quando veniva a trovarci, e poi nella camera dei miei genitori -una camera molto grande- dove trascorse gli ultimi suoi tempi, così da poter essere accudita come necessitava, cioè senza sosta. Ma, sebbene la camera fosse molto grande, non c’era spazio per la gigantografia di lui o, chissà, non pensammo di trovarlo.
Ero giovane quando lei morì, avevo da poco cominciato a ricostruire l’albero di cui ero un ramo, qualcosa da lei mi ero fatta raccontare: non sapevo niente dell’amore pur pensando di saperlo, soprattutto non sapevo di quanto col suo nome si nomini invece la paura; non pensai di portare la gigantografia di lui in quella camera, e l’avrei portata anche se già da allora avessi saputo che era per lei un rifugio e un nascondiglio, che lì aveva sepolto tutta la sua vita, anche se avessi saputo quanto un ricordo possa farsi prigione e sostituirsi al vivere. Ma non pensai di portarla, per imparare ad amare a volte ci vuole l’intera vita.
Lei morì in silenzio, a pareggiare forse l’urlo dentro cui morì lui; completamente scordata di sé e del mondo, così almeno sembrava, a pareggiare forse l’impegno quotidiano del suo cuore al ricordo e alla mancanza. Lei ha un nome suo proprio, e ha un nome di parentela ma, per quanto io ami i nomi dell’affetto famigliare – babbo mamma nonno nonna zio zia cugini – non la chiamo con nessuno di questi appellativi né col suo nome. Ne ha uno che apparteneva a loro due, che lui le aveva dato e con cui la chiamava, a volte serio a volte scherzoso e sempre innamorato: Signora, la chiamava Signora. E tale lei ha dimostrato di essere per il resto della sua vita dopo di lui, per quello che la sua consapevolezza le ha permesso di capire: al suo livello di coscienza visse una vita d’amore, non fece mai del male a nessuno, fu onesta, generosa e grande lavoratrice. Io sono sicura che se anche avesse compreso che aveva il dovere-diritto di vivere la sua vita in altro modo – e non in termini di espiazione e di annullamento come anche voleva la sua epoca per le vedove; non indirizzata dal dolore e dalla paura, di tutti e non solo della sua- lei comunque avrebbe percorso una strada d’amore, per  niente inorgoglita da una vita più tranquilla e serena, anzi, sarebbe stata esempio di come solo uscendo dalla paura si vive realmente l’amore. Ma la sua vita è arrivata fin lì, a dimostrare che anche dentro la paura e il dolore si può vivere senza fare del male, addirittura trasformando quel costante limite in un passo verso il suo stesso superamento. Ed è molto, moltissimo.
Io la ricordo nei suoi gesti, l’esito esterno di ciò che abbiamo nel cuore. Gesti di lavoro pesante, di dono, di accoglienza totale. La Signora.
E’ con lei che voglio augurare a chi passa in questo blog un Buon Anno Nuovo: lei ci ricorda che se siamo nel dolore e nella paura possiamo comunque agire in modo rispettoso delle altre vite; lei ed io sollecitiamo a non impostare la vita sui momenti di dolore e di paura; a mettere altro vicino alla gigantografia del passato; a lasciare andare le gigantografie, ad affacciarsi a vedere fuori dalla finestra da cui entra una luce, che nel dolore sembra solo fatta per illuminare la gigantografia del nostro cuore spezzato, ma che invece è luce che illumina ogni cosa.
Non si è Signora per caso.

Buon Anno Nuovo, cari amici-viaggiatori di blog.
Si può cambiare, si può fare qualcosa di nuovo. Si può diventare.

 

3922f7ccaa0c90d3928a4acd84d22777--as-above-so-below-light-photography
31865662673_0b6aa5f0e0_b

 

 

 

44. Buon Anno Nuovo cari amici-viaggiatori di blogultima modifica: 2018-12-29T13:14:25+01:00da mara.alunni

2 pensieri riguardo “44. Buon Anno Nuovo cari amici-viaggiatori di blog”

  1. Radici.
    Esiste, a ben vedere, una “mappa” del mondo interiore. Probabilmente la più importante.
    Un ricordo bellissimo il tuo.
    Un abbraccio “Signora”.

    1. Sì, la mappa interiore è la più importante, è quella che fa disegnare la mappa sui fogli delle carte geografiche, sui mappamondi, sul modo di stringere la mano, sulla capacità di rispettarsi a vicenda. Un abbraccio a te :-*

I commenti sono chiusi