51. “Che sciagura, signor Sindaco, che Dio non si sia limitato alla …”

MARGUERITE YOURCENAR, Novelle orientali, Rizzoli 1983, PP. 131-135

LA TRISTEZZA DI CORNELIUS BERG
Cornelius Berg, dopo il suo ritorno ad Amsterdam, abitava alla locanda. Le cambiava sovente, sloggiando quando bisognava pagare, dipingendo talvolta ancora piccoli ritratti, quadretti di genere su commissione, e qua e là qualche nudo per un amatore. Lungo le strade sperava nella fortuna di un’insegna. La sua mano tremava, disgraziatamente; doveva sostituire le lenti con altre sempre più forti; quel vino, di cui l’Italia gli aveva dato il gusto, guastava, con il tabacco, quella sicurezza di tocco che gli restava e che era ancora il suo vanto. Si indispettiva, rifiutava di consegnare l’opera, comprometteva tutto con ritocchi e raschiamenti, finiva per non lavorare più.
Passava ore e ore al fondo delle taverne fumose come la coscienza di un ubriaco, dove certi antichi allievi di Rembrandt, suoi condiscepoli un tempo, sperando che raccontasse i suoi viaggi gli pagavano da bere. Ma il paese polveroso dove Cornelius aveva lasciato i pennelli e le sacche di colori risultava meno preciso nella sua memoria di quanto non fosse stato nei suoi progetti futuri; e non trovava più, come al suo tempo giovane, quelle grasse facezie che facevano singhiozzare di risate le serve. Chi si ricordava il vociferante Cornelius di un tempo si stupiva ora di ritrovarlo così taciturno; soltanto l’ubriachezza gli restituiva la lingua, e allora teneva certi discorsi incomprensibili. Se ne stava seduto con il viso verso la parete e il cappello sugli occhi per non vedere il pubblico che, diceva, lo disgustava. Cornelius, vecchio pittore di ritratti, che a lungo aveva abitato in una soffitta di Roma, per tutta la vita aveva fin troppo scrutato i volti umani; se ne distoglieva ora con irritata indifferenza; arrivava a dire che non gli piaceva dipingere animali perché gli animali somigliano troppo all’uomo.
Man mano che si dissipava quel poco di talento che aveva posseduto, pareva che gli si sostituisse il genio. Si sedeva davanti al cavalletto, nella sua mansarda in disordine, si posava accanto un bel frutto raro che costava parecchio e che bisognava affrettarsi a riprodurre sulla tela prima che quella pelle brillante perdesse ogni freschezza, oppure un semplice paiolo, qualche buccia. Una luce gialla invadeva la camera; la pioggia lavava umilmente i vetri; l’umidità regnava ovunque. L’elemento umido tendeva sotto forma di linfa la sfera grumosa dell’arancia, gonfiava gli assiti che gemevano un po’, appannava il rame del vaso. Ma presto lui riponeva i pennelli; le sue dita intorpidite , un tempo così pronte a dipingere su ordinazione certe Veneri coricate e certi Gesù dalla barba bionda intenti a benedire bambini nudi e donne paludate, rinunciavano a riprodurre sulla tela quella doppia colata umida e luminosa che impregnava le cose e offuscava il cielo. Toccando gli oggetti che non dipingeva più, le sue mani deformate esprimevano tutta la sollecitudine della tenerezza. Nella triste strada d’Amsterdam, sognava campagne tremule di rugiada , più belle delle rive crepuscolari dell’Anio, ma deserte, troppo sacre per l’uomo. Quel vecchio che la miseria sembrava gonfiare, pareva affetto da una idropisia del cuore. Cornelius Berg, raffazzonando qua e là qualche opera meschina, con i suoi segni eguagliava Rembrandt.
Non aveva riannodato i rapporti con i pochi parenti che gli restavano. Alcuni non l’avevano riconosciuto; altri fingevano d’ignorarlo. L’unico che lo salutasse ancora era il vecchio Sindaco di Haarlem.
Per tutta una primavera lavorò in quella piccola città chiara e pulita, dov’era stato incaricato di dipingere false architetture in legno sul muro della chiesa. La sera, finito il lavoro, non gli dispiaceva entrare da quel vecchio dolcemente istupidito dalla routine di un’esistenza monotona, che se ne viveva da solo, abbandonato alle cure ovattate di una fantesca, che dell’arte non sapeva un bel nulla. Cornelius spingeva l’esile barriera di legno pitturato;nel giardinetto accanto al canale, l’appassionato di tulipani l’aspettava in mezzo ai fiori. Cornelius non riusciva a prendere troppo interesse per quegli inestimabili bulbi, ma era bravissimo nel distinguere i minimi particolari delle forme, le minime sfumature delle tinte, e sapeva che il vecchio Sindaco non lo invitava che per avere un parere su una nuova varietà. Nessuno avrebbe saputo disegnare con precise parole l’infinita diversità dei bianchi, degli azzurri, dei rosa e dei lilla. Gracili, rigidi, i calici patrizi sorgevano dal suolo grasso e nero: un odore acquatico, che salva dalla terra, era il solo a fluttuare su quelle fioriture senza profumo. Il vecchio Sindaco si prendeva un vaso sulle ginocchia, e stringendo lo stelo fra le due dita, come se lo prendesse per la vita, faceva silenziosamente ammirare quella delicata meraviglia. Si scambiavano ben poche prole: Cornelius Berg esprimeva il suo parere annuendo.
Quel giorno il Sindaco era felice per un successo più raro degli altri: il fiore, bianco e violaceo, aveva quasi le striature di un ireos. Lo considerava, lo rigirava da tutte le parti, e poi disse, appoggiandolo a terra:
– Dio è un grande pittore.
Cornelius Berg non rispose. Il pacifico vecchio riprese:
– Dio è il pittore dell’universo.
Cornelius Berg guardava ora il fiore e ora il canale. Quell’opaco specchio plumbeo non rifletteva che aiuole, muretti di mattoni e la liscivia delle massaie, ma il vecchio vagabondo stanco ci contemplava dentro, vagamente, l’intiera sua vita. Rivedeva certi particolari di fisionomie colte nel corso dei suoi lunghi viaggi, l’Oriente sordido, il Sud sbracato, ed espressioni di avarizia, d’idiozia o di ferocia osservate sotto tanti bellissimi cieli, i tuguri miserabili, le malattie vergognose, le risse a coltellate sulla soglia delle taverne, il viso secco degli usurai e il bel corpo rotondo del suo modello, Federico Gerritsdochter, steso sul tavolo anatomico della scuola di medicina di Friburgo. Poi sopravvenne un altro ricordo. A Costantinopoli, dove aveva dipinto qualche ritratto di Sultano per l’ambasciatore delle Province Unite, lui aveva avuto l’occasione di ammirare un altro giardino di tulipani, orgoglio e gioia di pascià che contava sul pittore per immortalare , nella sua breve perfezione, il suo harem floreale. All’interno di un cortile di marmo palpitava l‘adunata dei tulipani che sembravano frusciare con i loro colori smaglianti o teneri. Su una vasca, un uccello cantava; le punte dei cipressi bucavano il cielo pallidamente azzurro. Ma lo schiavo che per ordine del padrone mostrava allo straniero quelle meraviglie era guercio, e sull’occhio recentemente perduto si affollavano le mosche. Cornelius Berg ebbe un lungo sospiro. Poi, togliendosi gli occhiali:
– Dio è il pittore dell’universo.
E con amarezza, a voce bassa:
– Che sciagura, signor Sindaco, che Dio non si sia limitato alla pittura di paesaggi.

Dal post-scriptum dell’Autrice
Questa ristampa delle Novelle orientali, nonostante le numerosissime correzioni puramente stilistiche, le lascia sostanzialmente com’erano al momento della loro prima apparizione in libreria nel 1938. 
[…]
Infine, La tristezza di Cornelius Berg (I tulipani di Cornelius Berg, nel vecchio testo) era stato concepito come conclusione di un romanzo che fino a ora è incompiuto. Non è affatto orientale, se si eccettuano due brevi allusioni a un viaggio dell’Artista in Asia Minore (e una è perfino un’aggiunta recente), e tutto sommato questa storia non sembra appartenere allo stesso genere delle precedenti. Ma non ho resistito al desiderio di contrapporre simmetricamente al grande pittore cinese, perduto e salvato all’interno della sua opera, questo oscuro contemporaneo di Rembrandt che medita con malinconia sulla propria.
(la Yourcenar, scrivendo del “grande pittore cinese” si riferisce alla novella dal titolo “Come Wang-Fo fu salvato“, anch’essa contenuta nelle Novelle orientali. [nota di navigaria])

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51. “Che sciagura, signor Sindaco, che Dio non si sia limitato alla …”ultima modifica: 2019-01-22T15:04:49+01:00da mara.alunni

2 pensieri riguardo “51. “Che sciagura, signor Sindaco, che Dio non si sia limitato alla …””

  1. Yourcenar mi piace moltissimo. Ciò che più apprezzo nella sua parola è la coesistenza di una rara eleganza che descrive la grazia e uno spietato realismo mai dissacratore, piuttosto edificante. Penso ad esempio alle riflessioni di Adriano sull’arte venatoria la cui esistenza avrebbe limitato tante guerre e dissidi umani di varia natura.
    Crudele, impietosa ma estremamente profonda.

    1. Buongiorno carissimo. Anche a me piace moltissimo la Yourcenar, le sue opere fanno parte delle mie riletture: ha su di me la capacità di attrarre il mio sguardo lontano, verso orizzonti sconosciuti e affascinanti. I personaggi da lei creati sono meravigliosi, impossibile dimenticare l’imperatore Adriano (“M’importava assai poco che l’accordo ottenuto fosse esteriore, imposto, probabilmente temporaneo; sapevo che il bene e il male sono una questione d’abitudine, che il temporaneo si prolunga, che le cose esterne penetrano all’interno, e che la maschera, a lungo andare, diventa il volto”) o il filosofo-scienziato-alchimista Zenone dell’Opera al Nero (“So che non so quel che non so; invidio coloro che sapranno di più, ma so che anch’essi, come me, avranno da misurare, pesare, dedurre e diffidare delle deduzioni ottenute, stabilire nell’errore qual è la parte del vero e tener conto nel vero dell’eterna presenza di falso”). E insisto nel dire che mi piacciono le tue critiche letterarie, mi ricordano i testi di questa materia studiati all’università e mi confermano la validità del buon lettore, di quanto un libro possa essere arricchito da una sapiente lettura.
      La Yourcenar sa essere, è vero, crudele impietosa profonda e poetica: e in questa raccolta lo è particolarmente. Probabilmente condividerò in questo spazio altri suoi racconti tratti dalle “Novelle orientali”.
      Grazie, buona giornata.

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