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71. LEI ... e "ma tu prendi tutto il foglio" e "Disegna figure grandi forti, senza paura, sempre pronte a partire per una bella avventura."


LEI Poi mi guarda. Era solo un attimo fa che mi voltava le spalle o sono trascorsi anni? Non lo so, se devo essere onesta devo ammettere che il passato non posso conoscerlo, posso immaginarlo, posso leggere resoconti scritti, ma conoscerlo no. E allora che ne so di quanto tempo sia trascorso con quelle mute spalle davanti a me, tra me e la finestra, la sagoma scura a farsi presenza nel rettangolo della luce del giorno o tra le stelle della notte. No, non lo so quanto silenzio abbia detto. Adesso mi guarda, e non so nemmeno quando si sia voltata verso me. Non somiglia a nessuna delle immagini con cui è stata rappresentata e ho la certezza, in questo momento, che non somigli mai a nulla e che ognuno La veda a proprio modo, quando La incontra. So che è Lei, soprattutto perché posso descriverLa, finora, solo con una serie di non so, di negazioni e disconoscimenti rispetto al già dato su di Lei. Mi guarda. E' qui ed è distante e sento che oltre ad essere una delle signore del Tempo lo è anche dello Spazio, in un modo inscindibile; e so per certo, adesso, che noi umani, abituati a vivere sempre più in piccoli ambiti, vittime della nostra stessa attitudine a definire e separare, abbiamo potuto pensarLa soltanto come viaggiatrice su un filo sottile, mentre si muove su estese trame come indiscussa regina. Dispiega davanti ai miei occhi una conoscenza inaudita: sì, è vero, per Lei l'impossibile è ciò che noi chiamiamo realtà o la nostra esperienza, mentre il possibile è lì davanti e intorno a noi ogni attimo, come un'offerta preziosa ogni attimo rinnovata, e Lei ride di questo, di questo nostro muoverci a partire dall'impossibile. Mi guarda, non parla, e conosco. Se questa fosse una storia e l'avessi scritta prima di questo momento, avrei potuto pensare, a questo punto, di darLe il mio stesso nome, di farLa anche immaginare come un'altra me che mi si disvela al momento opportuno, una parte rimasta silente e in disparte, come gemma latente in attesa di svilupparsi al momento opportuno. Lei, una parte di me. Mi piacerebbe poterlo dire, o forse no, ne ho paura, provo inquietudine. Lei non dice nulla, mi lascia ai miei pensieri, al monologo interiore col quale tento di definirLa -di nuovo definire definire!- e invece, chissà, mi sta dando un'opportunità di conoscenza che io non so afferrare. Penso improvvisamente all'eternità, se ci sarò là in mezzo e sarà un'eternitudine o uno scoppiettante e costante atto creativo, penso se la differenza la farà il mio comportamento di adesso, penso a dove mi accompagnerà Lei dopo questo momento, e penso al perché non La chiamo col suo nome, quello con cui tutti La chiamano, e penso che ah, no, non posso, non somiglia in nulla a come l'hanno raffigurata nei secoli e allora mi chiedo perché L'ho riconosciuta, perché so che è Lei. Sto sognando mi dico, è così, adesso mi sveglio, nel riquadro della finestra non c'è mai stata fissa questa figura, su, ragiona, mi dico, hai sempre guardato fuori senza impedimenti e c'era il cielo, c'era il prato, la lunga fila di querce a fare da confine tra due campi, ed è quasi Natale, svegliati o cambia sogno, Lei Lei Lei arriva quando arriva e lasciaLa stare, non te La mettere accanto prima del tempo, Lei è Lei e tutti lo sanno com'è fatta, lasciaLa stare. Mi ricordo che ho la febbre, ah sì, è la febbre, questo è un sogno figlio della febbre, o è un pensiero ma sempre figlio della febbre. Un po' mi tranquillizzo, non che avessi proprio paura, ma non so se Lei sta qui di passaggio, giusto per un saluto, o per farmi fare un bel viaggio insieme. Ed è come è, è così come La vedo, inusuale nel suo rappresentarsi a me. Punto e basta. L'ho riconosciuta, e basta. Ora apro gli occhi - mi dico- mi sveglio, basta, finisce tutto. La guardo ancora una volta. E' Immobile, mi guarda. Trascorrono tra me e Lei una serie di informazioni incredibili, mentre la stanza si trasforma e vengo attratta verso la finestra che non è più una finestra, vengo buttata fuori, dove non ci sono alberi, ma una distesa bianca con macchie rosse e ci sono voci di donne, contente, e poi ci sono i giorni che sembrano persone che corrono e poi la scuola e poi... oddio, sta accadendo, Lei mi sta portando via davvero, sto rivedendo la mia vita, è proprio come dicono. Chiudo gli occhi, serro a pugno le mani, punto i piedi non so dove, voglio fermarmi ma cado all'indietro e cado e cado finché piombo in quello che mi sembra un letto. Apro gli occhi velocemente, o adesso mai più. "Come stai?" mi chiede. "Stavi sognando. Ti avevo portato un bel tè caldo, ma non ho voluto svegliarti." E' lì, in piedi, scura in controluce nel riquadro chiaro della finestra. Ferma, mi guarda. Parla. "Grazie mamma", le dico. (16 dicembre 2016)

Appeso a una parete ho visto il tuo disegnino: su un foglio grande grande c’era un uomo in un angolino.

Un uomo piccolo, piccolo, forse anche un po’ spaventato da quel deserto bianco in cui era capitato,

e se ne stava in disparte non osando farsi avanti come un povero nano nel paese dei giganti.

Tu l’avevi colorato con vera passione: ricordo il suo magnifico cappello arancione.

Ma la prossima volta, ti prego di cuore, disegna un uomo più grande, amico pittore.

Perché quell’uomo sei tu, tu in persona, ed io voglio che tu conquisti il mondo: prendi, intanto, tutto il foglio!

Disegna figure grandi forti, senza paura, sempre pronte a partire per una bella avventura.

Gianni Rodari, A un bambino pittore, in "Il libro degli errori" Einaudi, Torino 1993, disegni di Bruno Munari