229. decidere per la vita di un’altra persona: cosa significa “amare” in quel momento?

E’ domenica 22 dicembre.
Siamo di nuovo di fronte alla porta del Pronto Soccorso, in attesa che esca qualche medico a dirci qualcosa. Dentro c’è mio padre, il terzo ricovero in due mesi, a due/tre giorni di distanza l’uno dall’altro.
Le luci del corridoio hanno sfumature grigie, sembrano le ombre del buio esterno che si riflette sui muri bianchi. C’è silenzio.
Una dottoressa apre la porta e mi fa cenno di entrare. Mia sorella e mio cognato sono due passi più in là e probabilmente non li ha visti.
Entro.
Mi viene spiegata la situazione di mio padre, che già conosco. Stavolta, in più, mi viene chiesto di decidere se intubarlo o no.
Il mondo può crollare e restare intatto. Ed è una situazione di dolore che ho già vissuto interiormente così, ‘come’ il crollo del mondo. Ma stavolta “è” il crollo del mondo.
Come posso io decidere per un’altra vita? Per la vita di mio padre?
Chiedo di far entrare anche mia sorella e mio cognato.
La luce è sempre più piena di ombre. I suoni dei macchinari del Pronto Soccorso diventano lontani.
Di nuovo la dottoressa descrive la situazione.
Mio padre non ha molti giorni di vita. Intubarlo potrebbe prolungare un po’ la sua esistenza, come potrebbe abbreviarla, e ci spiega perché. Oppure scegliamo di non fare nulla e di lasciar spegnere mio padre senza intervenire.
Siamo smarriti. Non abbiamo parole. Pochi balbettii: come facciamo a decidere? chiediamo; non abbiamo competenze mediche che ci aiutino, ripetiamo guardando la dottoressa e guardandoci tra noi.
Silenzi. Pause. Dolore. Smarrimento. Inadeguatezza.
La dottoressa ci dice di aspettare ed entra nella sala ricoveri del Pronto Soccorso.
Rimaniamo in attesa. Vorremmo essere salvati. Vorremmo che questo momento non esistesse, per mio padre, per noi.
Non mi riconosco dentro questa esperienza, il dolore ha dovuto includere anche questo momento, che non avrei mai voluto vivere.
Dopo un po’ arriva un medico. Giovane, autorevole nell’aspetto e nei modi. E’ uno dei medici della rianimazione. Ci chiede di raccontargli. Glielo diciamo. Gli diciamo che non sappiamo cosa fare, perché non ci appartiene l’idea di decidere per la vita di un’altra persona, di nostro padre, e perché non abbiamo conoscenze mediche tali da aiutarci in qualche modo.
Intanto continuo a pensare a mio padre, che è a pochi passi da noi, solo, e vorrei essere con lui, solamente questo, vicino a lui, che sappia che siamo qui.
Il medico ci ascolta. E poi ci dice che non siamo noi a dover prendere questa decisione. La prende lui, è una decisione che deve prendere il medico, ci dice. Non intuberà il babbo, perché l’operazione non è finalizzata a salvargli la vita, mio padre non può essere salvato. Inoltre ci sono i rischi operatori e post-operatori. Insomma, sofferenze inutili, da non aggiungere a quelle che già lo affliggono.
Poi tace. Aspetta le nostre reazioni, oltre le lacrime che ha già visto. Lo ringraziamo. Se ne va.
Rimaniamo lì, finché ci chiamano per accompagnare mio padre in reparto. Per stanotte verrà ricoverato in ortopedia, perché in medicina non c’è posto.
Arriviamo in una camera con due letti. Uno è già occupato e accanto c’è una donna che fa l’assistenza al malato. Il babbo viene messo nel letto più vicino alla porta. C’è un’infermiera che sembra un angelo: lo accudisce con delicatezza e attenzione, gli parla con un tono di voce amorevole; nei suoi gesti noto dettagli che sembrano andare oltre i comportamenti richiesti dal suo lavoro; è presente, c’è, non so dirlo in altro modo.
Dopo che al babbo sono state date tutte le cure necessarie, con mia sorella e mio cognato prepariamo la sdraio per me, che passerò la notte ad assistere mio padre. L’infermiera porta un cuscino per me e per l’altra donna che fa l’assistenza notturna. Ho tutto, ho anche una coperta.
Mia sorella e mio cognato mi salutano, se ne vanno.
Il babbo vuole che rimanga accesa la luce della notte. E’ una luce che non ha ombre, ci tiene compagnia.
Per il poco resto della notte , il babbo sonnecchia, a volte anch’io, entrambi di un non-sonno, di una veglia che ogni tanto cede a una parvenza di tregua.
E così, fino all’alba. Io pronta a dare da bere a mio padre quando lo chiede, lui nel silenzio delle sue sofferenze.
Per i giorni successivi la strada sarà questa.
Riserverà molti momenti diversi, inaspettati, noti, ripetuti, nuovi, teneri, dolorosi, amorevoli.
Mio padre morirà uno dei primi giorni di gennaio.
Ero vicino a lui, con tutti gli altri famigliari.
Non ho più incontrato quel medico che quella sera pre-natalizia fece il medico, assumendo una decisione che davvero non poteva essere delegata a noi figlie in nessun modo.

So che invece si decide tante volte per la vita non solo di un’altra persona, ma di molte altre persone, anche se non è palese o non ci viene chiesto in modo palese come successe a noi quella sera..
Nei casi simili a quello di mio padre, bisogna dirla giusta questa cosa, e giusta è “per la ‘morte’ di un’altra persona”.

Per la vita di un’altra persona e di altre persone, se ci pensiamo bene, si decide sempre. A volte è con amore: i genitori che nutrono i figli piccoli, per esempio. A volte è con cattiveria. A volte con arroganza, a volte con tenerezza.
Si decide in tanti modi, diretti e indiretti.
E’ meglio saperlo.
Il mondo non fa a meno di nessuno noi.
Mai.

229. decidere per la vita di un’altra persona: cosa significa “amare” in quel momento?ultima modifica: 2020-10-22T21:11:25+02:00da mara.alunni

2 pensieri riguardo “229. decidere per la vita di un’altra persona: cosa significa “amare” in quel momento?”

  1. Il medico non ha deciso un bel niente. Da ciò che racconta lei, è evidente che suo padre non aveva speranze di sopravvivere. Non intubandolo gli hanno solo risparmiato inutili sofferenze. Condoglianze.

    1. Il medico usò quella frase che riporto nel post. E infatti, proprio per evitare a mio padre inutili sofferenze, il medico disse che si assumeva lui la responsabilità della decisione. D’altronde, come ho scritto nel post, la dottoressa del Pronto Soccorso ci aveva proprio chiesto di “decidere” se intubare mio padre (con tutti i rischi che ciò comportava e ripetendoci, come già noi sapevamo da tempo, che non poteva comunque essere salvato, ma che forse sì o forse no sarebbe vissuto qualche giorno in più) o ricoverarlo “accompagnando” i suoi ultimi giorni senza ulteriori strazi. Il medico della Rianimazione “decise” proprio perché mio padre non aveva speranze di sopravvivere, e “decise” da medico ciò che noi figlie non avremmo mai potuto, perché non avevamo noi in prima persona le informazioni mediche -le avevamo appunto dai medici- e perché siamo le figlie, cioè legate al padre da un rapporto di vita, da una relazione affettiva vitale, e non da una gerarchia predatoria in cui noi occupavamo il posto decisionale. Sono quei momenti così difficili e dolorosi da vivere; e pongono domande le cui risposte sembrano assodate, ma appunto ‘sembrano’. “Amare”: cosa significava in quel momento? La ringrazio per le condoglianze.

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