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299. Dino Buzzati, Il paradiso degli animali


Nel paradiso degli animali l’anima del somarello chiese all’anima del bue: – Ti ricordi per caso quella notte, tanti anni fa, quando ci siamo trovati in una specie di capanna e là, nella mangiatoia…? – Lasciami pensare… Ma sì – rispose il bue. – Nella mangiatoia, se ben ricordo, c’era un bambino appena nato. – Bravo. E da allora sapresti immaginare quanti anni sono passati? – Eh no, figurati. Con la memoria da bue che mi ritrovo. – Millenovecentosettanta, esattamente. – Accidenti! – E a proposito, lo sai chi era quel bambino? – Come faccio a saperlo? Era gente di passaggio, se non sbaglio. Certo, era un bellissimo bambino. L’asinello sussurrò qualche cosa in un orecchio al bue. – Ma no! – fece costui – Sul serio? Vorrai scherzare spero. – La verità. Lo giuro. Del resto io l’avevo capito subito… – Io no – confessò il bue – Si vede che tu sei più intelligente. A me non aveva neppure sfiorato il sospetto. Benché, certo, a vedersi, era un fantolino straordinario. – Bene, da allora gli uomini ogni anno fanno grande festa per l’anniversario della nascita. Per loro è la giornata più bella. Tu li vedessi. È il tempo della serenità, della dolcezza, del riposo dell’animo, della pace, delle gioie famigliari, del volersi bene. Perfino i manigoldi diventano buoni come agnelli. Lo chiamano Natale. Anzi, mi viene un’idea. Già che siamo in argomento, perché non andiamo a dare un’occhiata? – Dove? – Giù sulla terra, no! – Ci sei già stato? – Ogni anno, o quasi, faccio una scappata. Ho un lasciapassare speciale. Te lo puoi fare dare anche tu. Dopotutto, qualche piccola benemerenza possiamo vantarla, noi due. – Per via di aver scaldato il bimbo col fiato? – Su, vieni, se non vuoi perdere il meglio. Oggi è la Vigilia. – E il lasciapassare per me? – Ho un cugino all’ufficio passaporti. Il lasciapassare fu concesso. Partirono. Lievi lievi, come mammiferi disincarnati. Planarono sulla terra, adocchiarono un lume; vi puntarono sopra. Il lume era una grandissima città. Ed ecco il somarello e il bue aggirarsi per le vie del centro. Trattandosi di spirito, automobili e tram gli passavano attraverso senza danno, e alla loro volta le due bestie passavano attraverso i muri come se fossero fatti d’aria. Così potevano vedere bene tutto quanto. Era uno spettacolo impressionante, mille lumi, le vetrine, le ghirlande, gli abeti e lo sterminato ingorgo di automobili, e il vertiginoso formicolio della gente che andava e veniva, entrava e usciva, tutti carichi di pacchi e pacchetti, con un’espressione ansiosa e frenetica, come se fossero inseguiti. Il somarello sembrava divertito. Il bue si guardava intorno con spavento. – Senti, amico: mi avevi detto che mi portavi a vedere il Natale. Ma devi esserti sbagliato. Qui stanno facendo la guerra. – Ma non vedi come sono tutti contenti? – Contenti? A me sembrano dei pazzi. – Perché tu sei un provinciale, caro il mio bue. Tu non sei pratico degli uomini moderni, tutto qui. Per sentirsi felici, hanno bisogno di rovinarsi i nervi. Per togliersi da quella confusione, il bue, valendosi della sua natura di spirito, fece una svolazzatina e si fermò a curiosare a una finestra del decimo piano. E l’asinello, gentilmente, dietro. Videro una stanza riccamente ammobiliata e nella stanza, seduta ad un tavolo, una signora molto preoccupata. Alla sua sinistra, sul tavolo, un cumulo alto mezzo metro di carte e cartoncini colorati, alla sua destra una pila di cartoncini bianchi. Con l’evidente assillo di non perdere un minuto, la signora, sveltissima, prendeva uno dei cartoncini colorati lo esaminava un istante poi consultava grossi volumi, subito scriveva su uno dei cartoncini bianchi, lo infilava in una busta, scriveva qualcosa sulla busta, chiudeva la busta quindi prendeva dal mucchio di destra un altro cartoncino e ricominciava la manovra. Quanto tempo ci vorrà a smaltirlo? La sciagurata ansimava. – La pagheranno, bene, immagino, – fece il bue – per un lavoro simile. – Sei ingenuo, amico mio. Questa è una signora ricchissima e della migliore società. – E allora perché si sta massacrando così? – Non si massacra. Sta rispondendo ai biglietti di auguri. – Auguri? E a che cosa servono? – Niente. Zero. Ma chissà come, gli uomini ne hanno una mania. Si affacciarono, più in là, a un’altra finestra. Anche qui, gente che, trafelata, scriveva biglietti su biglietti, la fronte imperlata di sudore. Dovunque le bestie guardassero, ecco uomini e donne fare pacchi, preparare buste, correre al telefono, spostarsi fulmineamente da una stanza all’altra portando spaghi, nastri, carte, pendagli e intanto entravano giovani inservienti con la faccia devastata portando altri pacchi, altri scatole altri fiori altri mucchi di auguri. E tutto era precipitazione ansia fastidio confusione e una terribile fatica. Dappertutto lo stesso spettacolo. Andare e venire, comprare e impaccare spedire e ricevere imballare e sballare chiamare e rispondere e tutti correvano tutti ansimavano con il terrore di non fare in tempo e qualcuno crollava boccheggiando. – Mi avevi detto – osservò il bue – che era la festa della serenità, della pace. – Già – rispose l’asinello. – Una volta infatti era così. Ma, cosa vuoi, da qualche anno, sarà questione della società dei consumi… Li ha morsi una misteriosa tarantola. Ascoltali, ascoltali. Il bue tese le orecchie. Per le strade nei negozi negli uffici nelle fabbriche uomini e donne parlavano fitto fitto scambiandosi come automi delle monotone formule buon Natale auguri auguri a lei grazie altrettanto auguri buon Natale. Un brusio che riempiva la città. – Ma ci credono? – chiese il bue – Lo dicono sul serio? Vogliono davvero tanto bene al prossimo? L’asinello tacque. – E se ci ritirassimo un poco in disparte? – suggerì il bovino. – Ho ormai la testa che è un pallone… Sei proprio sicuro che non sono usciti tutti matti? – No, no. È semplicemente Natale. – Ce n’è troppo, allora. Ti ricordi quella notte a Betlemme, la capanna, i pastori, quel bel bambino. Era freddo anche lì, eppure c’era una pace, una soddisfazione. Come era diverso. – E quelle zampogne lontane che si sentivano appena appena. – E sul tetto, ti ricordi, come un lieve svolazzamento. Chissà che uccelli erano. – Uccelli? Testone che non sei altro. Angeli erano. – E la stella? Non ti ricordi che razza di stella, proprio sopra la capanna? Chissà che non ci sia ancora. Le stelle hanno una vita lunga. – Ho idea di no – disse l’asino – c’è poca aria di stelle, qui. Alzarono il muso a guardare, e infatti non si vedeva niente, sulla città c’era un soffitto di caligine e di smog.