99. i poeti dentro il mio mondo, il mio mondo dentro i poeti

C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole,
anzi d’antico: io vivo altrove, e sento
che sono intorno nate le viole.
in Giovanni Pascoli, L’aquilone, in Primi poemetti, 1907

paul-kleePaul Klee, Dal grigiore della notte, acquerello 1918

Mio padre mi chiede -ma già lo sa perché legge le targhette sui bordi delle mensole- se i libri della libreria vicino alla porta dello studio sono libri di poesia. Sì, gli rispondo. Allora mi chiede di prenderne uno, ché lo vorrebbe leggere. Io trasecolo, perché mai è accaduta una cosa così, e vado e ne prendo tre e apro a caso Pascoli e leggo a voce alta “L’aquilone” e mi commuovo.
E poi mio padre e mia madre si mettono a sfogliare i libri della Merini, di Gibran, di Luzi -“prendi quelli che sono scritti grandi, così si possono leggere bene”- e leggono mentalmente, in un silenzio dorato dalla luce del sole che inonda la stanza.
Adesso impiegano entrambi almeno dieci minuti tra scendere dalla macchina, parcheggiata vicinissima alle scale, e salire i pochi gradini ed entrare in casa; e ci vogliono almeno due persone che li aiutano e soprattutto ci vuole la loro volontà di festeggiare insieme certi giorni di festa. Sono miracoli i loro passi.
E poi è così, li vedo con i libri di poesia nelle mani. E ci sono attimi in cui so perfettamente chi io sia, in mezzo a un silenzio dorato dalla luce del sole e cantato dalla Merini da Gibran e da Luzi attraverso gli occhi di mia madre e mio padre.
(Pasqua 2015)

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https://www.colorivivacimagazine.com/2019/01/la-mappa-sonora-mondiale-della-poesia/

http://www.poetrysoundlibrary.weebly.com/

http://ilblog.circololettori.it/2017/12/15/paul-klee/

http://www.crescerecreativamente.org/2009/09/realizzare-un-mappamondo-per-imparare.html

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98. Jorges Luis Borges e Nazim Hikmet: un po’ di tango e un po’ di poesia per alcuni momenti famigliari

 

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https://www.rivistastudio.com/tango-borges/

Dedicato a mio padre, che tra dieci giorni compirà 94 anni.
Con lui ho imparato a ballare il tango, nelle piazze durante le feste di paese. Un tango fatto di passi, non di acrobazie: “ballare è camminare a tempo”, diceva.
Mio padre ballava benissimo, è stato incantevole, per me, sentire la sua leggerezza e seguire la sua inventiva.

E a mia sorella, con cui ho ballato molte volte, allieve della stessa scuola paterna, e lei bravissima.

A mio padre, a mia sorella; anche ballando nelle piazze dei paesini abbiamo conosciuto momenti di felicità: dentro il cerchio definito da chi, fermo in piedi, non ballava; il suolo di pietre o di asfalto e andava bene lo stesso; le orchestrine e le fisarmoniche sconosciute; le notti illuminate dalle luci improbabili delle feste di paese; le coppie che fino a poche ore prima avevano lavorato nei campi e che si muovevano leggiadre e leggere come libellule con le loro belle pance strabordanti e con i sederoni puntati verso l’alto; i vestiti della festa la sera ormai un po’ stropicciati; nell’aria gli odori della cena della festa, del sudore del ballo e della terra che c’è sempre in un paesino; ed era poco ed era tanto ed era tutto.

https://www.solotangoargentino.com/storia-del-tango/

 

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Nazim Hikmet

L’uomo

Le piante, da quelle di seta fino alle più arruffate
gli animali, da quelli a pelo fino a quelli a scaglie
le case, dalle tende di crine fino al cemento armato
le macchine, dagli aeroplani al rasoio elettrico

e poi gli oceani e poi l’acqua nel bicchiere
e poi le stelle
e poi il sonno delle montagne
e poi dappertutto mescolato a tutto l’uomo

ossia il sudore della fronte
ossia la luce nei libri
ossia la verità e la menzogna
ossia l’amico e il nemico
ossia la nostalgia la gioia il dolore

sono passato attraverso la folla
insieme alla folla che passa.

Alla vita

La vita non è uno scherzo.
Prendila sul serio
come fa lo scoiattolo, ad esempio,
senza aspettarti nulla dal di fuori o nell’al di là.
Non avrai altro da fare che vivere.

La vita non è uno scherzo.
Prendila sul serio
ma sul serio a tal punto
che messo contro un muro, ad esempio, le mani legate,
o dentro un laboratorio
col camice bianco e grandi occhiali,
tu muoia affinché vivano gli uomini
gli uomini di cui non conoscerai la faccia,
e morrai sapendo
che nulla è più bello, più vero della vita.

Prendila sul serio
ma sul serio a tal punto
che a settant’anni, ad esempio, pianterai degli ulivi
non perché restino ai tuoi figli
ma perché non crederai alla morte
pur temendola,
e la vita peserà di più sulla bilancia.

Angina pectoris

Se qui c’è la metà del mio cuore, dottore,
l’altra metà sta in Cina
nella lunga marcia verso il Fiume Giallo.

E poi ogni mattina, dottore,
ogni mattina all’alba
il mio cuore lo fucilano in Grecia.

E poi, quando i prigionieri cadono nel sonno
quando gli ultimi passi si allontanano
dall’infermeria
il mio cuore se ne va, dottore,
se ne va in una vecchia casa di legno, a Istanbul.

E poi sono dieci anni, dottore,
che non ho niente in mano da offrire al mio popolo
niente altro che una mela
una mela rossa, il mio cuore.

È per tutto questo, dottore,
e non per l’arteriosclérosi, per la nicotina, per la prigione,
che ho quest’angina pectoris…

Guardo la notte attraverso le sbarre
e malgrado tutti questi muri che mi pesano sul petto
il mio cuore batte con la stella più lontana.

 

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96. Hillman, Cavezzali e Jung … mappe interessanti

“L’amore non è personale : questo è il punto decisivo che continuiamo a dimenticare. E’ questa la sua principale fissazione, la sua principale isteria. Perché [l’amore] non è suo, non è mio. E neanche degli dèi, probabilmente. Eros non era un dio in un contesto greco [ma un dèmone], nel contesto di gran parte delle culture, tranne il Cristianesimo. Si presume che questo sia un pregio della religione cristiana, la prova della sua unicità : il Cristianesimo ha fatto dell’amore il suo Dio. Così, per restare in contatto con il Dio della nostra cultura dobbiamo sentire amore, innamorarci, essere amabili, amare gli altri e noi stessi secondo il comandamento, e l’amore diventa un enorme problema, il principale obiettivo dello sforzo terapeutico. Nella cultura cristiana il problema dell’amore è intrecciato a quello della salvezza dell’anima e della ricerca di Dio. […]
Se appena potessimo lasciare solo l’amore. Se solo potessimo dargli più spazio e meno attenzione, baderebbe a se stesso. E’ come ospitare in casa un amico : non chiedetegli ogni minuto se è comodo; o un malato : non provategli continuamente la febbre. Se solo sapessimo farci da parte, lasciarlo andare e venire. Cerchiamo sempre di incanalare l’amore, di “rivolgerlo”, di “condividerlo”… Perché? Può farsi vivo in ogni momento. E quello che cerca è PSICHE. Cerca l’anima, sulla quale ha un lavoro da svolgere. Voglio dire che l’amore è molto più interessato alle nostre fantasie, alle nostre immagini e ai nostri complessi che a noi personalmente, a quello che sentiamo e vogliamo e desideriamo. E’ questo a spaventarci a morte. Comincia ad attivare tutti i complessi. Tinge d’oro le fantasie rendendole irresistibili. Aurea Afrodite, la chiamavano. Splendente. Fiammeggiante. Ma l’amore non è una forza indipendente al di fuori delle immagini, dei complessi. E’ al loro interno, l’Eros è già nella Psiche, pronto a incendiarsi. La psiche è altamente infiammabile. Così la avvolgiamo nell’amianto, tenendo a distanza immagini e fantasie, e l’amore che contengono. In questo, Freud aveva ragione : Eros è il contenuto della Psiche rimossa. E la resistenza è come un muro a prova di fuoco. Ma all’amore non si può arrivare direttamente. E’ questo l’errore delle terapie che incoraggiano ad amare, che si concentrano sulla traslazione. Pensano di poter arrivare all’amore in modo diretto. Per quanto mi riguarda, io tento la via dell’anima, delle immagini, che comunque è dove l’amore si nasconde. Comincio semplicemente a conversare dall’anima e dell’anima, della paura di morire, di ricordi carichi di emozioni, di curiosi distacchi, di isolamento, e l’amore inizia a svegliarsi. […]
L’amore entra nella terapia perché cerca psiche, perché vuole psicologizzarsi, ed è un vero errore psicologico immaginare l’amore come qualcosa di personale. Naturalmente sembra personale perché è interiore, intimo, ma l’intimità riguarda l’anima, l’attivazione dei complessi . […]
Si racconta che il Buddha abbia detto che c’è paura in ogni cosa; ebbene, anche qui non è l’eros che è all’opera nella cosa, che la intensifica in immagine intelleggibile, che la rende psichica? E non è resistenza, quello che la cosa gli oppone? Ha paura. Ma noi non siamo queste emozioni, o almeno, esse sono un genere di “noi” molto diverso, non un Io o un Sè, ma noi in quanto particolare oggettivazione di quello che accade, o recipiente dell’incremento. Siamo fatti dal desiderio nella nostra stessa roccia fresca che, naturalmente, non è altro che i nostri complessi, i nostri problemi, le nostre patologie dure come la roccia. E’ qui che c’è il calore ed è qui, anche, che l’amore si accresce “.

James Hillman, Il linguaggio della vita

 

 

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«Non è poco confessare a se stessi il proprio vivo desiderio. Molti hanno bisogno di un particolare sforzo d’onestà. Troppi non vogliono sapere a che cosa anelano, perché ciò pare loro impossibile o troppo doloroso. Il desiderio è però la via della vita. Se non ammetti di fronte a te stesso il tuo desiderio, allora non seguirai te stesso ma strade estranee che altri hanno tracciato per te. Così non vivi la tua vita, ma una vita estranea.[…] solo un’imitazione scimmiesca.»

Jung, Libro Rosso, p.250

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5_Mappa-di-Hereford-dettaglio-col-mar-Rosso-e-la-Torre-di-BabeleMappa di Hereford, Dettaglio col Mar Rosso e la Torre di Babele

http://www.lundici.it/2017/08/imago-mundi-viaggio-fantastico-in-una-mappa-medievale/

 

 

 

 

94. meditazioni

ama il prossimo tuo come te stesso?
ama te stesso come ami il prossimo tuo?
… ché poi queste due frasi non sono mica interscambiabili!
non è la stessa cosa detta in due modi diversi 🙂 …

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…  se anche parlassi la lingua degli angeli ma non avessi l’amore …. 🙂

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di Pier Paolo Pasolini e Domenico Modugno

93. post dedicato al voler bene e al tener-sé per mano

IMG_20180630_155804_LEFFERApiccola biografia
Pallina Bella:
presa dalla strada appena investita
da qualcuno che non si era fermato a soccorrerla;
chiesto di aspettare al veterinario che consigliava di sopprimerla poiché lei era paralizzata dal collo in giù;
ha una leggerissima zoppia alla zampetta anteriore destra
e vola con tutta se stessa

Dedicato:
alla ragazzina che aveva letto tutti i libri  che c’erano dentro l’armadietto-biblioteca di classe della prima media, particolarmente quelli di poesia, di storia e di mitologia greca, e la professoressa di italiano le fece fare qualche lezione di letteratura, di storia greca e di mitologia ai compagni e alle compagne;
alla ragazzina che scriveva poesie di nascosto e non aveva nessuno con cui confrontarsi; e un giorno l’insegnante di italiano di seconda  media lesse a tutta la classe una poesia che la ragazzina aveva scritto su un foglio lasciato dentro il suo libro di letteratura, portato sulla cattedra durante un’interrogazione e dove la professoressa lo aveva trovato sfogliandolo casualmente; lesse la poesia a tutta la classe, guardando orgogliosa la ragazzina che, timidissima, invece aveva detto ‘no, professoressa, no, non la legga’; ma poi fu felice del “brava” che l’insegnante le regalò davanti a tutti, fu felice perché si sentì vista e riconosciuta per ciò che era;
alla ragazzina  i cui temi venivano letti in classe e a cui l’insegnante di italiano di terza media consigliò di iscriversi al liceo classico; e l’insegnante di disegno, invece, la pregò di iscriversi al liceo artistico e i disegni della ragazzina rimasero appesi  nell’aula d’arte delle scuole medie così a lungo che lei ebbe ancora modo di vederli da adulta.

Dedicato a quella Ragazzina, che dovette ripiegare di nuovo Le Grandi Ali -da così tempo le stava già ripiegando- perché nessuno del suo mondo voleva che Lei volasse.
Ci fossi stata io vicino a Lei, L’avrei presa per mano, L’avrei sostenuta nei suoi cammini, nella realizzazione di ciò che era e desiderava; ci fossi stata io L’avrei abbracciata, Le avrei detto brava, avrei conservato i Suoi quaderni e Suoi libri di allora a cui Lei teneva tanto. Se ci fossi stata io L’avrei amata, semplicemente, e il resto sarebbe venuto da sé.
Ma non c’ero, ci sono adesso, e adesso L’abbraccio; e io, adesso, mi lascio illuminare il mio cammino da Lei.
A quel Tesoro Di Ragazzina sepolta sotto le arroganze degli adulti dedico tre  meravigliose poesie di Mariangela Gualtieri.

 

La bambina è rimasta con me.
Non è mai nata.
Si sbilancia fra i miei precipizi
ride forte e lenta dorme
e forte resta
resta sempre. Col suo cuore
che fa cuore col mio.
La bambina di sole azzurrina.
(da Bestia di gioia, Einaudi, 2010)

 

Sii dolce con me. Sii gentile.
E’ breve il tempo che resta. Poi
saremo scie luminosissime.
E quanta nostalgia avremo
dell’umano. Come ora ne
abbiamo dell’infinità.
Ma non avremo le mani. Non potremo
fare carezze con le mani.
E nemmeno guance da sfiorare
leggere.

Una nostalgia d’imperfetto
ci gonfierà i fotoni lucenti.
Sii dolce con me.
Maneggiami con cura.
Abbi la cautela dei cristalli
con me e anche con te.
Quello che siamo
è prezioso più dell’opera blindata nei sotterranei
e affettivo e fragile. La vita ha bisogno
di un corpo per essere e tu sii dolce
con ogni corpo. Tocca leggermente
leggermente poggia il tuo piede
e abbi cura
di ogni meccanismo di volo
di ogni guizzo e volteggio
e maturazione e radice
e scorrere d’acqua e scatto
e becchettio e schiudersi o
svanire di foglie
fino al fenomeno
della fioritura,
fino al pezzo di carne sulla tavola
che è corpo mangiabile
per il mio ardore d’essere qui.
Ringraziamo. Ogni tanto.
Sia placido questo nostro esserci –
questo essere corpi scelti
per l’incastro dei compagni
d’amore.
(da Bestia di gioia,  Einaudi, 2010)

 

Giuro per i miei denti di latte giuro per il
correre e per il sudare giuro per l’acqua e
per la sete giuro per tutti per i baci d’amore
giuro per quando si parla piano la notte
giuro per quando si ride forte giuro per la parola no
e giuro per la parola mai e per l’ebrezza
giuro, per la contentezza lo giuro.

Giuro che io salverò la delicatezza mia
la delicatezza del poco e del niente
del poco poco, salverò il poco e il niente
il colore sfumato, l’ombra piccola
l’impercettibile che viene alla luce
il seme dentro il seme, il niente dentro
quel seme. Perché da quel niente
nasce ogni frutto. Da quel niente
tutto viene.
(da Senza polvere senza peso, Einaudi 2006)

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ci si racconta del prima dell’adesso del dopo quando ci si ama
nelle notti al buio a dirsi
nel giorno al sole a fare

mangiando camminando sorridendo ragionando
e in silenzio e con le mani e con gli occhi

Ascoltare -E Chiedere “Raccontami”- La Biografia Dell’Altro/a
E’ Un Incontro Con Il Sacro

 

 

 

 

91. figure di donna 13, Tornami. Tu, chi sei Tu, che Te ne sei andato così, chi sono io che mi hai lasciata così, rispondi, cosa dovevo imparare?

Non lo so se la domanda “io chi sono?” mi sia nata dal non essere vista e accettata per quella che ero; da una costante e, a volte sottile a volte palese, negazione di tutto ciò che sentivo di essere. Lo sai, è anche per questo che da bimba mi piaceva il Tuo mondo “creato”, perché significava che Tu avevi amato e generato e sostenuto le differenze e quindi anche me: sentivo la Tua mano prendere la mia, piccola, ogni volta che avevo sogni su di me, progetti, predilezioni, e che venivano negati perché inusuali in quel mondo dove “ero” e dove vivevo. E per questo mi piaceva il Tuo mondo “salvato” da Te, perché significava che Tu avevi fatto qualcosa per farci esistere, e per far esistere anche me.
Ti amavo, come sapeva amare una bambina continuamente allontanata dalla sua strada, e poi come sapeva amare un’adolescente bisognosa di tutto o di niente in un mondo di mezze e inutili e ipocrite vie. Tu c’eri.
Te lo ripeto ogni giorno ‘Tu c’eri’, Te lo ripeto dal vuoto che hai lasciato, dal terribile opaco luogo in cui mi trovo a chiedermi se Tu esisti, se Tu ci sei, mentre contemporaneamente so che ci sei, Tu ci sei in un modo così diverso da come Ti sapevo e Ti raccontano, in un modo Tuo, e lì provo a cercarTi, ma senza sapere dove sia questo “lì”, a volte intuendolo in-me-e-insieme-nel-mondo, luoghi inscindibili per pensarTi, per immaginare la Tua presenza.
Vorrei ritrovare l’amore di quella bambina e di quella ragazza che ero, no, non lo stesso, ma la stessa intensità, la stessa sicurezza rocciosa e fluente che mi facevano sentire amata, la certezza che potevo vivere anche se ero io, anche se tutto intorno diceva che ero sbagliata, che dovevo fare questo e quello e non ciò che sgorgava dal mio colorato cuore. Ti amavo perché Tu in quei momenti mi accarezzavi il cuore che sbiancava e si anneriva e si stringeva impaurito, perché Tu gli riportavi i colori, perché Tu rispondevi in quei momenti a quella mia domanda ’io chi sono?’; e all’altra che sorgeva a ogni incontro “tu chi sei?”.
Tu rispondevi, ricordi? Tu Ti interessavi a me, come Tu sapevi fare, abbracciando l’intera mia vita e sapevo chi ero dov’ero in quei momenti, e dove stavo andando. Mi rifugiavo nelle preghiere che amavo, nelle letture che parlavano di Te.
Lo sai quanto cercai nel libro dell’Esodo le risposte quando poi Ti persi. Tutto in quel libro è identità, Mosè il rovo ardente il popolo schiavo che deve liberarsi, tutto in quel libro suggerisce “io chi sono?”, “tu chi sei?”, e a tutto rispondeva con lo spostarsi l’uscire il mettersi in cammino, col non credere definitivi quell’io quel dove quel quando che erano momento e che io avevo scambiato col sempre.
Ecco, io lo sono in cammino, per terre sconosciute, da tempo. Spesso ho conosciuto la schiavitù verso un potere altrui, spesso la mancanza di senso nei gesti non miei; sono salita sul Sinai e sono rimasta a valle a costruire il vitello d’oro, ho visto il mare aprirsi per farmi fare piccoli e grandi passi e poi richiudersi su di me, io in fuga io inseguitrice, ho mangiato la manna, ho aspettato di vedere la Tua nuvola alzarsi per mettermi in cammino, Ti ho interrogato sul Tuo furore e la Tua violenza pensando, a volte, che anche Tu avevi la Tua Ombra, che in qualche modo dovevi crescere, come liberamente suggerisce Jung nel suo libro su Giobbe. Sì, anche Giobbe leggevo affamata, i suoi perché sono i miei, perché la Tua mancanza è dolore è grido è scomparsa del mondo e degli affetti costruiti fino al momento in cui Tu sei scomparso, portandoTi via tutto. Giobbe, che anche lui dentro i suoi perché ha le domande “io chi sono?” e “tu chi sei?”, rivolto a Te come ad ogni tu. A Te, quando, scomparendo dal mio cuore, lo rendesTi muro da passaggio potente qual era fino a quel momento.
L’esodo, Mosè, la liberazione, Giobbe.
Torna a prendermi per mano. Torna lì dov’eri in me e nel mondo.
Tornami.
Vorrei rileggere e vivere con Te il Cantico dei Cantici, non ho trovato nessuno con cui cantare  quella vita, a volte ho sperato o mi sono illusa che fosse, vorrei ancora che fosse possibile un incontro così, ma ho smesso di assaggiare quelle parole di tenerezza e di erotismo che non diventavano esperienza. Torna, con Te voglio sedermi lungo le sponde ombrose di un fiume e parlare e mangiare e bere e ascoltare il canto degli uccelli delle fronde dei pesci, lo scorrere delle verdi acque, il silenzio; con Te distendermi su una spiaggia, salire i sentieri di montagna, camminare nelle vie e nelle piazze dei paesi e delle città, con Te costruire sulla terra la vita meravigliosa che mi hai sussurrato; con Te, presente com’eri, Presenza Inimitabile.
Torna, Amato, mi trovi dovunque, senza casa, senza meta, mi trovi, è facile per Te se lo vuoi.
Tu, chi sei Tu, che Te ne sei andato così, chi sono io che mi hai lasciata così, rispondi, cosa dovevo imparare?
No, io non mi sento smarrita e dispersa, mi sento in cammino, ma non so dove sto camminando.
Ed è Tua questa mia vita che cerca, più di quanto lo fosse mentre mi aggiravo felice e sicura nei recinti del giardino terrestre.
E’ Tua per tutte le volte che ho voluto rassicurarmi che esistevano  veramente le parole “cieli nuovi e terra nuova”, in Isaia, nella lettera di Pietro, nel libro dell’Apocalisse.
Tutti i cieli nuovi e la terra nuova, quelli in cui col fuoco della gioventù avevo ardentemente creduto, quelli in cui con la cenere del vuoto ancora credo, camminando dall’Eden alla Vita Quotidiana e, spero, al Paradiso: tenacemente e nel dubbio e nel silenzio della fede che tace, debolmente con i passi stanchi dati dalla Tua assenza.
Cieli nuovi e terra nuova, Tu che torni a me, il vero Tu, libero da ogni falsa narrazione -la mia quella degli altri- il vero Tu, disvelato, la vera io disvelata e insieme “Tu e Io” in un Dove che io non so ancora, che Tu sai già, che Tu abiti da sempre, dove mi porti prendendomi per mano, così io spero così Ti prego fa’ che sia.

 

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90. voler bene a una persona è un lungo viaggio

Davide Rondoni, Voler bene a una persona, in Avrebbe amato chiunque, Guanda, 2003

Voler bene a una persona
è un lungo viaggio –

rupi, cadute d’acqua e bui
improvvisi, dilatati
il chiuso di foreste,
lampi a volte
sul silenzio così vasto del mare

e strade sopraelevate, grida

viali immersi all’improvviso
in una luce sconosciuta.

Voler bene a uno, a mille, a tutti
è come tenere la mappa nel vento.
Non ci si riesce ma il cuore
me l’hanno messo al centro del petto
per questo alto, meraviglioso fallimento.

Sugli altipiani di ogni notte
eccomi con le ripetizioni e le mani rovesciate della poesia:
non farli stare male, sono tuoi, non farli andare via.

 

 

89. mentre sorridi

ti guardo e vedo il tuo sorriso
questo vedo, e nient’altro

vedo come i tuoi occhi si socchiudono, mentre sorridi
e le piccole rughe calde come raggi d’allegria
intorno agli occhi intorno alla bocca
questo vedo, e nient’altro

vedo come butti la testa all’indietro, mentre sorridi
e le tue spalle grandi che s’allargano
e le tue braccia e le tue mani
che cominciano a disegnare nell’aria
stelle, pezzetti di pane, onde d’acqua salata e fresca
questo vedo, e nient’altro

vedo le tue gambe e i tuoi piedi muoversi, mentre sorridi
piccoli passi nello spazio verso me
e grandi passi nel mondo
sui ciottoli, sull’asfalto, nell’erba,
sul pavimento, nelle foreste equatoriali,
e sembra che tu balli e corri e stai fermo insieme
questo vedo, e nient’altro

vedo il pulsare del tuo cuore, mentre sorridi
battiti più veloci e più forti che sollevano la tua camicia
che dilatano un poco la tua pelle e i tuoi occhi
che accelerano il moto della terra
e poi rallentano l’universo intero
e tutto si ferma dentro il tuo sorriso

questo vedo, e nient’altro, mentre sorridi

(28 novembre 2010)

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88. figure di donna 12, frammenti e biografie

Frammenti di carta,
lucciole spente e briciole di pane,
e luci riflesse sui pezzetti di specchio.
È questo che appare
quando apri la borsa alla cassa del bar.

Frammenti di carta per le tue piccole poesie
e per i disegni minuscoli e precisi.
Briciole di pane per le anatre del parco
quando escono dall’acqua del laghetto.
Lucciole spente durante la notte
sotto un bicchiere.
Pezzetti di specchio
per moltiplicare anche la più piccola luce.
E paghi alla cassa del bar
con la tua borsa aperta
sotto gli occhi di tutti.

Frammenti di una carta che hai fatto tu
con i fiori in trasparenza,
carta elegante e rara
per le tue preziose linee
di parole e di disegni.
Briciole del pane che hai fatto tu
stamani, fragrante e caldo
e hai riempito la casa
di accoglienti sentieri profumati
che portavano tutti alla cucina,
vicino alla farina e all’acqua
e alle tue mani.
Tre lucciole spente
durante la notte sotto un bicchiere
perché non sei perfetta e hai desideri
e hai giocato finalmente con tuo figlio.
Pezzetti dello specchio
dove tuo fratello si guardava
vestito di pizzi bianchi e calze a rete,
finché se ne è andato
e tu non sai più
dove siano i suoi giorni.

Quando apri la borsa
alla cassa del bar
racconti copiosa vita, attenta:
non siamo in molti a prenderla
e a metterla al sicuro nel nostro cuore.
(primavera 2010, inverno 2015)

 

87. figure di donna 11, era la mia vita

ogni tanto mi ricordo di me
dettagli che pensavo smarriti
negli specchi
e che ritrovo a tratti nei passi
dentro il labirinto sacro

per esempio lui aveva gli occhi azzurri
e il cuore blu oltremare
mia madre taceva le canzoni
e mio padre ogni tanto
perdeva sogni dalle dita
ai Poli i ghiacci si scioglievano
come fossero neve del mio giardino
al sole d’aprile
i deserti avanzavano
con maree di dune
guidate dai Tuareg misteriosi

era il mio mondo
dettagli che fecero
le mie risate fragorose
e le lacrime lucenti

per esempio l’Oriente e l’Occidente
diventavano inconciliabili
come lo erano il Sud e il Nord
e degli Indiani d’America
dei Maya e degli Aztechi
leggevo inaspettate poesie
dove trovavo intatte direzioni

davvero, era la mia vita
dettagli che ogni tanto ricordo
mettendoli subito
nel tempo del futuro

Platone mi aveva irretita in una caverna
e mi salvò Socrate con le giuste domande
la sezione aurea mi disegnava spirali
come affettuosa madre
e alberi crescevano
soltanto perché io li guardavo

ogni tanto mi ricordo di me
e sono vissuta
davvero era la vita

Volto-mondo

86. figure di donna 10, epifanie

Trasferisce i dati da un cellulare a un altro, nuovo. Tra la fine di un anno e l’inizio di un altro, nuovo si dice di quest’ultimo.
La rubrica. Le immagini.
Le telefonate fatte, quelle ricevute.
I messaggi. Molti sms sono vecchi, di mesi fa, incredibile trovarli ancora lì; dimenticati da frettolose sbirciate fatte in momenti in cui non poteva rispondere? Chissà, Mizar non ricorda. Sono lì, semplicemente, sotto i suoi occhi e sotto le sue dita che digitano, pigiano e cercano la voce “elimina”.
3289543…. ti ha cercata, dice un messaggio: era luglio, sembrava stesse meglio, ricorda Mizar. 3289543…. ti ha cercata, dice un altro messaggio: era settembre, erano 15 giorni prima che morisse. Si erano sentiti, certo, lui e Mizar, a luglio e molte altre volte, ma non dopo quella data, non in quei 15 giorni prima che morisse. Lui era peggiorato velocemente, tutto come previsto, e in un soffio se ne era andato.
Come tanti altri negli ultimi tempi, pensa Mizar. Tanti grandi affetti, di umani e di piccoli animali domestici, parti integranti sia della sua famiglia di sangue che di quella d’elezione.
Scomparsi o andati via o morti: le forme dell’assenza sono varie, a volte si è assenti anche in presenza.
Ogni distacco è un dolore che si porta via parole, specialmente quelle pronunciate con chi se ne è andato. Mizar ha parole speciali e differenti per ognuno, ha toni diversi, sguardi esclusivi, posture distinte con ogni amore della sua vita. Non potrebbe essere altrimenti, peccato per chi rende uguali le differenze, è un atto di follia.
Chi se ne va sembra portare via tutte queste ricchezze. O forse no, pensa Mizar, forse la sensazione di vuoto e di mancanza è data dalla debolezza di chi resta, dall’immaturità di chi ancora non è presente a se stesso e non ha ben capito cosa sia la vita.
Chissà.
Intanto c’è questo sms di fronte al quale il suo cuore sussulta. Rimangono le cose, rimangono le tracce di chi non c’è più.
Le ciotole degli amici pelosi che hanno trascorso con fiducia e fedeltà tutta la loro vita con Mizar.
Un maglione, un vaso d’argento, un libro, una penna: questi sono gli oggetti che parlano di lui nella casa di Mizar. Era un uomo amorevole e presente. Una persona in gamba come pochi, un bell’esempio da seguire, un modello di vita riconosciuto da chiunque l’abbia incontrato. 3289543…. ti ha cercata, sì, era in clinica per le terapie, dovevano vedersi, poi non era stato possibile, e poi non si erano visti più.
Ora lui è cenere, accudito così, con fiori e lumini e ricordi che tutti i parenti si passano e intrecciano per ricostruire, forse sperando di ri-membrare, la sua vita.
E gli altri? Chi si è allontanato per scelta? Anche l’instancabile micio rosso e bianco, e quello nero, andati via per delusione, per rabbia?  E le persone? Perché? Per delusione, per rabbia, per debolezza?
E’ stato un tempo di grande potatura. Molti rami importanti dell’albero che è Mizar non ci sono più. Proprio tanti se ne sono andati, in poco tempo. In alcuni momenti, quel tanti diventa troppi.
Ed è difficile accettare che ci siano ancora oggetti, mentre gli esseri amati non ci sono più. Mizar però non fa così, non tiene oggetti a farne un simbolo quasi religioso, un feticcio; non crea altari, non diventa schiava delle cose. Butta via tutto, o restituisce, se può, perché non vuole nemmeno essere l’operatrice ecologica delle vite altrui.
C’è un nuovo che attende di entrare, sempre, anche dopo un grande dolore, e bisogna fargli spazio, altrimenti si rischia di avvolgere il resto della vita su quel vecchio che non c’è più, sull’assenza.
3289543…. Non è facile, ci sono alcune cose che restano, magari sono di valore, un maglione, un libro, un vaso d’argento, una penna, una ciotola…
Hanno il valore della maturità che attende di entrare attraverso quel dolore, come l’anno nuovo che attende di entrare dopo che il vecchio se ne è andato. Mica è un caso che a mezzanotte di fine e inizio anno si rompano cose, si creino cocci, si faccia spazio.
Mizar seleziona “elimina” e cancella quelle vecchie comunicazioni. Era tempo, e non c’è spazio sul nuovo cellulare, come non c’è senso nella vita per cose che non servono alla vita. Va bene i dolci e vivificanti ricordi, ma non c’è spazio nella vita per diventare preda del mostro della nostalgia e bloccarsi e non vivere più.
A coloro che sono morti, un saluto dall’anima, per riprendere la vita senza la loro presenza fisica.
A coloro che si sono allontanati, un saluto dall’anima, per riprendere la vita senza la loro presenza fisica.
Tra chi se ne va, alcuni tornano. E’ successo, è stata come un’epifania, la manifestazione di aspetti che le persone non sapevano di avere, o non avevano allenato. E, in questo modo, a volte c’è stato un bagaglio in più di maturità sia per loro che per Mizar.
A volte. Non sempre. La vita è differente nel suo manifestarsi. E’ un’epifania di diversità, di dissimili, di discordanze, di eterogeneità. E’ un’epifania costante di incantevole presente, dove può esserci il vecchio e il nuovo, se servono alla vita; l’andare via, il ritornare, la vita e la morte, se formano vita.

Comunque, pensa Mizar, il prossimo trasferimento di dati – qualunque sia il periodo in cui si renderà necessario farlo- lo farò a Ferragosto in una malga sulle Alpi, a luglio sotto il sole cocente, a primavera tra una ciliegia e una fragola, in autunno tra le foglie colorate, in inverno sotto la neve; ma mai più in un momento in cui, con mille festeggiamenti, viene marcato il passare del tempo.
(5 gennaio 2016)

bolsena

85. figure di donna 9, monologo per salvarsi

Oggi ti racconto due sogni di quando ero piccola. Non lo so dove li prende i sogni una bambina. Me lo sono sempre chiesta, mi sarebbe piaciuto chiederlo anche a te.
Da adulta, ripensando a quella cucciola che ero, mi sono vista come un universo dentro un vaso di cristallo, i cui lucenti riflessi ammaliavano e impedivano di vedere oltre quella luce. Sì, lo so, pensi che la mia passione per le trasparenze, per i cristalli, per quei bagliori di luce dipenda da questo. Chissà, non ti so rispondere; ma i sogni stavano da quelle parti lucenti.
E tante volte ho ripensato a quei sogni, che poi erano speranze, o prospettive diverse. O chissà, era già il mio futuro che mi si presentava. Avrei voluto raccontarteli i miei sogni, allora; ma non ho potuto farlo. Lo faccio adesso, è sempre stato un mio grande desiderio parlare con te, mamma, lo faccio adesso, spero ti piacciano.

Uno dei due sogni era che mi sarebbe piaciuto vedere le cose dall’alto, ero convinta che guardando dall’alto, poiché sicuramente si sarebbero viste più cose, non ci sarebbero state più guerre. Le soluzioni mi sembrava stessero sempre un po’ più là di dove si stava discutendo, ed era difficile vederle dal basso, nella furia di una lite, per esempio. Invece, pensavo, se mentre bisticciavamo guardavamo da un po’ più in alto di dove stavamo, avremmo visto subito quelle soluzioni che stavano un po’ più in là, e avremmo fatto pace.
Ridi? Quando ero piccola, c’erano intorno a me tante voci di adulti che strillavano. O parlavano a voce troppo alta. E, a volte, erano addirittura meglio del silenzio, quello non era il silenzio che conosciamo tu ed io adesso. Erano i musi lunghi, le tensioni, le rabbie che si addensavano nelle stanze della casa come fumi puzzolenti e che opacizzavano ogni sguardo. E non sapevo scegliere tra le grida e quei silenzi, non lo so fare nemmeno adesso, a dire il vero.
Nella mia testolina di BIMBAUNIVERSO, io riuscivo a vedere le cose dall’alto, da sopra le nuvole: vedevo il mondo come una carta geografica, ma non vedevo le persone e non vedevo quelle soluzioni che ero convinta si potessero scorgere da sopra le nuvole.
Ma non demordevo, pensavo che bastasse aggiustare l’altezza, alzarsi o abbassarsi un po’, BIMBAVOLANTE che lassù stava bene, l’aria era fresca e pulita e azzurra, il mondo laggiù ben disegnato, con gli alberi come cespugli, le colline tratteggiate con dolci curve, i prati fioriti, i tetti rossi delle case. Non so da dove avessi tratto quell’immagine diamantina, somigliava un po’ al mio reale   mondo collinare reso a pastelli su uno sfondo chiaro.
Ed era la stessa immagine che vedevo quando immaginavo di guardare il mondo dal paradiso, che per me era proprio più in alto di tutto. Ah, ecco, lo sapevo che qui avresti riso forte forte. Il paradiso, sì. Io vivevo in un mondo meraviglioso da piccola. C’erano gli Angeli, la Madonna il Giardino Terrestre e l’Arca di Noè, c’era Gesù Bambino, insomma c’era il mondo salvato e questo mi faceva sentire protetta.
C’erano anche Zeus Demetra Proserpina Ermes e tutti gli dei greci di cui conoscevo vita e miracoli, ma sapevo che non erano gli dei veri veri, oh ne ero così certa allora, erano divinità antiche e fantastiche, alle cui storie rimanevo incantata per ore.
Ma il Paradiso era era più dell’Olimpo, ne ero convinta, era quello di Dio e di Gesù. E lo vuoi sapere che ci facevo lassù tutta china a guardare quaggiù? Volevo anche essere sicura che, se morivo mentre era in corso una trasmissione televisiva a puntate, io potessi vedere, anche dal Paradiso, come andava a finire. Avevo bisogno di rassicurazioni, sì, che tenerezza. E non avevo neanche la televisione in casa.
Però l’idea di un’interruzione era già molto presente nella mia vita. I grandi non erano sempre pronti a raccontare belle storie, spesso anzi raccontavano i loro dolori e le loro paure, che avevano a che fare con cose interrotte. Il nonno aveva perso il figlio in guerra, la nonna aveva perso il marito ancora giovanissima, tu avevi perso il padre da piccolissima. Poi c’erano anche altri lutti: la tua sorellina maggiore era morta a pochi mesi di vita, la mamma della mia nonna morta lasciando sette figli piccoli. Vedi, se avessero potuto guardare le cose dall’alto, i miei adulti avrebbero saputo vedere che appena fuori da quei recinti c’erano altre storie da prendere e da portare dentro, per allargare anche un po’ quello spazio che s’era fatto piccolo e pieno di lacrime. Però loro non seppero guardare dall’alto le cose e allora lo feci io.
Sì, avevi ragione tempo fa quando mi hai detto che notavi una certa mia predilezione per parole come ‘sopra, fuori, accanto, cos’altro’, avevi ragione. Sono le mie parole corpovita di quando ero bambina. Allora non avrei saputo spiegarlo come adesso, accadeva a basta che ogni tanto immaginavo di vedere le cose dall’alto, per cercare qualcos’altro che dal basso non si vedeva, o per accertarmi che in Paradiso l’eternità avesse realmente un senso di durata, più che televisivo. Le bambine sanno sempre cosa vogliono.

L’altro sogno. Sì, c’era un altro sogno.
L’altro sogno era di poter vivere l’ultima generazione umana. Cominciò ad affacciarsi durante il periodo della scuola elementare. Non so se ne fu responsabile in qualche modo lo studio della storia… ma senti che dico, ma senti come da adulta razionalizzo e distruggo il sogno di una bimba … va bene, quello era il sogno. Mi vedevo seduta alla fine di una grande arida pianura e, sotto di me, uno strapiombo, come quelli del gran canyon, hai presente? Sì? Era uno strapiombo altissimo e laggiù in basso iniziava una pianura senza fine. Tutto era colorato come una sabbia ocra rossa, di fronte e sopra anche il cielo era di questo colore e anch’io. Io lì seduta, le gambe raccolte e circondate dalle braccia, con le ginocchia davanti al viso, guardavo davanti a me e stavo vivendo l’ultimo tempo ultimissimo del genere umano e quello che a me interessava era che potevo conoscere tutto quello che era successo fino allora.
Sì, forse lo studio della storia c’entrava qualcosa. La mia passione per le scoperte e le invenzioni, per esempio, veniva appagata, oppure sapere se finalmente si viveva in pace o no. A dire il vero, la solitudine di me immersa in quel paesaggio solitario nudo non dava tanto l’idea di pace e più che altro, pensandoci adesso, sembravo essere io proprio io l’ultima essere vivente al mondo. Mi vedevo un po’ più grande della mia età, poco più, non molto, ma d’altronde sapere le cose deve per forza far crescere.

Sai, mi sono sentita tanto sola da piccola. Per fortuna che c’erano gli Angeli e la Madonna e che il serpente tentatore veniva ucciso e noi potevamo salvarci se eravamo buoni. Per fortuna questo mi ha aiutata. E poi immaginare di volare, di vedere le cose da lassù non è stata cosa da poco, mi ha aiutata moltissimo essere una BIMBA-CON-LE-ALI-NELLA-TESTA. Ma mi sono sentita sola. Per trovarmi in compagnia, per salvarmi, per sentire che esistevo così com’ero, che il mio mondo dentro il mio cuore dentro le mie ali avesse un senso avesse diritto a vivere, sono dovuta andare dappertutto: in alto, in paradiso, sull’ultimo orizzonte, in mezzo ai santi. Ma qui, dov’ero, sembrava non esserci posto.
Ah, sì, andavo anche in Africa, dai bambini poveri, quando dovevo mangiare qualcosa che non mi piaceva. Mangia, dicevano i grandi, pensa ai bambini che muoiono di fame. La fame mi passava di botto, era così strano dover mangiare per chi moriva di fame, ma ora lo capisco, fanno tutti così adesso, è prassi, si fa anche una bella figura a farlo, ma a una bambina si possono raccontare le favole, non le fandonie e allora io non avevo più fame. Ma andavo anche lì, è vero, andavo anche in Africa … guarda quanto ho viaggiato da piccola per poter restare dov’ero.
Poi invece c’è chi è partito, fisicamente partito, chi ha cambiato Paese, ci sono tanti modi per sopravvivere. Adesso con me vive quel ragazzo di cui ti ho parlato l’altra volta, è una specie di adozione temporanea, in questo modo imparerà meglio l’italiano, è bravo ha voglia di lavorare, si fa voler bene da tutti, sì, quello che non sapeva né leggere né scrivere, proprio lui. Forse la prossima volta torna con me a trovarti.
Mi sarebbe tanto piaciuto poterti raccontare prima i miei sogni di bimba, addirittura, pensa, poterteli dire allora, mentre ero una BIMBACHAGALL che svolazzava dappertutto. Mi sarebbe piaciuto anche ascoltare i tuoi, perché ne avevi molti dietro le lacrime e le lenti. Mi sarebbe piaciuto tanto. Invece eccoci qua, distanti quanto lo sono due persone che hanno due verità diverse. Tu chissà dove, spero Lassù, nel Paradiso da dove si vede anche come finiscono le serie televisive a puntate. Io quaggiù, che continuo a immaginare di vedere le cose dall’alto, per salvarmi. A volte mi salvo. D’altronde, da lassù vedo mappe, perdo qualche dettaglio, ma ho chiara la visione d’insieme, col tempo ho scoperto che è la visione del cuore. Sull’ultima sponda ci sto sempre, sempre vedo quello che il genere umano ha imparato fino a quel momento, io faccio parte di questo apprendimento, come te. E’ questo che ho imparato, crescendo, che i sogni delle bambine sono davvero il loro futuro. Non lo so se io adesso sono il futuro realizzato di quella BIMBAVOLTEGGIANTE, non lo so.
Ora vado, ma torno presto. Spero ti siano piaciuti i mughetti, io li adoro; li mettevo sempre in qualche aiuola del Paradiso, da piccola, quando andavo su a controllare che fosse tutto e per sempre Paradiso. Quando andavo su a salvarmi.

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84. figure di donna 8, le tue scarpe rosse … e … in quel momento sta succedendo qualcos’altro

Potresti rispondere, a volte. Sì.
Succede però che in quel momento è primavera e un tepore ti fa togliere il cappotto; oppure nevica e ti ritrovi assorta nel silenzio bianco dell’inverno.
Sì, potresti dire qualcosa, ma magari sta piovendo sulle foglie gialle dell’autunno o una goccia di sudore ti scende sulla fronte nel caldo dell’estate.
Potresti rispondere, certo, potresti dire molte cose, ma in quello stesso momento tutta la vita che pulsa ti prende per mano e tu ti lasci prendere per mano e, con le tue scarpe rosse e la sciarpa viola, ti lasci portare lontano da lì, da lì dove potresti dirgli per esempio che ha usato la tua vita come fosse un  esperimento per lui, che ha preso la tua storia e l’ha fatta a pezzi per nutrire la sua confusione e i suoi smarrimenti.
Sì, potresti, ma lì davanti a te c’è quel ciottolo intorno al quale l’acqua del ruscello forma un piccolo gorgo e lo scorrere cambia suono, e allora tu guardi com’è trasparente quell’acqua e vedi il cielo azzurro che vi si riflette, e ti alzi, e vai via, e lasci tutto lì, senza dire nulla.
Può sembrare un caso, ma tu sai che non è così, tu sai ascoltare e guardare e sentire altro in quello stesso momento che non siano solo le sue parole e il suo fare. Tu sai scegliere la vita e il modo e l’amore.
Sì, potresti dirgli come sbaglia a vivere di nostalgia e di assenza, a cancellare ogni presenza e ogni esistenza col ricordo, potresti dirgli come adora il suo dolore e come svilisce quello degli altri, potresti dirgli come ti ha umiliata a confonderti con le altre; ma lì, nello stesso momento, c’è un sorriso sul volto di un ferroviere barbuto, oppure uno stormo d’uccelli sta volando compatto e forma figure scure nel cielo. E allora te ne vai, prendi le tue valigie, apri le tue ali e te ne vai.
Certo, potresti dirgli che è assurdo quel suo modo di affermare orgoglioso che vive modo suo quando quel suo modo disprezza le altre vite e ha fondamenta nella paura e lascia dolore dietro di sé, come Attila lasciava erba bruciata al suo passaggio’.
Ma in quello stesso momento ci sono talmente tante persone che sanno vivere in modo amorevole, e tante diversità che sanno collegarsi e rispettarsi, che tu, ecco tu e le api e le rose e il fumo che esce dai comignoli e i bambini con i grembiulini sporchi di colori e di merenda e le tortore e le gemme e le case e le carezze vi allontanate, a volte salutando a volte no perché può anche accadere che tu abbia due lacrime o mille nei tuoi occhi, e non vuoi farle vedere, o nessun lacrima, è solo che non vuoi far vedere i tuoi occhi.
Te ne vai, semplicemente, indossando tu le tue scarpe rosse, perché non vadano ad aggiungersi alle altre che giacciono inerti e vuote nelle piazze. Le indossi tu, viva e con allegria, nonostante il tuo cuore spezzato.
Potresti dire tante cose, certo, ma tu stai indossando le tue scarpe rosse e te ne vai.

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83. figure di donna 7, pulizie di primavera

Ieri dopo aver fatto colazione
ho lavato la mia tazza con devota precisione
insomma, ci si erano attaccate su
le tue parole del mattino e certe carezze che non voglio più
che girino per casa a trovarmi nei momenti giù.
Ho preso la spugnetta verde e gialla
e, come mi disse il mio analista, con cura e fantasia
ho sfregato anche il piattino
non si sa mai fosse rimasta lì
la tua lingua passata sui miei seni;
e ben bene ho lavato il cucchiaino
perché s’era incastrato lì il tuo indice che va su e giù
lungo i brividi dietro la mia schiena.
Oh, ma non ci si può distrarre, è vero!
Cosa ti vedo dentro il bollitore
striato di latte e morbidezza?
C’era un’altra tua carezza,
quella che mi passavi al viso con apparente amore
e io mi poggiavo lì sulla tua mano
e svaniva tutta la tristezza:
ci ho messo sopra direttamente il detersivo
verde al limone sgrassante e lucidante,
ho usato la spugnetta dalla parte dura
facendo onore a un anno di sedute,
anzi, distese sul divano blu
dell’analista maschio e un po’ arrogante
da cui arrivai quando partisti tu.
Per pudore poi non dico cosa c’era
nella caffettiera ma lo accenno brevemente
elegante e fiduciosa
come fui il giorno che divenni sposa.
Sì, insomma c’era quella volta che tu e io
e poi invece l’altra volta che io e te…
insomma, ho buttato dentro il lavandino
quel poco di caffé rimasto là sul fondo
ancora caldo e denso
e così nero mentre scendeva giù
portandosi via amplessi di ogni fattispecie
kamasutra tantra e via dicendo
rivisitati in pieno Centro Italia
con puntigliosa fantasia, non sia mai, e così sia.
Ero un po’stanca dopo quei lavaggi ieri mattina,
ma che soddisfazione!
Ho aperto la finestra della mia cucina
e mi sono messa lì a curiosare fuori
ad annusare odori
e ascoltare il silenzio fragoroso
e toccare l’aria con la pelle
mentre quelle cose lavate via
scendevano di tubo in tubo
sottoterra chissà dove
fino a un depuratore fino a scomparire
fino a trasformarsi in un fiume azzurro che va al mare
e poi in vapore e dopo in pioggia
e così via di vita in vita.
Oh, che saggia mattinata!
Mi sono messa un tocco di rossetto
un reggiseno con un po’ d’imbottitura
ho preso la borsa che la commessa
aveva definito “un po’ aggressiva”
e sono uscita pensando all’analista
che una cosa l’aveva detta giusta:
“Amarsi ragazza mia! Da sola, per prima cosa amarsi!”
Ma per sventare qualsiasi fraintendimento,
sono andata nel migliore bar della città
seduta a un tavolino che dava sulla piazza
con l’aria appena fresca del mattino
che mi sfiorava le caviglie prima di insinuarsi chissà dove;
ho ordinato un cappuccino un cornetto e poi un caffè
lasciando che qualcun altro lavasse le stoviglie un po’ per me.
Due tavoli più in là c’era uno che ti somigliava,
allora, per finire in gloria, veloce ho soffiato via dal naso
il tuffo al cuore e il ricordo di quando quel mattino
non facemmo l’amore per farlo più bello dopo un po’.
E così, quasi nuda e quasi senza pelle,
ho sorriso a quel tizio come so fare io se voglio
e pensavo di non saperlo fare più
solo perché tu …e tu…e tu…
E, volendolo, mi è riuscito proprio bene:
da ieri ho dimenticato le mie pene
tra le stelle luccicanti dell’amarsi un po’
non da sola, in compagnia però,
declinando di nuovo in Centro Italia
i saggi saperi dell’erotismo greco, sumero, babilonese e assiro,
e quelle due o tre cose deliziose che vengono spontanee lì per lì,
debitamente ripetute diverse volte al dì.
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82. figure di donna 6, qualcosa come conoscersi la mattina di Natale

Qualcosa come conoscersi la mattina di Natale. Telefonicamente.
“Pronto? ”
“Sono io, ciao”
Un respiro. “Ciao.”
Prima di quel momento qualsiasi cosa.
Una mail inviata per sbaglio. Una chat.
Qualsiasi cosa. Non importa cosa abbia provocato quel momento. Stanno sentendo le loro voci, si stanno ascoltando per la prima volta.
Forse intorno c’è la casa, forse i parenti, o amici.
Forse lui sta partendo per una missione di pace, forse lei è in un centro d’accoglienza. Forse lui pensa ai figli lontani, forse lei cerca di sopravvivere a una separazione. Poco importa anche chi siano.
“Buon Natale.”
“Grazie, anche a te.”
“Stai bene?”
“Si.”
“Anch’io. Sono felice di sentirti.”
Silenzio.
Silenzio.
I loro cuori battono veloci. Eppure pensavano di essere soltanto amici.
Dalle voci traspare più d’un’emozione.
“Hai una bella voce.”
“Anche tu.”
Chi parla, chi inizia, chi risponde? Poco importa. Sono piccole parole per un mondo che si sta aprendo, non ci sarebbero comunque parole per dirlo.
Quanto durerà? Forse tanto, chissà. Forse sempre.
O finirà lì? Possono smettere di sentirsi due voci che si conoscono a Natale?
Forse anche questo poco importa.
Cosa importa, allora?
Solo il momento, quella magia di parlarsi per la prima volta la mattina di Natale. Null’altro.

Chiara vorrebbe qualcosa così, qualcosa che somigli a conoscersi la mattina di Natale.
Lo stesso incanto, la sensazione di un mondo che s’apre e comincia; la stessa impressione che ci siano promesse sparse dappertutto.
La meraviglia di una piccola fiammiferaia che riesce a scaldarsi e non muore; lo sbalordimento di uno Scrooge che non ha bisogno degli Spiriti per diventare buono; lo stupore di una creazione.
Si addormenta con questo pensiero, con l’immagine di due sconosciuti che si ascoltano, con il desiderio profondo che ci sia ogni giorno qualcosa, qualcosa che somigli a conoscersi la mattina di Natale.
(21 dicembre 2015)

 

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81. figure di donna 5, fare l’amore con i capelli bianchi

Dicembre è un mese intenso e intimo, ci sono i giorni più corti e bui dell’anno e c’è la luce che torna a infiltrarsi nel buio.
Un bel mese per baciarsi e fare l’amore, un tempo perfetto per cantare e stare in silenzio, insomma il tempo giusto per unire cose lontane.
Questi sono i pensieri che ha Marta, mentre se ne sta accoccolata sotto le coperte, al calduccio. E’ una mattina fredda, ma dorata dai gialli delle foglie che ancora sostano sugli alberi, ah che stagione quest’anno! Che autunno lungo e portentoso! Trascorre come fosse il corteo con cui un re ricchissimo espone i suoi tesori.
Oggi è santa Lucia, una festa grande dalle parti di Marta, una bella festa, tutta religiosa e che ancora è rimasta tale, forse la furia consumistica l’ha dimenticata, per mangiarsi e digerire e defecare il più appetitoso Natale; e chi lo sa, poi, il motivo vero.
“E vabbè mi alzo” sbuffa Marta alle campane che, per antica tradizione, suonano dalla sera prima e per tutta la notte e per tutta la mattinata, in ricordo di un evento storico, una lite tra potenti, guarda caso, che cavolo di storia è la storia che scrivono! Chissà che faceva la sua ava dell’epoca mentre quelle due famiglie si facevano guerra e distruggevano le torri e appestavano le strade di morti e macerie.

Marta si alza. Si lava. Si veste. Uno sguardo veloce all’immagine riflessa nello specchio. Una fitta da qualche parte. “Chi sei?”. I suoi capelli scendono adesso del colore naturale e Marta guarda la ciocca che si imbiancò in una notte di fine aprile, è la testimonianza di un tempo perduto, di un soffio di gelo venuto da lontano dentro una primavera. Marta ama questi capelli che sembrano coperti di neve e si sente quasi una paladina della liberazione del corpo delle donne da artifizi chimici e convenzionali. E non è tra quei capelli la fitta, sebbene la esprimano un po’.
Com’erano quelle parole? “Sei anziana.” E poi “Sei vecchia.”  Quelle parole lì, dette da lui, erano rimaste come un punto interrogativo nella storia personale di Marta. Non proprio macerie, nemmeno crepe; solo un punto di domanda, una virgola di tenerezza, un trattino di sorpresa.
Ma è ora di andare a pranzo dai suoi genitori, loro sì vecchi, e con grandi domande, e con tenerezze incerte. Loro sì, vecchi, che non hanno più sorprese, così dicono, e che invece hanno paura, e non lo dicono. Loro sì più che anziani, a ridosso di un limite di vita che prima di quelle età solo si sfiora, è solo possibile, e a quelle età diventa certo, palpabile, ineluttabile. Loro sì, vecchi, e queste feste di fine anno li scaraventano dentro la giostra del tempo che passa con una violenza che altre età non conoscono. Lo sa bene, Marta, che a volte vorrebbe fuggire da queste evidenze, altro che problema di capelli bianchi, e di “sì, però se li tieni bianchi ti devi truccare un po’”, altro che regole per omologare corpi e bellezze.

Hanno mangiato bene, stanno parlando del più e del meno. Più che altro parla l’anziana madre di Marta, è lei che si fa carico delle parole e dei ricordi, “Io no, io sono diverso”, dice suo padre schermendosi, e guarda la moglie attento, e a volte la corregge perché adesso lei qualcosa la ricorda male, la inventa.
Marta è in piedi, si è soffermata al centro della cucina, a uguale distanza dai suoi, che non ci sentono più tanto bene e così spera di essere capita da entrambi. Sua madre si alza per andare a prendere qualcosa, con sforzo si alza, lentamente.
Ci sono montagne che sono così, Marta le ha viste in Turchia, ci sono montagne vecchie, anzi antiche e lo capisci subito che hanno migliaia di anni e immediato ti sale un senso di rispetto per quei massicci di pietra che ne hanno vista di storia, ah, se ne hanno vista e altro che libri di storia che farfugliano solo di punti di vista dei vincitori!, se le montagne potessero parlare … ma no, anzi, le montagne parlano, ma chi le ascolta più! Chi ascolta più le madri e i padri colmi di tempo, si vedono solo la vecchiaia e i sassolini che vengono giù dalle pendici degli anni; si vede quel loro sgretolarsi segreto; si vede l’inverno e il buio, tralasciando la luce che rinasce dentro le brevi giornate.

Dopo essersi alzata in piedi, la madre di Marta si ferma per stabilizzare l’equilibrio. E poi, fa un gesto improvviso, per quanto le possa essere permesso dall’essere come una montagna maestosa d’anni. Allunga il braccio destro verso Marta, la mano aperta e protesa verso la figlia. E poi si ferma, con la mano ancora aperta, con quel braccio allungato e un po’ tremante.
“Perché non torni a tingerti i capelli?” dice alla figlia.
“Mi stanno male?”, chiede Marta, ed è una domanda che non fa mai, perché adesso sembra che tutto ciò che è naturale sia brutto e lei non vuole partecipare alla follia collettiva. Ma lo chiede a sua madre, sorpresa da quella richiesta e da quella mano protesa come fosse in preghiera; c’è qualcosa come di preghiera anche nella voce della madre.
“No, ma eri giovane con i capelli colorati.”
Che fa Marta? Come fa a rimanere in piedi, a non piangere di tenerezza, a non volare via, come fosse Peter Pan, verso l’Isola Che Non C’è?
“Ma io sono sempre io, anzi, sono più io così”, risponde.
E sua madre ripete: “Sì, però …” e sospende la frase, le fa forse male la parola ‘giovane’, pensa Marta con il cuore in subbuglio. Ma non lo fa vedere questo suo cuore bianco che batte a tratti di rosso e oro, e che rimbomba fin dentro ogni capello bianco e che vorrebbe tornare più giovane per non far sentire vecchia sua madre.

Santa Lucia è la giornata più corta che ci sia, dicono dalle parti di Marta. Nel primissimo pomeriggio comincia lo scampanio per le funzioni religiose, così le prime vengono celebrate che c’è ancora un po’ di luce, per coloro che non vogliono uscire col buio, dentro una sera scura di dicembre. Ma scura per poco, non le lasciano più in pace queste giornate corte e buie, le inondano di lucine omologate, di viavai per i regali e il tempo non è più il suo tempo, ma il tempo prima di, sempre prima di qualche festa, spesso inventata, un tempo per spendere e non per riflettere.
Marta saluta i suoi e se ne torna a casa. Si passa più volte le mani tra i capelli, sono morbidi, non più secchi e innaturali per il colore. Se servisse, tornerebbe bambina ogni giorno, per dare giorni a sua madre, perché parlando del colore dei capelli lei ha detto a Marta le sue paure, quelle che non dice in altro modo, e le paure diventano grandi quando non si riesce più a vedere la luce che torna dentro il punto massimo del buio. Forse è così la morte, quando si dice del Paradiso che c’è dopo: tanto buio e poi luce. Forse. Dipende da quanto ci hai creduto, ed è difficile credere, sempre più difficile, in quest’inverno del cuore. Non basta più nemmeno Santa Lucia e nemmeno il Natale, a volte, quando si fa scura la vita.

Marta, a casa, rimane al buio e guarda il cielo e le stelle che sembrano diamanti su un telo di velluto. E’ tutto così colmo di tempo e, nonostante ciò, è tutto così bello. Ed è una bella storia, letta così, la storia del mondo: dura tanto a leggerla per ere e si arricchisce di significati che invece sfuggono a leggerla con i giorni. Ma noi abbiamo i giorni, pensa Marta, non abbiamo le ere, e prende il telefono: è dicembre, un bel mese per baciarsi e fare l’amore. Fare l’amore con i capelli bianchi, a illuminare di bianco le notti scure del tempo, perché è dicembre e finisce un altro anno, perché ci sono il buio e la luce, sì, e così è la vita, scura e lucente, e così è l’amore, completo.
(12 dicembre 2015)

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80. figure di donna 4, alla stazione

 

Stavolta lui ha viaggiato col treno. E per il ritorno è tutto pronto: il bagaglio, il biglietto, gli orari memorizzati. Due cambi, con il secondo treno ci sarà la sosta alla stazione ferroviaria della città di lei. Non chiedetegli il perché di questa scelta. Alzerebbe le spalle, tacerebbe, risponderebbe ‘non lo so’. Non lo sa, non vuole saperlo, non gli importa, è un capriccio, è una cosa seria; non glielo chiedete. Sarà su quel treno e basta.
Le vacanze sono finite, trascorse al massimo come piace a lui: località alla moda, feste private e nei locali, ottimo cibo, ottimi vini, donne. Ha ballato, ha fatto sesso, ha sciato; è stato elegante, diffidente, seduttivo, antipatico. E adesso il rientro a casa.
Sale sul primo dei tre treni che prenderà, prima classe, si siede vicino al finestrino, posto prenotato con largo anticipo, lui dice spesso che tutto scorre e bisogna farlo scorrere al meglio. Non fategli domande, voi che state leggendo.
Il treno parte.
Il primo cambio avviene poco dopo, per salire su un treno a lunga percorrenza, dove si accomoda sempre vicino al finestrino. Non ha voluto prendere né Italo né una delle Frecce. Ha deciso di fare una gita così, d’altronde gli sottolineano spesso la sua aristocratica e imprevedibile originalità. Forse tra un po’ leggerà. Sicuramente per un po’ non vorrà parlare, ma d’altronde il vagone è quasi vuoto, otto nove viaggiatori, lui compreso.

Lei si è alzata tardi, arruffata assonnata infreddolita. Se le chiedete qualcosa, lei vi risponde, quindi potete sbizzarrirvi. Per esempio vi dirà che sta facendo tutto di corsa perché le è venuto in mente che forse ricorda male l’orario di arrivo del treno col quale viaggia il suo carissimo amico che viene a trovarla. No, non è che sia sicura sicura di questo, ma forse sì, è probabile, oddio è tardi, è sicuramente comunque tardi. Volete sapere qualcos’altro? Al volo, mentre sale in macchina, vi direbbe che vuole un mondo di bene al suo amico, che sono amici da una vita, che è un affetto profondo, duraturo, che è l’unica persona della quale si fida.
Ha fatto appena tre metri, le mani ancora impicciate con la cintura di sicurezza, e il telefono squilla, pronto?, pronto, sorride l’amico dall’altra parte, sono arrivato, oddio fa lei, allora mi sono sbagliata davvero, sto arrivando, aspettami. Mannaggia, mannaggia, sono così poche le ore che passeranno insieme, non vuole perdere nemmeno un minuto.

Cinque, sei ore passano veloci.

Lei e il suo amico a parlare, mangiare insieme, ridere, sorridere, prevedere il prossimo incontro da lui, a vedere una mostra, a passeggiare. Passa veloce il tempo, e un tè, e la musica, e la vita che è la vita, e ti voglio bene, e anch’io, e oddio, bisogna tornare in stazione, è quasi ora del treno dice l’amico, mannaggia, dice lei, andiamo.

Lui ha finito di leggere un libro, ha preso appunti di due tre idee che vuole far confluire nella relazione trimestrale; ha cominciato la lettura di un altro, non gli va, ma ne parlano tutti, lo legge perché a volte le conversazioni diventano banali e si va a finire a parlare proprio di quel tipo di libri inutili. Sbadiglia. Guarda di nuovo l’orologio. Tra non molto arriverà alla stazione della città di lei.

Lei e il suo amico sono sul marciapiedi della stazione. Il treno sta per arrivare, lo hanno già annunciato. Si salutano, il treno appare in fondo al binario, il rumore aumenta, e poi lo stridio dei freni, e poi si ferma. Persone salgono, persone scendono. Lei sorride al suo amico, che è salito; aspetto che il treno parta, gli dice.
Il treno parte, lei rimane sul marciapiedi, per lei hanno sempre un che di magico le partenze, gli arrivi, i treni, le navi, gli aerei. Lentamente scorrono davanti ai suoi occhi i vagoni, le luci che sembrano avere scie per effetto della velocità che aumenta, sconosciuti seduti, in piedi, brani di umanità.
E poi lo vede. Lui ha la testa leggermente reclinata in avanti, forse legge, forse no; di lui in realtà vede solo la testa, di profilo, e parte del busto. Un pensiero come un lampo nella mente di lei: solo questo ho saputo di lui, parti, brani, spezzoni, quello che lui ha voluto far vedere, quello che lui ha potuto scoprire di sé.
E poi nulla: un attimo e lui non è più lì, dieci, venti, cento metri oltre, un chilometro, cento, trecento chilometri distante, nella sua casa, nel suo lavoro, nella sua vita. Un attimo.

Per un attimo anche lui la vede, ma lei non se ne accorge, lui la vede quasi con la coda dell’ occhio. Se voi che leggete foste sul treno, vedreste in lui un sussulto, ma dovreste stare attenti, è un piccolo minuscolo quasi invisibile sussulto. E poi vedreste uno stupore nei suoi occhi e qualcosa sul suo viso che potreste interpretare come un’espressione di soddisfatta vittoria.
Qualche chilometro prima aveva giocato con i suoi pensieri, immaginando di scendere alla stazione della città di lei, immaginando di fare due passi verso il centro, fino all’ora del treno successivo; di godersi un’ulteriore piccola stravagante vacanza, di sfidare con noncuranza il destino, per vedere se il caso avrebbe spinto fino a farli incontrare, fino a farlo godere dello stupore di lei e del proprio silenzio, e della propria distanza; guardarla ma facendo intendere di non vederla, andare oltre e lasciarla lì per il resto dei giorni di entrambi. Il silenzio come sevizia, pensate voi che leggete; ed è così, ma lui non si permette di saperlo, lui avrebbe soltanto goduto il suo momento di dominio e le sue ragioni inossidabili.
Non è sceso, e l’ha vista lo stesso, e ha visto che lei lo ha visto. E’ stato un momento della vittoria degli occhi, della supremazia della distanza, del trionfo dell’indifferenza. Lui si sente vincitore.

Lei scende le scale del sottopassaggio, torna alla macchina. Che strana sensazione vedere chi hai amato come fosse uno sconosciuto, pensa; che strano quel corpo quasi sfocato che invece hai visto così da vicino, e amato e accarezzato, pensa. Lei non si sente né vincitrice né vittima. Se glielo chiedete, potrebbe dirvi che non è vittoria o perdita ciò che lascia un amore. Però chiedeteglielo dopo, adesso è assorta, potrebbe non sentirvi e le dispiacerebbe non rispondervi. Eccola lì, guardatela soltanto, adesso. Aggancia la cintura di sicurezza, mette in moto, e ciao, gli dice mentalmente, fa’ buon viaggio, sempre.
(9 gennaio 2016)

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79. figure di donna 3, randagia o nomade

Il mondo diventa troppo piccolo quando due che si lasciano si incontrano di nuovo. Ed è ancora più piccolo se a lasciare è stato solo uno dei due e l’altro si trova a vagare, randagio o randagia senza più casa, senza più cuore da abitare.

Ed eccolo il mondo farsi piccolo piccolo per lei. Entra nella piazza e lo vede. Da lontano. Seduto al tavolo esterno di un bar. E’ lui? E’ lui. E’ lui?
Non dovrebbe essere qui, dovrebbe essere fuori a lavorare. Ma poi che ne sa più lei di dove dovrebbe essere lui? Sono attimi di ricordi di una vita fa, nient’altro. E’ lui? Potrebbe. Ha il suo tipico maglione scuro da cui esce il tipico colletto bianco della camicia. Ecco, è proprio quel bianco che gli fa sembrare sia lui l’uomo seduto al tavolo, sotto la pergola. Ma anche i capelli sono i suoi, anche il tipo di viso, il colore della pelle. E’ lui. E’ lui? Sbadiglia, è lui, lui sbadiglia così. Si porta le mani al viso a coprire lo sbadiglio. Lui fa così. Faceva, faceva così. Chissà adesso.
Passa un autobus di linea e copre il bar per un po’, c’è traffico. Dopo l’autobus, lui non c’è più, la sedia è vuota. Anche l’altra sedia è vuota. Lei realizza che sulla sedia accanto era seduta una donna, bionda, vestita con abiti dalle tinte neutre e chiare. Lei guarda a destra e a sinistra, non lo vede più. Era lui? Se era lui e se ha sbadigliato in quel modo, allora c’era intimità con la donna seduta al suo stesso tavolo.
Oppure è successo, come altre volte, che lei ha visto somiglianze? Spesso il mondo somiglia a lui, e allora lei fugge via da ogni appartenenza, diventa randagia, senza più casa, senza più cuore. Randagia, smarrita, abbandonata.
E il mondo gli somiglia spesso: piedi alla cassa di una gelateria, identici a quelli di lui, sia come forma che come modo d’appoggio a terra, e come amava lei quel suo modo di camminare! Mani che parlano come quelle di lui. Capelli. Il fisico nel suo insieme. Spesso lei si rigira a guardare. E’ lui. E’ lui? Ma non è mai lui.
Ma quel giorno gli sembra proprio lui. E’ lui. Ed ecco un altro modo per diventare randagia.
Forse passerà. Chissà. C’era una vita con lui. Immensa, intensa, incommensurabile. Per lei. Forse per lui no. Ed ecco un altro modo ancora per diventare randagia.
Lei non sa cosa scegliere di ricordare: i momenti belli, o quelli della deriva nel tempo. Ecco, diventa ancora più randagia in questa incertezza.
Si siede spesso su un sedile di pietra su cui erano stati seduti insieme e guarda la gente passare. Lo fa quando lui dovrebbe essere fuori per lavoro, così si sente sicura di non incontrarlo, ma che ne sa più adesso lei di dove dovrebbe o potrebbe essere lui?
Sa solo che è dentro il suo cuore, ancora, e che non vorrebbe fosse così, non vorrebbe avere in sé quell’attesa di lui. Ma lei ora è randagia. E aspetta, spera, cerca quella casa dove era felice, quell’abbraccio caldo dove aveva ritrovato fiducia dopo tanto dolore.
Dicono che la fine di un amore adolescente sia come la distruzione di territori. La fine di un amore adulto invece è la fine del mondo, ma se ne parla poco. Silenzio, silenzio e pensieri.
Lei sta pensando di cambiare casa e città, e mondo. Lui è dovunque, troppo.
E invece adesso la sedia del bar è subito vuota, e se era lui, adesso lui non è più seduto lì. Se ne è andato perché l’ha vista e ha avuto timore di incontrarla? L’ha vista, dunque? E non sa che lei non si sarebbe mai avvicinata? Che lo aspetta, sì, ma fugge via se lo vede, o si blocca, come adesso, lontana, a quella distanza da cui ci si può chiedere è lui-non è lui, senza averne mai la certezza, lasciando sfocato anche il dubbio, lasciando incerte anche le domande, questo fa l’attesa, questo accade quando si diventa randagi.
Allora ci si siede lei su quella sedia, sente il calore di un altro corpo che è appena stato lì. Ordina un caffè, prende il libro dalla borsa e comincia a leggere.
In mezzo alle righe, diventate flutti, avanza una barca e lei ci sale su. Tra qualche pagina c’è un’isola dove si trovano le risposte e lei vuole chiedere perché lui se ne è andato. Dopo altre pagine, scenderà dalla barca, chiuderà il libro e tornerà verso casa, randagia senza più casa.
E verrà anche il momento in cui diventerà finalmente nomade, senza terra, perché tutta la terra sarà sua. Adesso però deve superare questo muro creato sia da lui che da lei. E’ un muro di pietra e di fili metallici, è costruito da adesso, è costruito da secoli.
Trovami una vita felice, una senza fughe, senza rabbia, senza dolore, senza abbandoni, dice Dio a Lot. Trovami una vita felice e salverò Sodoma e Gomorra, Adma e Zeboim, e Bela. Trovami una vita felice, dice Dio. Si salverà soltanto la città di Bela e soltanto perché vi si rifugiarono gli angeli ospiti di Lot e da lui protetti. Trovami una vita felice, dice Dio, ma Lot non la trovò, e le città senza vite felici furono distrutte da una pioggia di fuoco.
Le pagine del libro scorrono ma lei non trova un vita felice. Trova l’isola e trova la risposta, ed è sempre la stessa, da che mondo è mondo, da che vita è vita, chi va via per sempre non ha amato poiché, qualunque sia il motivo dell’andare via, chi ama ritorna. Quindi non c’è nessun ritorno e nessun amore da aspettare.
Ed eccola, in un attimo, in questa certezza, adesso diventa nomade.  La terra si fa sua, i muri crollano al suono dei suoi passi come le mura di Gerico al suono delle trombe. La terra si fa ampia come quella raccontata nei poemi epici.
Ed era lui, sì, seduto su quella sedia al tavolo esterno di un bar. E se ne è andato via veloce perché non ha capito il cuore di lei, fin dove lei lo amava, anche lui randagio nel mondo, non sa che insieme sarebbero diventati nomadi in un istante, capaci di abbattere ogni muro della loro vita.
Lui e lei, grandi come l’universo, se l’avessero voluto entrambi.
(27 aprile 2016)

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78. figure di donna 2, confusa

Mica la fuma la sigaretta, no, la mastica quasi, ‘quello non arriva, che stronzo, adesso vado via così impara, la pausa pranzo è breve, lo sa’.
Lo sa? Boh, non gli era sembrato lucido in chat ma forse perché non scriveva bene, stavolta ha fatto finta di essere straniero. Per il resto, come sempre e come tutti gli altri. E a lei che importa, lei fa sesso, le va bene così.
Ride. Hanno tutti lo stesso copione. Sono in crisi, la moglie si nega, il matrimonio non c’è più, incontriamoci senza impegno, voglio vivere intense emozioni, hai la webcam, dammi il numero del tuo cellulare. La stessa scuola di teatro, filone comico.
Quanti sono stati sopra di lei, dentro, dovunque in lei, a dirle ‘perché non ti ho incontrato prima, ma chi sei, perché non c’eri prima, ti voglio’ – e poi, dopo un po’- ‘ma non posso’. Dopo un po’ alcuni fanno risorgere mogli e fidanzate scatenate come mai prima, come tutte avessero fatto un corso di tantra e kamasutra, e loro poverini sono stupiti di tanta disponibilità inaspettata. ‘Vai vai’, pensa lei ogni volta, mentre si accende la sigaretta dopo l’amplesso, lei, non lui, ai lui glielo impedisce, è lei che fuma, dopo, tanto per essere chiari.
Quanti per entrare nel suo letto le hanno scritto ti amo, e lei rideva, ma chi ami che nemmeno mi conosci, oppure, sempre ridendo, anch’io sto cominciando a provare qualcosa per te. Quanti che hanno spedito regalini, frasi, fiori, canzoni sì, lo stesso copione per tutti, ‘ooh grazie, che carino che sei, sì, quando ci vediamo?’, e non chiede le foto, lei, tanto potrebbero spedire quella del fotomodello russo ancora poco noto da noi, ma in ascesa nelle sfilate di Armani e quindi con belle immagini già in rete.
E lo stronzo non arriva, ‘ma lo aspetto voglio vederlo in faccia quando si accorgerà che sono ancora io invece della sconosciuta a cui ha promesso sesso e rock’n’roll ‘. Lui arriva. Lei lo guarda e prende una cartina, una presa di tabacco, fa la sua sigaretta, l’accende e la mastica, anche questa, si vede che oggi è una giornata così. Nel frattempo lui si è seduto, è nervoso, on ha detto niente, non dice niente. E nessuno dei due ha fatto dietro front, quando si sono visti. ‘Ora scopiamo’, ha pensato lei, ‘ce la farà?’, si è chiesta, ‘e senza sparare cazzate?’, si è chiesta ancora. Adesso è una sfida.

Lui non ce l’ha fatta, ‘però almeno non ha sparato cazzate, stavolta, alleluia’, pensa lei, mentre fuma lo stesso la sua sigaretta. La camera della casa di lei conosce quell’odore e quello strazio già da tempo.
‘Quanto manca al rientro? ah sì, si può fare. Ora ti faccio vedere io’, pensa lei, ‘so alcune cose di te …’. Lui è disteso su un fianco, e pensa ‘ma chi me l’ha fatto fare, potevo andare via stavolta quando ho visto che era ancora lei, che stronzo, che stronzo’. E lei non l’ha certo aiutato, è rimasta ferma sul letto con la sigaretta in bocca ‘e guarda che figura che ho fatto’ continua a ripetersi lui.
Lei adesso ha la sua sigaretta ancora in bocca quando si riavvicina a lui e gliela poggia tra le labbra. Lui si nega, dice di no. Ma lei ha molte mani in quei momenti, e lo prende per le spalle, diventa un tutt’uno con il corpo di lui. Allunga tutte le mani sul corpo di lui, che si gira, con un gemito. Non è arreso, è disperato. Forse anche lei lo è. Si mette sopra di lui e con tutto ciò che ha, mani bocca, capelli, seni, fianchi lo sfiora, lo affonda tra le lenzuola, lo rende muto di desiderio e piacere.
Poi, dopo, ‘ciao allora, non facciamoci più questi scherzi, eh?’ dice lui. ‘No, ok, tutto bene? Stai bene, tua moglie sta bene?’ ‘Sì, beh insomma, abbastanza, sai com’è’, dice lui. ‘No non lo so’, pensa lei e guarda l’orologio. Ciao, devo correre, è tardi.
E tardi, perché non ti ho incontrato prima? E’ presto, perché non ti ho incontrato dopo? E’ tardi, sono vecchio, è presto, sono giovane, è ora, ma mi sono appena impegnato. I pavidi dicono tutti queste frasi. Ma mica solo a lei, ché sarebbe il danno minore, lo dicono alla loro vita, mentre scappano.
E’ tardi, è presto? E’ adesso. Lui rimane seduto su una panchina per un po’, lei corre via al lavoro. E’ adesso, è una pausa, come sempre.
‘Signora, ha fatto tardi anche oggi’, le dice il capo, che è proprio un capo, che non è un leader infatti. ‘Prende il caffè con me? Ce l’ha una di quelle sigarette che fa lei?’ ‘Sì per il caffè, sì per la sigaretta’, risponde lei.
Una sbirciatina alla chat, ci sono messaggi. Veloce si crea un nuovo nick, ‘adesso ti faccio vedere io’, dice pensando a lui. E non è la prima volta. ‘Tanti nick quante sono le altre con cui mi hai confuso, brutto stronzo. Perché mi puoi fare di tutto’, pensa, ‘ma non confondermi mai con un’altra; mai’.
E si prepara una sigaretta. Sono solo piccole volute di fumo, piccolissime, quelle che sfumano i contorni del suo viso, confondendolo con il bianco sporco della parete.
(28 aprile 2016)

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77. figure di donna 1, Amato che Ti fai amare anche se non esisti

 

Sono lontana mille miglia dal Tuo Incanto, adesso.
Tu, che occupavi i respiri gli occhi le ossa secolari gli agili muscoli le parole di innamorata, Tu te ne sei andato, lasciando un vuoto che sento forte dalla parte del cuore, lo spazio più intimo che Tu avevi in me, e che a me sembrava di averTi dato senza riserve. Io abitata mentre Ti abitavo, Tu abitato mentre mi abitavi.Tu eri per me la certezza che noi umani, da imberbi pronunciando quella misteriosa parola che è ‘amore’, descrivessimo qualcosa che può esistere. Tu c’eri.
Poi improvvisamente il vuoto, il nulla. Passai anni a pregarTi di tornare, a dirTi di smetterla con quello scherzo della Tua assenza, ma non sei più tornato. Mi arresi, ad un certo punto, così come cede la vita di un insetto sotto il piede che preme per ucciderlo. Esanime, fu per me esodo da quel momento e io, che amavo sentirmi straniera in ogni luogo-quel tanto che basta per potere osservare anche “da fuori”- ne feci l’esperienza più tragica: non c’erano più Paesi da abitare, Nazioni dove espatriare, non c’era più nulla che fosse luogo dove stare. Solo esodo, solo cammino, solo Terra: senza confini entro cui mettermi sicura, senza una nuova fede, un nuovo Tu che mi riempisse quel vuoto vicino al cuore, che desse aria ai respiri, che raddrizzasse le ossa che tonificasse i muscoli, che mi permettesse di riutilizzare le parole dell’amore. Niente.
Continuavo, però, a pensarTi sempre, eri stato troppo a lungo parte di me; a pensarTi in ogni modo, anche trovandoTi nelle nuove cose che studiavo e che davano nuova luce a quelle riflessioni su di Te e con Te che avevano sempre accompagnato la mia vita: Ti riscoprivo nuovo in nuovi racconti, Ti incontravo più vero dentro narrazioni che erano molto lontane da Te, che non parlavano di Te. Ma non sei tornato. Ti pensavo sempre, muta, senza dirTi più nulla: una goccia d’acqua dentro una giornata di pioggia, nessuno mi sapeva, nessuno mi vuole sapere.
Ti parlavo ancora, e non osavo nemmeno immaginare che Tu parlassi a me, ma Ti ascoltavo nelle Tue opere, nelle Tue persone di cui avevi riempito il mondo. Riflettevo per sapere come camminare di nuovo con Te, verso Te, riflettevo sulle Tue parole, su chi Ti aveva raccontato.
C’erano tanti momenti delle “Tue” scritture che erano da sempre i più preziosi per me, che più ispiravano i miei passi. La Creazione, per esempio, o il Diluvio, o l’episodio della Torre di Babele, o la moglie di Lot, e poi l’Annunciazione, la Natività e tutti gli altri che sai, che sapevi, tutti quelli attraverso i quali io ero certa che sarei arrivata a “svegliare l’aurora” , insieme a Te, il Pastore presso cui non mancavo di nulla, su pascoli erbosi mi facevi riposare, ad acque chiare mi conducevi, in ogni valle oscura Tu eri al mio fianco.
E c’era, tra gli altri, quell’episodio di Emmaus, di quei due discepoli che non Ti avevano riconosciuto: io non capivo, quando ero piccola, come non si possa riconoscere chi hai visto fino a qualche giorno prima; poi, da ragazza fervorosa di fede e impegnata su più fronti per costruire un mondo migliore, cominciai invece a chiedermi come potesse essere un corpo risorto, perché immaginai, -lo ricordi-, che forse il motivo era quello, cioè che un corpo risorto è, deve essere speciale. Lo chiesi, lo chiedevo, mi risposero, mi rispondevano che, naturalmente, era spirito, era un corpo spirituale. Non capivo, non mi bastava. Studiai, pensai, chiesi ancora.
Poi riuscii a immaginare un corpo risorto: pensai che è un corpo che assomma in sé e ha risolto tutti gli opposti, tutte le dicotomie di ogni genere; è un corpo che vibra, pensai, che non è chiuso in una sola forma. Sul multiforme corpo risorto lessi poi qualcosa su alcuni scritti non ufficiali e riconosciuti da coloro che hanno deciso che sono i soli a poter parlare di Te, di Te che a tutti e per tutti Ti sei dato. EccoTi, allora, amato che se anche non esisTi Ti fai amare, Tu Sei e Diventi e questo è forse uno dei Tuoi grandi insegnamenti, qualcosa che forse non abbiamo ancora compreso, qualcosa che forse anche noi potremmo fare, e anch’io, tua sorella nel Padre e nella Madre che forse esistono, al di fuori di quel mio spazio adesso vuoto di Te vicino al mio cuore.
A Emmaus Ti riconobbero da un gesto, dallo spezzare il pane; allora forse erano più intimi di quanto le prime righe di quel racconto lasciano intendere e per questo, per me, era ancora più strano che non Ti riconoscessero al solo vederTi. C’era in Te qualcosa di potente forte gentile inusuale e nei loro occhi qualcosa di debole fragile arrogante abitudinario: due mondi che non potevano incontrarsi, ma per il cui incontro Tu avevi dato tutte le indicazioni possibili, un po’ come diventare quel terreno fertile della parabola del Buon Seminatore, come trasformarsi da roccia e da rovo in terra che fa crescere ogni seme.
Ti amavo sempre più, anche nel mio esodo e smarrimento quotidiano, scoprendoTi più chiaro più intuibile attraverso altri testi ed esperienze che non erano quelli canonici, quelle giuste. Ti amavo di un amore che restava muto, che restava sulla strada di Emmaus perché Ti amavo, sì sempre, ma senza vederTi, pur riconoscendoTi: il contrario di quello che ha scritto Agostino di Ippona.
Io Ti amo anche in questo mio esodo, e Ti vedo spezzare il pane e come allora, quando ero una ragazza che voleva dedicarTi la vita, imploro “resta con noi perché si fa sera”. Quante volte, quante volte Ti dissi “resta con noi” in quegli anni dopo che Te ne eri andato via dai miei respiri, dalle mie ossa dai miei muscoli, quante volte “resta con me perché si fa sera” fu prima il grido poi il sussurro poi le mani protese poi il solo sguardo ammutolito.
Vorrei che Tu tornassi, non il tu di cui ero illusa, ma il Tu che Sei e Diventi in questo Tuo Corpo Risorto da cui non voglio prove per sapere che sei Tu, perché so che lo sei. E così potrei tornare anch’io, non la me che ero illusa di essere , ma quella che piano piano si è svelata e disvelata a me stessa, quella me del Tuo silenzio e della Tua attuale presenzaassenza, del Tu che nulla mi dice, ma che fa, spezza il pane, lo offre, lo mangia. Insieme. Insieme a me -vorrei- e immagino che mi vedi e mi riconosci e mi abbracci, finalmente di nuovo incontrati Tu e io, in un Esodo senza smarrimenti, continuo e fertile, attraverso un cammino su terre che mai sono sconosciute e mai sono patria.
Ora so che comunque Ti ho dedicato la vita, in ogni terra camminata seminata innaffiata calpestata senza rispetto abbandonata; comunque Ti ho dedicato la vita, nella vita, sugli altari del lavoro quotidiano, del pane guadagnato con onestà, nella ricerca di un amore terreno che non ho trovato, nella dignità tenuta anche a costo della sofferenza e della solitudine.
Ti aspetto, si fa sera, si fa giorno e vorrei fosse il progredire dei giorni della Creazione. Aspetto di risentire il mio nome pronunciato da Te, da Te essere vista, da Te essere riconosciuta, da Te essere offerta insieme a Te.
Ti aspetto, per abitarci ancora reciprocamente in ogni dimensione. Per riconoscerci nell’ardere del nostro cuore mentre conversiamo lungo la via, Tu e io; per spezzare insieme il pane, per fare insieme tutte le cose.
E aspetto che Tu finalmente torni a chiedermi di me e io a Te di Te, io a voler sapere della Tua Vita e Tu a voler sapere della mia, Tu che già la conosci e non Ti stanchi mai di vederLa ascoltarLa onorarLa .
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76. Buona Pasqua di Resurrezione

“Perché cercate tra i morti colui che è vivo?
Non è qui, è risorto.”

 

Bertolt Brecht, Primavera 1938 

Oggi, domenica di Pasqua, presto
Un’improvvisa tempesta di neve
si è abbattuta sull’isola.
Tra i cespugli verdeggianti c’era neve. Il mio ragazzo
mi ha portato verso un piccolo albicocco attaccato alla casa
strappandomi ad un verso in cui puntavo il dito contro coloro
che stanno preparando una guerra che
può cancellare
il continente, quest’isola, il mio popolo,
la mia famiglia e me stesso. In silenzio
abbiamo messo un sacco
sopra all’albero tremante di freddo.

 

Salvatore Quasimodo, Specchio

Ed ecco sul tronco
si rompono gemme:
un verde più nuovo dell’erba
che il cuore riposa:
il tronco pareva gia’ morto,
piegato sul botro.

E tutto mi sa di miracolo;
e sono quell’acqua di nube
che oggi rispecchia nei fossi
più azzurro il suo pezzo di cielo,
quel verde che spacca la scorza
che pure stanotte non c’era.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                          
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75. la pietà: “È tardi ma tutto è vicino.”

“Mi interessa come
si supera le sofferenze.”
“C’è un posto nella mia testa
dove l’odio non cresce.”

Naomi Shihab Nye, Jerusalem

Non mi interessa
chi ha sofferto di più.
Mi interessa come
si supera le sofferenze.

Un tempo, quando mio padre era un ragazzo,
un sasso lo colpì alla testa.
I capelli non sarebbero più cresciuti lì.
Le nostre dita trovarono il punto delicato
e il suo mistero: il ragazzo caduto
si rialza. All’ingresso di casa
un cesto di pere gli dà il benvenuto.
Le pere non piangono.
Più tardi, il suo amico che aveva lanciato il sasso,
dice che in verità mirava ad un uccello.
E a mio padre cominciano a crescere le ali.

Ognuno di noi ha un posto delicato:
qualcosa che la vita ha dimenticato di darci.
Un uomo costruisce la casa e dice:
“Ora sono uno di voi.”
Una donna parla a un albero invece
che a suo figlio. E crescono le olive.
La poesia di un bambino dice,
“Non mi piacciono le guerre,
finiscono col costruire monumenti.”
Poi disegna un uccello con le ali,
così ampie da coprire due tetti.

Perché siamo così terribilmente lenti?
Un branco di soldati invade una farmacia:
grandi fucili, piccole pillole.
Se solo sposti un attimo lo sguardo,
la scena è ridicola.

C’è un posto nella mia testa
dove l’odio non cresce.
Tocco il suo mistero: vento e semi.
Qualcosa ci colpisce mentre dormiamo.

È tardi ma tutto è vicino.

giottogCappella degli Scrovegni, Padova

michelangelo_pieta_vaticanaBasilica di San Pietro, (Roma) Vaticano

ippolito scalza pietaDuomo, Orvieto

pietà genitoriDouma, Siria

bodrum-bambino-morto-spiaggia-705066Spiaggia di Bodrum, Turchia

 

 

 

Film “Still life” (2013).
Bellissimo, da guardare, fino all’ultima meravigliosa scena.
Il bene silenzioso, la pietà, i semi calmi e sereni e piantati con riservata delicatezza, e che fioriscono In Ogni Stagione Della Vita.

http://www.storiadeifilm.it/drammatico/drammatico/uberto_pasolini-still_life(redwave_films-2012).html

https://www.mymovies.it/film/2013/stilllife/

https://it.wikipedia.org/wiki/Still_Life_(film_2013)

 

74. anche questo passerà

Naomi Shihab Nye, Non sprecare il fiato

Devi fare attenzione nel dire le cose.
Certe orecchie sono come tunnel.
Le tue parole entreranno perdendosi nel buio.
Alcune orecchie sono come i setacci che i minatori usano
per trovare l’oro.
Ciò che dici sarà lavato con le pietre.
Devi cercare a lungo prima di trovare le orecchie giuste.
Fino ad allora ci sono uccelli e lampioni con cui parlare,
un paziente lustrare con uno straccio in circolo
e la lenta, crescente possibilità
che quando troverai quelle orecchie
loro già sappiano.

IMG_20170809_163112Chagall, Amoreux au village, Nizza -Museo Chagall

IMG_20170809_163118Chagall, Les amoreux couchés, Nizza – Museo Chagall

Naomi Shihab Nye, Gentilezza

Prima di sapere che cosa sia veramente la gentilezza
devi perdere delle cose,
devi sentire il futuro dissolversi in un momento
come il sale in un brodo leggero.
Ciò che tenevi nella mano,
quello che avevi contato e conservato con tanta cura,
tutto questo deve andarsene così saprai
quanto possa essere desolato il paesaggio
fra le regioni della gentilezza.
Come tu vai avanti a viaggiare,
pensando che l’autobus non si fermerà mai,
così i passeggeri che mangiano pollo e mais,
continueranno a guardar fuori dai finestrini per sempre.

Prima di imparare la dolce gravità della gentilezza,
devi viaggiare fin dove l’Indiano, nel suo poncho bianco,
giace morto sul ciglio della strada.
Devi capire che potresti essere tu quell’uomo
e che anche lui era qualcuno
che viaggiava nella notte con dei progetti
e con il semplice respiro che lo teneva in vita.

Prima che tu riconosca la gentilezza come la tua cosa più profonda,
devi riconoscere il dolore come l’altra cosa più profonda.
Devi svegliarti con il dolore.
Devi parlare al dolore finché la tua voce
non avrà afferrato il filo di tutte le sofferenze
e avrai dunque visto l’intero tessuto.

Allora sarà solo la gentilezza ad avere senso,
solo la gentilezza che ti allaccia le scarpe
e che ti fa uscire incontro al giorno
ad imbucare lettere o comprare il pane,
solo la gentilezza che alza la testa
in mezzo alla folla del mondo per dire
è me che hai continuato a cercato,
e che poi ti accompagna ovunque
come un ombra o un amico.

Venezia, Biennale 2013, installazione di Rashad Alakbarov
Venezia, Biennale 2013, installazione di Rashad Alakbarov

 

 

73. mappe per perdersi: quando si pensa di essersi smarriti e invece si sta finalmente camminando sulla propria strada, dove finalmente si ritrova se stessi… finalmente … :-)

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ho camminato troppo a lungo sui puntini di sospensione?

 

da “inconveniente” a “conveniente in”
giochi di parole, progressi del pensare

 

 

link per perdersi un po’  🙂 

http://www.agoramagazineonline.it/2018/03/05/eutopia-road-to-nowhere-alessandro-chetta/

https://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/arte_e_cultura/18_febbraio_27/c-anche-itaca-nell-eutopia-chetta-c023d6fc-1bcf-11e8-8a22-f728568679b1.shtml

http://mocellinpellegrini.net/portfolio/forse-possiamo-anche-fare-una-mappa-per-perdersi/

http://giorgiaferrari.net/mappe-per-perdersi/

https://www.edizioninottetempo.it/it/prodotto/vademecum-per-perdersi-in-montagna

https://www.quodlibet.it/libro/9788874627073

https://moleskinefoundation.org/it/initiative/detour-and-mydetour/

https://www.repubblica.it/economia/2018/09/16/news/maria_sebregondi_l_ideatrice_dei_taccuini_moleskine_ora_ha_una_missione_istruzione_di_qualita_in_africa_-206433646/

 

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Alessandro Chetta, opere esposte nella mostra
‘EUTOPIA – Road to Nowhere’

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personficazione dei ventiMusei Vaticani, Galleria delle Mappe,
Personificazione dei venti e dei mari nella carta della Liguria

71. LEI … e “ma tu prendi tutto il foglio” e “Disegna figure grandi forti, senza paura, sempre pronte a partire per una bella avventura.”

LEI
Poi mi guarda. Era solo un attimo fa che mi voltava le spalle o sono trascorsi anni? Non lo so, se devo essere onesta devo ammettere che il passato non posso conoscerlo, posso immaginarlo, posso leggere resoconti scritti, ma conoscerlo no. E allora che ne so di quanto tempo sia trascorso con quelle mute spalle davanti a me, tra me e la finestra, la sagoma scura a farsi presenza nel rettangolo della luce del giorno o tra le stelle della notte. No, non lo so quanto silenzio abbia detto.
Adesso mi guarda, e non so nemmeno quando si sia voltata verso me. Non somiglia a nessuna delle immagini con cui è stata rappresentata e ho la certezza, in questo momento, che non somigli mai a nulla e che ognuno La veda a proprio modo, quando La incontra. So che è Lei, soprattutto perché posso descriverLa, finora, solo con una serie di non so, di negazioni e disconoscimenti rispetto al già dato su di Lei.
Mi guarda. E’ qui ed è distante e sento che oltre ad essere una delle signore del Tempo lo è anche dello Spazio, in un modo inscindibile; e so per certo, adesso, che noi umani, abituati a vivere sempre più in piccoli ambiti, vittime della nostra stessa attitudine a definire e separare, abbiamo potuto pensarLa soltanto come viaggiatrice su un filo sottile, mentre si muove su estese trame come indiscussa regina. Dispiega davanti ai miei occhi una conoscenza inaudita: sì, è vero, per Lei l’impossibile è ciò che noi chiamiamo realtà o la nostra esperienza, mentre il possibile è lì davanti e intorno a noi ogni attimo, come un’offerta preziosa ogni attimo rinnovata, e Lei ride di questo, di questo nostro muoverci a partire dall’impossibile.
Mi guarda, non parla, e conosco. Se questa fosse una storia e l’avessi scritta prima di questo momento, avrei potuto pensare, a questo punto, di darLe il mio stesso nome, di farLa anche immaginare come un’altra me che mi si disvela al momento opportuno, una parte rimasta silente e in disparte, come gemma latente in attesa di svilupparsi al momento opportuno. Lei, una parte di me. Mi piacerebbe poterlo dire, o forse no, ne ho paura, provo inquietudine.
Lei non dice nulla, mi lascia ai miei pensieri, al monologo interiore col quale tento di definirLa -di nuovo definire definire!- e invece, chissà, mi sta dando un’opportunità di conoscenza che io non so afferrare.
Penso improvvisamente all’eternità, se ci sarò là in mezzo e sarà un’eternitudine o uno scoppiettante e costante atto creativo, penso se la differenza la farà il mio comportamento di adesso, penso a dove mi accompagnerà Lei dopo questo momento, e penso al perché non La chiamo col suo nome, quello con cui tutti La chiamano, e penso che ah, no, non posso, non somiglia in nulla a come l’hanno raffigurata nei secoli e allora mi chiedo perché L’ho riconosciuta, perché so che è Lei.
Sto sognando mi dico, è così, adesso mi sveglio, nel riquadro della finestra non c’è mai stata fissa questa figura, su, ragiona, mi dico, hai sempre guardato fuori senza impedimenti e c’era il cielo, c’era il prato, la lunga fila di querce a fare da confine tra due campi, ed è quasi Natale, svegliati o cambia sogno, Lei Lei Lei arriva quando arriva e lasciaLa stare, non te La mettere accanto prima del tempo, Lei è Lei e tutti lo sanno com’è fatta, lasciaLa stare.
Mi ricordo che ho la febbre, ah sì, è la febbre, questo è un sogno figlio della febbre, o è un pensiero ma sempre figlio della febbre. Un po’ mi tranquillizzo, non che avessi proprio paura, ma non so se Lei sta qui di passaggio, giusto per un saluto, o per farmi fare un bel viaggio insieme. Ed è come è, è così come La vedo, inusuale nel suo rappresentarsi a me. Punto e basta. L’ho riconosciuta, e basta.
Ora apro gli occhi – mi dico- mi sveglio, basta, finisce tutto.
La guardo ancora una volta. E’ Immobile, mi guarda. Trascorrono tra me e Lei una serie di informazioni incredibili, mentre la stanza si trasforma e vengo attratta verso la finestra che non è più una finestra, vengo buttata fuori, dove non ci sono alberi, ma una distesa bianca con macchie rosse e ci sono voci di donne, contente, e poi ci sono i giorni che sembrano persone che corrono e poi la scuola e poi… oddio, sta accadendo, Lei mi sta portando via davvero, sto rivedendo la mia vita, è proprio come dicono.
Chiudo gli occhi, serro a pugno le mani, punto i piedi non so dove, voglio fermarmi ma cado all’indietro e cado e cado finché piombo in quello che mi sembra un letto. Apro gli occhi velocemente, o adesso mai più.
“Come stai?” mi chiede. “Stavi sognando. Ti avevo portato un bel tè caldo, ma non ho voluto svegliarti.”
E’ lì, in piedi, scura in controluce nel riquadro chiaro della finestra. Ferma, mi guarda. Parla.
“Grazie mamma”, le dico.
(
16 dicembre 2016)

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Appeso a una parete
ho visto il tuo disegnino:
su un foglio grande grande
c’era un uomo in un angolino.

Un uomo piccolo, piccolo,
forse anche un po’ spaventato
da quel deserto bianco
in cui era capitato,

e se ne stava in disparte
non osando farsi avanti
come un povero nano
nel paese dei giganti.

Tu l’avevi colorato
con vera passione:
ricordo il suo magnifico
cappello arancione.

Ma la prossima volta,
ti prego di cuore,
disegna un uomo più grande,
amico pittore.

Perché quell’uomo sei tu,
tu in persona, ed io voglio
che tu conquisti il mondo:
prendi, intanto, tutto il foglio!

Disegna figure grandi
forti, senza paura,
sempre pronte a partire
per una bella avventura.

Gianni Rodari, A un bambino pittore,
in “Il libro degli errori” Einaudi, Torino 1993,
disegni di Bruno Munari

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70. “Il Grande Silenzio” di Jennifer Allora e Guillermo Calzadilla; il pappagallo Alex alla ricercatrice Irene Pepperberg: “Tu buona. Io voglio bene.”

La vita, per compiersi,
ha bisogno non della perfezione,
ma della completezza.
Carl Gustav Jung

https://www.maxxi.art/events/gravity-luniverso-dopo-einstein/

https://www.doppiozero.com/materiali/gravity-luniverso-dopo-einstein

http://home.infn.it/it/comunicazione/comunicati-stampa/2675-gravity-immaginare-l-universo-dopo-einstein

Una della meraviglie allestite nella mostra “Gravity.  Immaginare l’universo dopo Enstein”, – che io ho visto al MAXXI di Roma, ma che è stata visibile in molte altre città del mondo- era il video “Il Grande Silenzio” di Jennifer Allora & Guillermo Calzadilla.

 

ecco una traduzione in italiano dei testi del video
* 
Gli umani usano Arecibo per cercare forme d’intelligenza aliena. Il desiderio di contattarle è tale da averli spinti a creare un orecchio capace di sentire fin nell’universo. 
Eppure noi pappagalli siamo qui. Perché agli umani non interessa ascoltare la nostra voce? 
Siamo una specie non umana in grado di comunicare con loro. Non è proprio quello che cercano? 
* 
L’universo è così vasto che la vita intelligente sarà senz’altro nata molte volte ed è anche così antico che persino una specie tecnologica avrebbe avuto il tempo di espandersi e riempire la galassia. 
Tuttavia non c’è traccia di vita se non sulla Terra. Gli umani lo chiamano il paradosso di Fermi. 
Una possibile soluzione al paradosso di Fermi è che le specie intelligenti fanno di tutto per occultare la loro presenza in modo da evitare di essere prese di mira da invasori ostili. 
Poiché la mia specie è stata quasi ridotta all’estinzione dagli umani, vi garantisco che è una strategia saggia. 
Meglio restare in disparte ed evitare di attirare l’attenzione. 
* 
A volte il paradosso di Fermi viene chiamato il Grande silenzio. Invece di essere una cacofonia di voci, l’universo è pervaso da un silenzio sconcertante. 
Secondo alcuni umani, le specie intelligenti si estinguono prima di potersi espandere nello spazio. 
Se hanno ragione, la quiete del cielo notturno è il silenzio di un cimitero. 
Centinaia di anni fa la mia specie era talmente numerosa che la foresta del Río Abajo risuonava delle nostre voci. Adesso siamo quasi estinti e fra non molto la foresta pluviale potrebbe diventare silenziosa tanto quanto l’universo. 
* 
Alex era un pappagallo cenerino famoso per le sue doti cognitive. Famoso fra gli umani, intendo. 
La ricercatrice Irene Pepperberg lo ha studiato per trent’anni scoprendo che Alex non solo conosceva i nomi delle forme e dei colori, ma capiva i concetti di forma e colore. 
Molti scienziati dubitavano che un uccello potesse cogliere concetti astratti. Anche se agli umani piace ritenersi unici, alla fine Pepperberg è riuscita a convincerli che Alex non stava solo ripetendo le parole, ma capiva quello che diceva. 
Alex è stato l’unico dei miei cugini a essere preso sul serio come interlocutore dagli umani. 
È morto all’improvviso quand’era ancora piuttosto giovane. La sera prima ha detto a Pepperberg: 
“Tu buona. Io voglio bene”. 
Se gli umani cercano un contatto con l’intelligenza non umana, cosa potrebbero chiedere di più? 
* 
Ogni pappagallo ha un verso unico che usa per identificarsi: i biologi lo definiscono “richiamo di contatto”. 
Nel 1974, tramite Arecibo, gli astronomi inviarono nello spazio un messaggio radio a testimonianza dell’intelligenza umana, il richiamo di contatto dell’umanità. 
I pappagalli si chiamano per nome. Se uno imita il richiamo di contatto di un altro lo fa per ricevere la sua attenzione. 
Se mai intercettassero il messaggio di Arecibo rimandato sulla Terra, gli umani capirebbero che qualcuno sta cercando di attirare la loro attenzione. 
* 
Noi pappagalli siamo abili nell’apprendimento vocale: quando sentiamo suoni nuovi possiamo imparare a riprodurli. È una dote che possiedono pochi animali. Pur capendo decine di comandi, un cane non farà altro che abbaiare. 
Anche gli umani sono abili nell’apprendimento vocale. È una dote che abbiamo in comune. Perciò umani e pappagalli hanno un rapporto speciale con i suoni. Non ci limitiamo a strillare. Pronunciamo. Enunciamo. 
Forse è per questo che gli umani hanno costruito Arecibo così com’è. Un ricevitore non dev’essere per forza un trasmettitore, mentre Arecibo è entrambe le cose. È un orecchio per ascoltare e una bocca per parlare. 
* 
Sebbene gli umani vivano accanto ai pappagalli da migliaia di anni, solo di recente hanno preso in considerazione la possibilità che anche noi siamo esseri intelligenti. 
Però non posso biasimarli. Neppure noi li consideravamo particolarmente svegli. È difficile trovare sensato un comportamento molto diverso dal proprio. 
Eppure siamo molto più simili agli umani di quanto potrebbe mai essere una qualsiasi specie aliena e possiamo essere osservati da vicino, guardati negli occhi. Come fanno gli umani ad aspettarsi di riconoscere un’intelligenza aliena se possono giusto origliare da una distanza di cento anni luce? 
* 
Non è una semplice coincidenza se “aspirazione” rimanda al tempo stesso alla speranza e al respiro. 
Quando si parla, si usa l’aria dei polmoni per dare forma fisica ai pensieri. I suoni che si producono sono sia intenzioni sia forza vitale. 
Parlo dunque sono. Gli esperti di apprendimento vocale, come pappagalli e umani, sono forse gli unici esseri che comprendono appieno la veridicità di tale concetto. 
* 
Formare i suoni con la bocca suscita piacere. È un atto così primitivo e viscerale che nel corso della storia gli umani l’hanno ritenuto un percorso verso il divino. 
I mistici pitagorici credevano che le vocali rappresentassero la musica delle sfere e cantavano per trarre forza da esse. 
Quando parlano le cosiddette «lingue», i cristiani pentecostali credono di parlare quella usata dagli angeli. 
Quando recitano i mantra, i bramini indù credono di rafforzare i fondamenti della realtà. 
Solo una specie di esperti di apprendimento vocale può attribuire tanta importanza al suono nei suoi miti. Noi pappagalli lo comprendiamo. 
* 
Secondo la mitologia indù, l’universo fu creato con il suono «Om», sillaba che contiene tutto ciò che è stato e tutto ciò che sarà. 
Se è puntato verso lo spazio fra le stelle, il radiotelescopio di Arecibo percepisce un debole brusio. 
Gli astronomi la chiamano «radiazione cosmica di fondo», ovvero la radiazione residua del Big Bang, l’esplosione che quattordici miliardi di anni fa creò l’universo. 
Lo si può anche considerare un riverbero appena percepibile di quell’iniziale «Om». La sillaba risuona a tal punto che il cielo notturno continuerà a vibrare finché l’universo avrà vita. 
Quando Arecibo non ascolta altro, sente la voce della creazione. 
* 
Anche noi amazzoni di Portorico abbiamo i nostri miti. Per quanto semplici, credo che agli umani potrebbero piacere. 
Purtroppo, via via che la mia specie si estingue si perdono anche i miti. Dubito che gli umani riusciranno a decifrare la nostra lingua prima che sia troppo tardi. 
L’estinzione della mia specie, quindi, non equivale solo alla perdita di un gruppo di uccelli ma anche alla scomparsa di una lingua, di rituali e tradizioni. È il soffocamento della nostra voce. 
* 
Sebbene siano state le loro attività a portare la mia specie sull’orlo dell’estinzione, non ce l’ho con gli umani. Non l’hanno fatto con malignità, sono semplicemente stati incuranti. 
E sono capaci di creare miti stupendi: hanno proprio una straordinaria immaginazione. 
Sarà per questo che hanno anche immense aspirazioni. Pensate ad Arecibo. Qualunque specie in grado di costruire un apparecchio simile deve avere in sé una qualche forma di grandezza. 
Temo che la mia specie non vivrà a lungo: è anzi probabile che si estingua prima del tempo e che anche noi finiremo nel Grande silenzio. Prima di sparire, però, vogliamo mandare un messaggio all’umanità. 
Speriamo che il radiotelescopio di Arecibo le permetta di sentirlo. 
Ecco il messaggio: 
Tu buona. Io voglio bene.

 

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