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Calcio: Ancelotti, un limite avere una sola identità di squadra


Un allenatore "vecchia scuola", ma rivisitata in chiave moderna. Che sa adattarsi alle necessità, senza uno stile di gioco radicato. E' il Carlo Ancelotti intervistato da 'The Times' nella settimana in cui il Real Madrid di 'Don Carlo', come lo chiamano i tifosi spagnoli, affronta a Wembley l'ennesima finale di Champions League.
    "Il suo Real non gioca come il suo Chelsea, che non gioca come il suo Milan. Allena per il club, non per se stesso" scrive Martin Samuel, che lo ha incontrato a cena in uno dei ristoranti preferiti. E per descriverlo parte dalle umili origini, in una famiglia contadina: "Mangiavamo solo ciò che la terra era in grado di produrre".
    Una filosofia calcistica, la sua, basata sull'adattamento e sull'accettazione, non sul dogma. "Quando ho iniziato non ero così - ricorda Ancelotti - Avevo un sistema che ho imparato al Milan da Arrigo Sacchi. Era il 4-4-2. E per questo ho rifiutato Roberto Baggio al Parma perché voleva giocare da numero 10. Ho detto: 'No, non gioco con il 10'. All'epoca era uno dei migliori del mondo e l'ho rifiutato perché volevo giocare con due attaccanti... È stato un errore. Ho provato a cambiare idea quando sono andato alla Juventus. Avevo Zidane ed era il numero 10. Lo devo mettere a destra o a sinistra? Impossibile. Da lì ho sempre tenuto conto delle caratteristiche dei giocatori per costruire il modulo".
    "Avere una sola identità della propria squadra è un limite - spiega ancora - Giocavamo in Champions contro lo Shakhtar Donetsk di Roberto De Zerbi, un ottima squadra. Quello che stava facendo con i terzini e in diverse posizioni, era davvero buono.
    Ma ho detto ai miei 'vogliono che li pressiamo, non fatelo, è quello che cercano. Non pressateli e ci daranno la palla'. Non abbiamo pressato e abbiamo vinto 5-0".
    Ancelotti è un allenatore sui generis anche dal modo di stare nell'area tecnica, racconta l'intervistatore: tranquillo, pochi gesti discreti: "Pensi che ascoltino di più se urli?" chiede lui. "No. Più urli, meno ti danno retta". "Il punto chiave è che ho molta passione, ma non sono ossessionato - aggiunge - Non sono ossessionato dal mio lavoro. Non lo sono mai stato, non riguardo al calcio. Mi è piaciuto molto, da giocatore, da allenatore, ma non divento matto. Sono calmo. È strano perché prima della partita di solito sono molto nervoso".