A Biennale teatro Giorgina Pi e la rabbia d’un trentenne

(di Paolo Petroni) Un testo e soprattutto uno spettacolo fondato sulla parola, scritta, detta, recitata con la regia di Giorgina Pi questo ”Cenere” di Stefano Fortin che arriva ora in scena, dopo aver vinto il premio College Teatro per autori under 40 della scorsa Biennale. Un testo ambizioso, complesso, forte, dalla scrittura limpida e intensa, molto dialogicamente ben ritmata e che diventa anche in versi, persino con rima, giocando col teatro nel teatro, dati gli interventi con commenti di una voce a parte, forse l’autore stesso.
    Costruito come un trittico, cui la regia ha trovato il filo unitario, dandogli quindi una sorta di crescendo sino alla pacata, violenta, inappellabile, invettiva generazionale finale ”arrabbiato quanto basta / chiuso in un guscio di noce”.
    In un mondo in cui non si può pretendere niente e non si ha alcuna garanzia, quello che possiamo chiamare il protagonista dice di non voler faticare tanto per ottenere il minimo, avendo desiderato il massimo e sapendo che ”Il futuro sarà un disastro cui non voglio assistere, e nemmeno partecipare. Buona fortuna a chi se la sente di affrontarlo. Non è assolutamente questo il mondo che mi doveva essere consegnato, e nessuno mi può costringere a continuare a farne parte”. Detto prendendo a prestito (e dichiarandolo) le parole di una lettera del 2017 apparsa sui giornali di un sucida veneto trentenne.
    Si capisce allora il simbolismo di quella cenere sottile che sin dal prologo, in uno scenario che si sottolinea non apocalittico e cita l’eruzione del vulcano islandese Eyjafjoll, si dice cadere continuamente accumulandosi sino alla fine in palcoscenico, ”lastra intonsa sulla quale non rimaneva nulla / nemmeno un’impronta poi / è arrivato / il primo granello di cenere”. Il commentatore dice che ”forse sarebbe stato meglio un inizio più dirompente”, ma capiamo che questa è una rabbia che non è più nemmeno fiamma o brace, una rabbia totale spenta, ormai cenere appunto.
    Il racconto va, in un arco di 75 anni, dalla prima parte, che si apre in una famiglia mentre in tv trasmettono i funerali di Pasolini (1975), quasi una cesura di un periodo di discussione, denuncia, speranza, passando per la seconda, che allude alla cruenta repressione e ai morti al G8 di Genova (2001), alla terza in cui il clima è quello incenerito e senza più vie d’uscita dei nostri giorni (si cita la Roma ”nera e intasata” facendo i nomi di Sorrentino e di De Fusco). La prima parte racconta di un figlio che pone un rifiuto ai genitori, il padre in particolare, che non ne coglie il senso generale, simbolico.
    La seconda propone tre poliziotti, bloccati sul luogo di un’uccisione, arroccati in difesa dietro le procedure, tranne uno che è sempre più fortemente a disagio, quello che dovrebbe avvertire della morte del figlio i genitori. La terza in cui una vittima (la regia fa intendere si tratti sempre dello stesso ragazzo) riflette su quel che è accaduto e sui tempi in cui si trova a vivere e non vuole più vivere.
    Il commentatore comunque aveva avvertito che in questa sala ”l’unica cosa finta è la morte, perché nessuno muore davvero in scena, nemmeno coloro che sono già morti o stanno morendo, perché siamo a teatro, e nonostante qualcuno dicesse… che questo esercizio che stiamo facendo ha a che fare con il dialogo coi morti, nonostante questo nessuno può essere morto o morire qui, anche se morisse per davvero; possiamo solo guardarci vivi, ora”. Un vivere che è tutto nelle parole del testo e la misura dell’interpretazione degli ottimi attori, da Giampiero Judica a Sylvia De Fanti, Francesco La Mantia, Alessandro Riceci, Giulia weber, Valerio Vigliar (autore delle musiche dal vivo), Cristiano De Fabritiis più Valentino Mannias, personaggi che si succedono, muovendosi in una scena vuota, e le recitano rendenole reali, in piedi davanti a un microfono, riuscendo a coinvolgerci.
   

A Biennale teatro Giorgina Pi e la rabbia d’un trentenneultima modifica: 2024-06-22T16:41:53+02:00da newsconulana

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