Punzo e il teatro, credere nell’utopia in carcere

(di Paolo Petroni) Siamo all’interno di un carcere, di quella Fortezza di Volterra dove Armando Punzo, supportato dalla direzione organizzativa di Cinzia de Felice, da oltre 35 anni lavora coi prigionieri creando spettacoli coinvolgenti, vitali, tra il cortile esterno dell’ora d’aria e gli interni, sale e celle. Un lavoro premiato l’anno scorso dalla Biennale Teatro di Venezia col Leone d’oro alla carriera e una cerimonia che fu una festa, presenti eccezionalmente molti degli attori-carcerati.
    Una nera danzatrice ambiguamente lugubre agita suadenti veli neri davanti all’uomo che cerca di raggiungerla senza riuscirci, lasciando impronte, tracce a terra del suo sforzo. Accanto, su un podio quel direttore d’orchestra che ha chiuso lo scorso anno la prima parte di ”Atlantis” e, alla fine di questa secondo atto (che si replica sino al 3 agosto), ripropone una musica ossessiva, angosciosa. (originale di Andreino Salvadori).
    Sembrano allora una sorta di didascalia alcune delle ultime parole ascoltate: ”abbiamo bisogno di una destinazione sconosciuta in cui nulla ci assomigli”. Per Punzo si tratta di credere in un’utopia possibile nonostante sembri quasi assurdo, specie chiusi tra quei cancelli e quelle alte mura, e nonostante ”il tempo buio abbia sempre accompagnato il viaggio dell’umanità”.
    Il lavoro di questo regista è un continuum, che rimanda il proprio discorso da un anno all’altro in direzione di una ricerca in profondità, di una qualche libertà dentro se stessi, e ogni volta nasce durante dodici mesi con riunioni, discussioni, messe a punto del testo e prove, per arrivare poi a vivere una rappresentazione diffusa, con azioni collettive e monologhi a contatto diretto col pubblico. Si legge e discute filosofia, letteratura, ma anche testi scientifici con matematica e fisica che spiega come certe limitazioni o concretezze geometriche siano solo apparenti. Il risultato è un uso e una fiducia nella parola sino al limite del senso, in uno sconfinamento che arriva alla pura meraviglia, alla bellezza barocca, e si unisce a una estrema fisicità degli interpreti, al loro sudore nell’esibizione di muscoli, alla forza di sguardi e presenze quando puntano gli occhi su di te in un coinvolgimento diretto nei loro pensieri e interrogativi. E mentre sentiamo dire ”avanzare in territori sconosciuti e per me come entrare nella mia vita” e che ”non bisogna accettare come naturale l’esistente”, tutto in questo luogo acquista anche una forte valenza metaforica di una ricerca d’incontro tra la libertà dello spirito e la prigione fisica.
    Questa volta l’allestimento teatrale in una ex cappella sotterranea e in alcune stanze in cui si dividono gli spettatori ha una particolare resa estetica, nei costumi molto curati di Emanuela Dall’Aglio, ironici tra il fiabesco e Depero con le sue ballerine con pappagalli (e un pappagallino ammaestrato compare alla fine docile sulla spalla di Punzo), nelle scene proposte, nel piccolo teatrino in un lato che ripropone situazioni simboliche, in una cura di certa ripetitività e lentezza che arrivano a un’intrinseca ritualità, senza contare che, credo per la prima volta, alcuni attori interagiscano col pubblico, lo interrogano, lo invitano a ripetere tutti assieme alcune battute.
    Sono sempre, ci pare, un rompere dei limiti, un allargare dei confini per i carcerati con le loro rigide regole di vita tra le sbarre un provare a credere che ci sia sempre qualcosa di raggiungibile più avanti e non finisce tutto dentro quei bastioni della fortezza medicea in cui sono rinchiusi. E’ un gioco di forze, è un indagare quei ”buchi nella realtà” come li indica Punzo e costruisce con grandidischi rotondi su cui gli attori si esibiscono, mentre girano mostrando le due facce, bianca e nera, lo Yin e lo Yang, a simboleggiare l’equilibrio tra gli opposti, contrapposizione ma anche completarsi a vicenda pre poter prendere coscienza di sé. E’ allora che forse può iniziare quel viaggio, quel raggiungere e sconfiggere la danzatrice nera, che forse, appunto, solo nera non è. Il senso è ”che c’è sempre un’altra possibilità”, come vuole far capire ai suoi attori il lavoro indefesso, continuo di Punzo.
   

Punzo e il teatro, credere nell’utopia in carcereultima modifica: 2024-07-31T12:30:53+02:00da newsconulana

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