Quando la nonna dice no…

Quando la nonna dice no.
di Anny Roman è un bellissimo articolo, che racconta cos’è un figlio, l’allevamento, la crescita, il rapporto coi genitori, e anche l’importanza della figura della nonna. Lo racconta, come la cosa più naturale e semplice del mondo,il che è vero, lo è stato per secoli e dovrebbe esserlo sempre. Oggi , purtroppo il problema è il palcoscenico della vita, che ha come sfondi scenari difficili da vivere, per cui,un bimbo ,che nasce ,non è più la benedizione del Cielo sulla famiglia, ma , come tutto oggi, parte di un programma condiviso e studiato attentamente dai futuri genitori, insomma un problema, anche se graditissimo e per il quale si fanno anche follie.. a volte-

 

Un figlio è un tesoro in continuo divenire, il più bel tesoro possibile, la discendenza dell’umanità. Parliamo di “discendenza”; invece si tratta di “al-levare” un figlio, di elevarlo. I figli sono gli uomini del mondo futuro. Come vorremmo quel mondo? Ne abbiamo idea? Oppure non ci pensiamo mai, come se non dipendesse da noi, poveri esseri su questa terra, così ricca, così generosa, così fragile. Otto miliardi di persone al 15 novembre 2022. Come prenderci cura di questa piccola creatura appena nata, tanto vulnerabile, tanto delicata? Nutrirla, proteggerla dalle malattie, dal freddo. Il compito è arduo e indispensabile.

Ogni tappa nutre il bambino affamato di scoperte. Penetrano attraverso i cinque sensi. Il vento tra i capelli, la dolcezza della lana, il latrato del cane, l’odore della madre, la luce della lampada. Senza dimenticare la bocca. Perché lui mette tutto in bocca: un sasso, un giocattolo, una penna, un pelouche… per gustare e conoscere il mondo che lo circonda. Ogni età ha il suo grado di comprensione. Il bambino di due anni si farà investire in mezzo alla strada per inseguire una farfalla. Non avverte il pericolo, è compito dell’adulto proteggerlo senza rimproverarlo, perché cacciare farfalle è una bella e grande avventura per il bambino che si apre al mondo. Rimproverarlo significherebbe trasmettergli l’idea che il mondo è pericoloso, pieno di insidie. Rafforzando così la sua insicurezza. Potrebbe anche sentirsi umiliato, rampognato davanti agli altri. L’umiliazione dovrebbe essere bandita in ogni circostanza e per qualsiasi essere umano.

Crescere! Non è forse imparare attraverso una somma di esperienze affrontate nel miglior modo possibile, risolte una dopo l’altra, sempre con serenità? La fiducia del bambino nelle proprie capacità cresce con gli anni che passano, per poi arrivare all’età adulta padrone di tutte le conoscenze acquisite con fatica. Il bambino impara a ragionare da solo. Articola pensieri sulla vita che si agita attorno a lui fino a raggiungere un suo punto di vista.

Spesso i bambini ci fanno domande strane o imbarazzanti, sulla coppia, sui fratelli, sulla sessualità… pur intuendo quale possa essere la risposta! Ma si tratta di un test di credibilità, per sapere se gli adulti sono affidabili.

Ogni tappa della vita di un figlio è importante: da piccolo è come il latte sul fuoco: quando è più grande la pressione che esercita sull’adulto è molto meno forte. L’adolescente sa fare tutto, è autonomo! In realtà, vive un momento di fragilità, in cui la personalità deve affermarsi, affinarsi: il futuro ora è presente per il bambino cresciuto. Sorgente di angosce, desideri, progetti, paure, o semplicemente di paura dell’avvenire.

Le punizioni corporali sono assolutamente da bandire. I malumori, i capricci, il rifiuto di obbedire, non vanno interpretati come cattiveria, malignità, ma segnalano un disagio, un malessere, il timore di non essere amati, un’idea del tutto personale. Due genitori, ognuno con la sua personalità. La funzione del padre non è più quella di punire, bensì quella di amare, proteggere, guidare. E la madre non ha più il ruolo esclusivo di occuparsi del nutrimento. I compiti sono condivisi secondo il desiderio e il piacere di ognuno.

Senza dimenticare la nonna, così importante e così affettuosa. Lei non ha compiti educativi. Mia nonna mi ha insegnato la libertà, mi ha insegnato a saper amare. Avevo completa fiducia in lei, agiva solo per il mio bene, così le obbedivo sempre. Senza mai fare capricci, perché sapevo con certezza che, avendone la possibilità, avrebbe esaudito ogni mio desiderio: mangiare un gelato, andare al cinema, fare una passeggiata. I suoi dinieghi erano sempre giustificati da cause di forza maggiore.

La nonna non si occupava dei miei compiti, ma mi faceva raccontare cosa succedeva in classe, con i miei compagni, con la maestra. Mi lanciavo nel racconto della giornata con entusiasmo, lei mi chiedeva qualche dettaglio, mi dava il suo parere, rideva. Una scuola di eloquio, di dialogo! Ma anche un momento magico di condivisione.

Leggevo molto nel silenzio dell’appartamento. La lettura ha delle virtù cardinali, ci insegna la nostra lingua, fa viaggiare il bambino, gli fa scoprire luoghi e pensieri diversi. Il bambino penetra nell’immaginario di un altro essere umano che lo trasporta sulle ali del vento.

(traduzione di Alessandro Orlandi)

Somalia, la grande fame. In altri luoghi privilegiati, il lusso sfrenato.

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Nunei Kalamo Daruf, 16 anni, tiene in braccio la sua bimba appena nata: la piccola si chiama Salma, ha 3 mesi e pesa 2,5 chili.
Quando è arrivata a Baidoa, sei mesi fa, Oray Adan era incinta, sfinita e denutrita al punto da non avere più nemmeno la forza di mangiare. Suo marito è un agricoltore del villaggio di Bakal Yere, o meglio lo era, prima che la siccità seccasse la terra, condannasse a morte il bestiame e portasse la famiglia alla fame. Nei mesi che hanno preceduto la sua fuga dalla campagna tre dei loro quattro figli sono morti di stenti, malattie altrove curabili con un antibiotico e che in Somalia uccidono un bambino in una settimana, come il morbillo.
Per salvare il figlio superstite di due anni e quello che portava in grembo Oray Adan ha camminato due settimane e ha raggiunto il primo centro urbano in cerca di cure, acqua e cibo. È arrivata a Baidoa, città nella zona centro meridionale della Somalia, ed è stata indirizzata in un centro medico per bambini malnutriti. Scheletrica lei, scheletrico il figlio che teneva per mano, deperito il neonato che stringe tra le braccia con la cura che si deve a qualcosa di fragile che rischia di spirare da un momento all’altro. Si chiama Shukri Mohamed, ha quattro mesi, dovrebbe pesare otto chili, ne pesa solo due. Oray Adan avvolta in una veste che la copre tutta. Di lei ci sono ossa, pelle sottilissima e secca, la tubercolosi e il viso della malattia, della fame e della sete. Ho perso tutto – dice solo questo – ho perso tutto. La siccità le ha tolto le bestie, i campi, l’unico sostentamento che aveva,il cibo e la salute, le ha tolto i figli, ha reso fragili quelli rimasti in vita. Ho perso tutto, ripete. Poi stringe a sé il bambino tra l’avambraccio e il petto, lo dondola del cullare delle madri – il gesto universale di chi spera che il calore del corpo plachi il pianto e spenga la fame – poi lo stende sul letto del Centro di Stabilizzazione della città. E come lei arrivano a centinaia qui e in altri centri come questo, dove si trovano aiuti di quel volontariato internazionale, che continua a lavorare , nonostante tutto, gli aiuti del mondo sempre più scarsi e il disinteresse per tutti quei luoghi che non siano appetibili per valore economico, dove ,si sa ,le grandi potenze economiche arrivano con la scusa di stabilizzare paesi in continua guerriglia. La siccità, che dura da oltre tre anni ha contribuito non poco a ridurre in questo stato un paese già disastrato- Non sto a raccontare altro di quanto ho letto in questo reportage di Francesca Mannocchi, notizie su altre città, la stessa disperazione, morte e fame, racconti di donne e uomini disperati con l’unica certezza,questa : che il mondo intanto aspetta che i numeri dei morti soddisfino i criteri, le soglie tecniche, per definire la carestia e a quel punto, solo a quel punto, agiranno. A quel punto anche queste vite saranno diventate fantasmi.  Erano stati 122. Dodici mesi dopo, a ottobre del 2022, sono stati 809. Indicatore, uno dei tanti, dell’emergenza umanitaria che sta attraversando il Paese e che le agenzie umanitarie avvertono potrebbe diventare una crisi senza precedenti sia per dimensioni che per letalità se non verranno messe in campo, subito, le risorse necessarie.

Leggere tutto questo è stato un pugno nello stomaco, diventato doppio quando alla fine dell’articolo mi compare la pubblicità della Moka Dolce& Gabbana. Davanti ai miei occhi scorre nella mente il Pandoro Chiara Ferragni, i suoi quaderni firmati negli zaini Fedez, un mucchio di cose inutili fino al water Luis Vuitton. Pensare a cosa sia diventato questo mondo e a cosa mirino le grandi Potenze industrializzate sta diventando un pensiero che può soltanto far inorridire chiunque provi una briciola di empatia.

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Fare l’amore in un letto di fiori..

 Fare l’amore non è andare a caccia.

Dacia Maraini in “Fiori per noi” ci spiega con dolcezza e serietà come affrontare un rapporto di coppia. Da donna adulta con tanta vita alle spalle l’autrice fa monito a donne e ragazze su come approcciarsi al piacere con un uomo. Spesso, troppo spesso, purtroppo, capita che l’uomo si senta superiore. Come gli animali durante l’accoppiamento, l’uomo si sente in diritto di catturare e sovrastare l’altra metà, quasi come in una caccia, quasi come se la donna fosse una preda e non più una conquista. È terrificante come ancora ci si possa ritrovare tra i versi di “Fiori per noi” in quello che dovrebbe essere un rapporto di fiducia e piacere che si trasforma in un gioco di possesso.

“Fiori per noi”
Sii tu a baciarlo, a spogliarlo,
ad accarezzarlo, senza per questo rifiutare le sue
carezze e i suoi baci. Che sia chiaro, chiarissimo
lampante che siete in due a fare l’amore, non uno solo
sopra l’altro, contro l’altro, a danno dell’altro.
Rifiuta il gioco del corri e scappa che può
divertire ma alla fine ti porterà alla trappola.
La civetteria è un ‘arma così povera ad infelice
che poi quando sei incastrata contro un muro
non ti rimane che sorridere e acconsentire.
Ma non c’è niente da nascondere, lo vuoi capire.
Devi prenderti il tuo piacere da lui come
lui lo prende da te, senza infingimenti;
con pari entusiasmo e passione. Fagli la corte,
inseguilo, parlagli apertamente. Decidi tu
quando vuoi fare l’amore, non lasciarlo mai
pregare e supplicare, perché poi quando decidessi
non sarà più una decisione ma un cedimento
e subito lui urlerà di essere il tuo padrone
e avrà ragione perché sarai stata vinta e
non vincitrice, avrai accettato la regola
del cacciatore che corre appresso alla preda.

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Ma perché siamo nati senza pelo e ci siamo dovuti coprire?

 

La scoperta in Marocco di una caverna dove si confezionavano capi di pelle conferma l’idea che l’uomo iniziò a vestirsi molto indietro nella preistoria.

L’uomo si veste da almeno 170 mila anni, indicano gli studi genetici sui pidocchi dei vestiti: risale infatti a quel periodo la specializzazione di un contingente di pidocchi della testa che trovò più conveniente migrare nei vestiti per infestare da lì la pelle degli umani. Ora però ci sono prove più dirette: le analisi del Max Planck Institute su ossa di animali e strumenti risalenti a 120 mila anni fa, trovati nella grotta di Contrebandiers, sulla costa atlantica del Marocco, hanno permesso di ricostruire le attività di una pellicceria (e pelletteria). Non di trovare la “merce”, che non poteva conservarsi tanto a lungo, ma gli attrezzi e le ossa fossili degli animali scuoiati. Il fatto che in quella regione non facesse tanto freddo indica che da un pezzo l’umanità aveva iniziato a vestirsi, e che forse gli abiti erano già caratteri distintivi delle diverse comunità, per forma o anche per tipo di animale utilizzato. In particolare, le prove che nella caverna vi fosse una pelletteria derivano da strumenti in osso fabbricati in modo da fungere da raschiatoi con terminali rotondi per non bucare le pelli. I resti di animali – volpe del deserto, gatto selvatico e sciacallo dorato – mostrano sulle ossa delle zampe, di mandibole e mascelle segni di tagli che manifestano l’intenzione di scuoiarli preservando l’integrità delle pelli, come facevano gli indiani d’America e i cacciatori di pellicce bianchi del Canada.
L’archeologa Hemily Hallet, prima firmataria dello studio apparso su Science, ha raccontato di avere esaminato 62 utensili in osso, fra cui bulini e altri a forma di spatola. Un dente di capodoglio serviva da percussore, cioè a scheggiare per ottenere gli utensili da pellicceria desiderati. Questo ritrovamento riconduce ai raschiatoi di pietra di tanti siti del Paleolitico, a indicare che la concia delle pelli non doveva solo riguardare la fabbricazione di stuoie, sacche per trasporto, contenitori per acqua e cibo, ma in modo particolare il vestiario. Tanto più utile all’uomo di Neanderthal, che non sarebbe durato oltre 250 mila anni nell’Europa glaciale senza pellicce. I suoi denti incisivi vengono spesso trovati consumati, segno che, come gli Inuit dell’Artico, conciava le pelli usando anche la bocca. Il vestiario deve poi essere stato decisivo per l’Homo sapiens, proveniente dall’Africa, nella sua diffusione in Siberia e in Nord Europa.

L’uomo è uno dei pochissimi, fra le oltre 5 mila specie di mammiferi, a non avere pelo o quasi, assieme ai cetacei e a una talpa, l’eterocefalo glabro.È l’unico senza pelo fra i primati. Come i cetacei e le lontre, è fra i pochi a poter trattenere il respiro volontariamente. Occorre ricordare che se il colore della pelle è un adattamento locale, la mancanza di pelo è un carattere universale, frutto quindi di una mutazione molto antica. Tutto ciò ha fatto ipotizzare che nell’evoluzione umana ci sia stato un periodo acquatico: cioè si stava spesso a bagno in cerca di molluschi, crostacei e pesci. Di questa parentesi risalente forse a 5 milioni di anni fa se ne parlò in un libro dell’antropologa inglese Elaine Morgan e ne fu promotore negli anni ’20 Gioacchino Sera, antropologo all’università di Napoli. Più di recente, ritrovamenti di ominini fossili presso i grandi laghi africani, che un tempo avevano sulle loro rive fitte foreste, e la scoperta che l’Africa orientale fu interessata, 5 milioni di anni fa, da una trasgressione marina, hanno insidiato la teoria della savana e convinto l’antropologo sudafricano Phillip Tobias a rilanciare l’idea di un passato acquatico dell’uomo. Se la teoria della savana dice che i nostri antenati divennero bipedi per meglio guardarsi in giro dall’alto della stazione eretta, quella acquatica la reputa un adattamento per guadare i corsi d’acqua (anche le scimmie al guado si alzano su due arti) e utile persino per nuotare. Secondo questa teoria, grazie alla pesca in apnea impararono a controllare volontariamente la respirazione, potendo poi permettere a noi di parlare modulando il respiro. Come le foche e i delfini, noi umani abbiamo il grasso sottocutaneo, di cui nessuna scimmia dispone. Che permette ancora oggi ai bambini di avere sufficienti energie per sviluppare un grande cervello.

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Rasatura e rivoluzione- breve storia dei peli.

 

Non hanno peli sulla lingua. Ma hanno i peli sotto le ascelle. E se ne vantano. La lotta contro la depilazione è l’ultima frontiera della #BodyHairPositivity: partita dalle ragazze, ora sta conquistando schiere di donne di ogni età, sempre più decise ad abiurare la religione della ceretta. Perché vedono nella rivendicazione della libertà tricologica un’arma per combattere quegli standard di bellezza che sono da sempre croce e delizia delle donne, due facce di una stessa medaglia. Che ha sul dritto l’appeal e sul rovescio il body shaming.

A guidare questa lotta di liberazione è sceso in campo lo star system: modelle, attrici, influencer che gettano nella battaglia tutto il loro peso mediatico. Da Sophia Loren a Julia Roberts, pioniere della hairy revolution. Dalla pop star Rihanna a Cara Delevingne, la top model (e molto altro) britannica. Da Lourdes Maria Ciccone Leon a Paris Jackson, figlie rispettivamente di Madonna e di Michael Jackson.

Anche il fronte di casa nostra conta esponenti di primo piano. Come la cantante Veronica Lucchesi, del duo La Rappresentante di Lista, che a Sanremo 2021 ha esibito i suoi cespuglietti ascellari provocatoriamente dipinti di fucsia, per passare un colpo di evidenziatore sulla sua scelta. Sostenuta da Paola Maugeri, giornalista e conduttrice radiotelevisiva, che ha raccontato di aver cancellato dalla sua agenda il giorno della ceretta.
Perché questa sofferenza cui le donne si sottopongono, volenti o nolenti, è in realtà una forma di sottomissione, vissuta come un fatto naturale: è una scelta imposta e accettata per aderire a un format estetico che vuole il corpo femminile glabro, levigato, adolescenziale, anche a sessant’anni.
Sulla stessa linea è schierata Giorgia Soleri, influencer multifollower, che ha per compagno Damiano, la voce dei Måneskin. Giorgia considera il corpo femminile come un terreno di scontro tra i generi. Che oggi si può combattere anche rimettendo in discussione quel totalitarismo della bellezza alla base della sottomissione, e dell’autosottomissione, delle donne al giudizio maschile.

Ma se il rifiuto del rasoio diventa un gesto politico, è perché peli e capelli sono uno dei più antichi linguaggi umani. Un modo per farsi riconoscere e classificare al primo sguardo, disegnandosi sul corpo l’identità. Territoriale, nazionale, di genere, di censo, di rango, di credo religioso, di fede politica. Tagli, lunghezze, rasature, tonsure, acconciature, velature, piegature, arricciature, cotonature, scriminature, depilazioni, colorazioni, estirpazioni, sono altrettante parole di una lingua universale, i cui significati cambiano continuamente con i tempi, i popoli, le culture.
Se oggi l’Occidente pullula di centri di depilazione frequentati da credenti e non credenti, una volta la Chiesa considerava ascelle e cosce glabre un peccato. Grave per le donne, ree di vanità. Ma mortale per gli uomini. Che rinunciando a toraci villosi e gambe boscose, andavano contro natura. Perché se Dio avesse voluto l’uomo liscio come la donna – bacchettava san Clemente – non gli avrebbe dato la barba come ai leoni. E proprio non gli avrebbe fatto crescere tutti quei peli. Che peraltro, sentenziavano i teologi, servono soprattutto a nascondere quelle parti che il peccato originale ha reso vergognose. Questa idea era talmente radicata che, quando nel Cinquecento gli Europei conquistano le Americhe, i missionari affermano che i nativi sono senza peccato. Non per ragioni evangeliche, ma semplicemente perché non avevano l’ombra di un pelo. Paradossalmente la pensava così anche lo psicoanalista Charles Berg, autore nel 1951 di un libro che ha fatto epoca come The Unconscious Significance of Hair (Routledge) in cui sostiene che chiome e villi sono sostituti visibili e ostentabili di organi sessuali invisibili e non ostentabili. Secondo Berg, ai capelli lunghi corrisponderebbe una sessualità sfrenata. Mentre quelli corti o legati sarebbero il segno di una propensione controllata, come nel caso dello chignon. O addirittura negata, come la tonsura dei monaci o la rasatura integrale delle monache. E persino delle ebree ortodosse che, dopo il matrimonio, indossano la parrucca sulla nuca depilata. E se i ragazzi tradizionalmente avevano nella barba il contrassegno della virilità, la peluria femminile poteva diventare segno di castità. In certi casi, addirittura, simbolo di una diga contro gli effetti indesiderati della bellezza. Come insegna il caso di Santa Liberata cui, secondo la leggenda, il Signore fece crescere una folta barba per salvarla da un matrimonio combinato dal padre. Inutile dire che il prodigio ebbe l’effetto di far dileguare il pretendente.

In altri casi, quelli che da noi si chiamano ancora peli superflui, sono addirittura necessari per riaffermare la propria superiorità sociale e razziale. Come nell’America Latina dove tradizionalmente le signore di origine ispanica non depilano ascelle e gambe per distinguersi dalle donne indie che sono naturalmente glabre.
Al contrario, nel mondo islamico gli uomini sono tenuti a portare la barba, che un proverbio iraniano definisce il “velo maschile”. Mentre il resto del corpo va rigorosamente depilato. Perché come stabilisce il Fitrah, decalogo dell’igiene quotidiana, i peli – dalle ascelle alle parti intime – sono impuri.

Ma oltre la religione e l’estetica, a far perdere il pelo è anche il vizio della moda. Quando nel 1680 il Re Sole, Luigi XIV di Francia si rade la barba ormai ingrigita, il viso liscio diventa un trend europeo. Pietro il Grande, Zar di tutte le Russie, nel 1698 impone addirittura una tassa sulla barba per convincere i sudditi riluttanti all’europeismo pilifero. Chi voleva tenersi l’onor del mento, doveva pagare un’imposta ed esibire a richiesta la quietanza di pagamento. Da allora i rivoluzionari di tutto il mondo si riconoscono dal barbone, da Karl Marx a Fidel Castro. Come i capelloni (senza distinzione di sesso) nel Sessantotto che trasformano peli e capelli in simboli della contestazione e dell’autodeterminazione contro ogni forma di capitalismo e di patriarcato. In una prova generale della rivoluzione. Insomma, ieri come oggi, le grandi battaglie si vincono o si perdono per un pelo.

Marino Niola

 

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Guardare le opere di Edward Hopper con occhi diversi…

 

Io penso che tutti coloro che conoscono Edward Hopper e le sue opere, uniche nel loro genere asciutto, minimalista e reali, le abbiano sempre guardate come rappresentazione della solitudine, alla quale si poteva aggiungere qualsiasi aggettivo. Quelle persone sole appoggiate ad una porta, quelle donne nude su letti o poltrone cogli sguardi volti all’infinito, quei lunghi banconi di bar quasi vuoti, benzinai in attesa di un cliente ci sono sempre apparse come disperati solitari in popolose metropoli americane, dove persino il caos del rumore a volte viene percepito come un assordante silenzio.
Esiste invece un ‘altra interpretazione dei dipinti di Hopper, che libera i suoi personaggi dalla solitudine, mettendoli in una dimensione diversa – C’è un libro  Oltrecolore , nel quale l’autore Antonio Spadaro ci spiega la sua visione e ci aiuta ad osservare questi dipinti secondo un diverso punto di vista,ci porta insomma a dare sfogo alla nostra immaginazione. Ebbene sappiamo come la nostra fantasia dipenda dai nostri stati d’animo. Meraviglioso quindi avvicinarsi a questi dipinti, e mentre li ammiriamo perdersi in una qualunque situazione, che possiamo immaginare per loro.
Spadaro scrive infatti che “nei quadri di Hopper le figure sono colte in attesa che qualcosa avvenga, come se una rivelazione fosse a portata di mano. La risposta sta fuori, rispetto alla superficie del quadro. La soluzione dell’attesa non è data, ma è suggerita come una necessità ineliminabile. Si ha la certezza che qualcosa debba avvenire o qualcuno debba arrivare, anche se non si sa che cosa o chi. Hopper è dunque il maestro che sa fissare l’attimo instabile in cui la vita si manifesta come desiderio di una forma di salvezza”. Sarà bello fare questo ragionamento non appena mi troverò ad ammirare un dipinto di Hopper, sarà bello immaginare i pensieri di quella signora in treno, in attesa di qualcuno che la sta aspettando con ansia , per qualsiasi motivo, in viaggio verso una realtà piacevole.

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Oppure guardare quelle sue case solitarie e riempirle di vita, di gioia, di rumori, di persone che non siedono nude su un letto guardando, fuori dalla finestra, un mondo che non le appartiene.

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Perché oggi abbiamo così paura ad amare? Ci risponde il grande sociologo polacco con il libro “Amore liquido: sulla fragilità dei legami affettivi”.

 

Molti intellettuali si rifiutano oggi di parlare di amore, considerandolo un tema poco impegnativo, anche se in fondo interessa tutti pur nei modi più svariati, nonostante ognuno di noi non possa negare il bisogno di affetto profondo. Di recente sui Rai 3 Zigmund Bauman, in un documentario” La Teoria svedese dell’amore”, il teorico della società fluida, ha detto: “Non è vero che la felicità significhi una vita senza problemi. La vita felice viene dal superamento dei problemi, dal risolvere le difficoltà. Bisogna affrontare le sfide, fare del proprio meglio. Si raggiunge la felicità quando ci si rende conto di riuscire a controllare le sfide poste dal fato, ci si sente persi se aumentano le comodità” Perciò è necessaria la nostra capacità di combattere, di fare scelte, lottare per essere più vicini alla felicità, ma questa lotta non si può combattere da soli. Di qui il bisogno di accettare sempre l’amore perchè il segreto sta nel condividere la vita , nel rispetto della libertà completa dell’altro- libertà che è cosa ben diversa dalla indipendenza, la quale annulla la capacità di condivisione e ” porta a una vita vuota, priva di senso, e a una completa assoluta inimmaginabile noia”.

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Lo snowfarming, per lo sci di oggi e di domani-

Ai tempi della mia giovinezza le domeniche di fine Novembre erano le prime che trascorrevamo in montagna a sciare, o forse più per valutare lo stato dell’innevamento in vista della Stagione, che ufficialmente si apriva con la festa dell ‘Immacolata, che spesso, quando capitava infra settimana era il primo ponte invernale ,sempre trascorso sulla neve, in Italia o all’estero. Ora le nostre Alpi sono innevate, ma soltanto oltre i 2000 metri, la neve non è altro che spruzzate, pochissimi centimetri, che il sole del giorno fa sparire in poco tempo. Ma c’è un paesino, Riale, in val Formazza in Piemonte dove , grazie all’intuito e all’amore per la propria terra, Gianluca Barp, permetterà ai suoi molti amici fondisti di poter iniziare ad allenarsi o semplicemente divertirsi su un circuito iniziale di 3 Km di pista. Tutto questo avviene, grazie a una tecnica, chiamata Snowfarming, che l’imprenditore , fin dal 2019 sperimenta in Italia. Iniziò custodendo inizialmente la neve invernale fino alla stagione successiva, con 2500 mc per arrivare oggi ad averne disponibili 8000mc. In questi giorni si sta preparando la pista con un lavoro preciso e meticoloso. La pista viene allestita in un’area, che vede il sole per poco tempo nella giornata; la neve viene prelevata da camion, che la trasportano sulla pista livellandola grossolanamente, visto che il lavoro di battitura viene fatto subito dopo dai gatti della neve. Ma come si è conservata tutta questa neve? Ammucchiata in una montagna e tenuta coperta per tutto il tempo da tecnologici teli geotermici con fibre di alluminio, intervallati da strati isolanti di ovatta grazie al supporto tecnico di Snow Makers, un’azienda specializzata svizzera .I teli sono poi stati legati uno all’altro con un sistema di velcri e cuciture a filo. Questi speciali materiali di copertura garantiscono il doppio beneficio di proteggere termicamente la massa sottostante e, grazie all’azione riflettente, di non far penetrare i raggi UVA.

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Un metodo fantastico, che permetterà, anche col cambiamento climatico, a chi vorrà, di continuare a vivere di sport invernali su queste bellissime montagne, che diversamente verrebbero abbandonate con danni enormi oltre che all’economia, a tutto l’ambiente montano; e ormai sappiamo tutti quanti danni facciano le nuove bombe d’acqua su questi territori, quando non trovano cosa fermi l’acqua verso la pianura. Oggi il paesaggio è strano, pare una pista giocattolo sistemata in mezzo a tanto verde, manca l’impatto paesaggistico al quale si era abituati, ma rimane la possibilità di praticare ancora sport, che diventerebbero impossibili . Forse impossibile e quindi per pochi diventerà il loro costo, poichè se il clima continuerà a scaldarsi, anche la neve diventerà un meraviglioso ricordo. La cosa che mi impressiona è riflettere su come il mondo sia arrivato a noi fino al diciannovesimo secolo , miliardi di anni, quasi intatto e che in meno di cento anni, gli uomini civilmente, culturalmente, tecnologicamente più avanti di sempre siano riusciti a distruggere tutto ,lasciando un mondo al limite della sopravvivenza e l’onere ai posteri di conservare quel poco che rimane.

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Apologia del denaro…

Lo pratica dello sport contribuisce a definire il nostro stile di vita per molteplici fattori :il mantenimento e miglioramento dello stato di salute, la necessaria distrazione dalla vita quotidiana, mantenersi in linea, la competizione, lo svago, la passione e il divertimento sono solo alcune delle motivazioni che spingono l’uomo verso lo sport. Ma lo sport è anche fucina di quei valori che determinano le nostre azioni in ogni ambito della vita insieme a quelli che ci trasmette l’educazione famigliare e scolastica.
I principali valori educativi che derivano dalla pratica sportiva riguardano:
Rispetto -Collaborazione-Risultato-Integrazione e Appartenenza -Competizione-Emozione
Disciplina e Costanza-Impegno e Sacrificio-Motivazione -Autostima-Etica.
La cultura greca attribuiva una grande importanza allo sport, importanza di gran lunga superiore a quella della nostra epoca. Lo sport era incoraggiato non solo per la fisicità, ma anche per temprare i giovani e dar loro la forza di sostenere le contrarietà della vita.
Insomma, forza del corpo e forza dello spirito. Oggi, quando lo sport può essere praticato in molti luoghi, dalle palestre agli stadi, ai palazzetti sportivi, dove si hanno dietisti e nutrizionisti pronti a fornire diete dedicate, integratori di forza, trainer qualificati, lo sviluppo etico e intellettuale non è più collegato allo sport. Assistiamo quindi allo sport come ambito mestiere per chiunque, con qualche talento specifico relativo all’attività praticata. Vediamo ragazzini appassionati e anche molti assillati dalle ambizioni dei genitori finire le loro giornate senza forze e voglia di dedicarsi agli studi, che, paragonati allo sport, diventano sempre meno appetibili come realizzazione di vita. Le Competizioni mondiali di ogni disciplina sono una fonte ineguagliabile di reddito, per chiunque riesca a partecipare, parlo già di campioni strapagati con cifre da capogiro per i comuni mortali-Nello sport si investono miliardi e miliardi dovunque, in onore al dio denaro che riesce spesso a moltiplicare  gli investimenti, anche i più strani. A giorni si apriranno i mondiali  di calcio più unici della storia. Il Qatar, stato organizzatore, membro degli Emirati arabi, è un paese islamico integralista, tra i più lontani dal mondo dello sport, eppure ha investito cifre senza senso per avere nel suo paese questa competizione. Pertanto i giochi si fanno a fine autunno, dopo aver interrotto tutti i campionati del mondo, si sono costruiti stadi avveniristici dove i calciatori potranno sfidarsi con temperature artificiali in un paese dove il caldo è al limite della sopportazione. Tuttavia lusso e comodità non mancheranno a chi sarà spettatore, saranno offerte pure suite matrimoniali negli stadi dove potere assistere alle partite nella massima libertà consentita dalle leggi locali, che sono rigidissime per quanto concerne molti diritti acquisiti , dovunque o quasi, in molti paesi del mondo occidentali. Si parla di questi mondiali come dell’evento del secolo, non riesco ad immaginare quanta potrà essere la partecipazione in presenza; pare che l’emiro paghi i suoi cittadini affinchè partecipino. Negli anni passati si sono viste defezioni di partecipanti, di spettatori un po’ dovunque, defezioni come protesta contro violazioni dei diritti civili, ma in questo caso nessuno ha parlato di questo. Per costruire tutto il necessario allo spettacolo, in questi anni sono morte 6000 persone, per fatica, caldo e malattie, emigrati pagati quattro soldi e costretti ad una vita miseranda  affinchè il mondo potesse vedere quello che il Denaro può. Qualcuno parlotta, nessuno pensa di intervenire a livello mondiale per mettere in riga un paese che non rispetta la vita degli uomini, che calpesta i diritti di liberta di ognuno in ogni campo, tutto tace, solo qualche bisbiglio. Se c’è qualcosa da evitare, da boicottare, questo mondiale sarebbe perfetto. Ma…ma…quanti ma prima di non inchinarsi al petrolio e alla montagna di miliardi di costoro. Il denaro è capace di uccidere anche quel briciolo di etica intellettuale, che rimane nei paesi dell’Occidente. O forse anche per questa siamo ai molti distinguo.

Qatar