Il nuovo razzismo…quello anagrafico.

 

C’è un razzismo anagrafico che sta assumendo tratti ideologici, politici, economici ed ecologici: è l’odio verso i vecchi. Se il mondo va male, è brutto, è sporco, è inquinato, è egoista e non offre spazi e opportunità per i ragazzi, la colpa è dei vecchiacci che si ostinano a vivere sempre più a lungo. Se resistono ancora residui arcaici di famiglia, paternità, maternità, figli naturali, attaccamento alla casa, ai costumi e alle tradizioni, la colpa è dei vecchi. Se si allarga il buco d’ozono, se peggiora il clima, se la plastica diventa un continente sempre più grande, la colpa è della società ereditata dai padri e dai nonni, dunque dai vecchi e dai defunti. La retorica untuosa dell’inclusione e della solidarietà verso i bisognosi e i discriminati si arresta davanti ai vecchi che sono i più bisognosi, i più discriminati, e i più esclusi. I vecchi sono più restii a perdere il senso della realtà, hanno la possibilità di fare paragoni, hanno vissuto in epoche in cui si amava la storia, la cultura, l’esperienza, la comunità, e dunque sono meno assimilabili all’uniformità militante, più restii a polverizzare la propria identità, hanno facoltà mentali rallentate e invecchiate ma non atrofizzate per il disuso, come sta purtroppo succedendo ai più giovani. E poi, sono i vecchi a votare più a destra, a difendere un po’ d’italianità e le buone maniere di una volta. I vecchi hanno colpa di tutto, e quando si tirano in ballo le brutte abitudini dei ragazzi, la colpa è sempre dei vecchi perché sono stati loro, i vecchi a non educarli come si doveva, a renderli egoisti e menefreghisti.
Il vecchio, poi, incarna la lentezza, fa perdere tempo, ha movenze incompatibili con i ritmi dei nostri giorni. Il vecchio non produce, è un ramo secco; è un pensionato, dunque un parassita improduttivo, per giunta bisognoso di assistenza sanitaria (tanti soldi). Il vecchio non s’aggiorna, è obsoleto rispetto ai nuovi saperi e alle nuove tecnologie. E poi il vecchio non esalta la vita, il corpo, la salute, il sesso, ma la loro disfatta, e dunque rappresenta la nuova oscenità rispetto alle virtù gaudenti della società fricchettona e fighettina. Rimossa la morte, la vecchiaia è il suo parente più prossimo e va rimossa dai nostri orizzonti, isolata e relegata fuori dalla sfera dei nostri riti quotidiani. Il vecchio ricorda il passato e soprattutto il futuro che non vogliamo vedere, perché la sua vita non solo narra quel che fummo, ma il suo corpo narra quel che saremo. Il vecchio è dimenticato a casa, lasciato alla sua solitudine o alla penosa compagnia di un ospizio. Va cancellato perché disturba gli orizzonti funzionali, tecnologici ed estetici del nostro giovanilismo permanente. Così applichiamo nei suoi confronti una specie di arteriosclerosi di ritorno; lo dimentichiamo come lui a volte dimentica i volti dei congiunti, non lo riconosciamo come lui a volte non riconosce noi. Lo cancelliamo per gradi con un consapevole morbo di Alzheimer, opponendo alla sua demenza senile un’altra demenza volontaria e puerile, fondata sull’egoismo, la fretta e l’urgenza del piacere. Curiosa la sensibilità e la tenerezza dei nostri giorni: da una parte la gente si commuove per il cane abbandonato, salvo trascurare il nonno lasciato a casa in balia di se stesso, delle sue malattie e insicurezze, della depressione. Dall’altra parte è tutto un fiorire di accorati appelli per i bisognosi del pianeta salvo dimenticare le sofferenze di casa nostra, del proprio padre e della propria madre o del nonno, dimenticati tra le pareti domestiche della loro estate solitaria, tra calore, malore e squallore. Altruisti con l’umanità e la zoologia, egoisti in casa propria e con i propri genitori.
Il nuovo razzismo delle società avanzate, non è più fondato sul colore della pelle ma dei capelli; non etnico ma anagrafico, e tecnologico: la nuova apartheid colpisce vecchi e bambini, entrambi d’intralcio. Spariscono non solo le famiglie verticali con tre, quattro generazioni, ma anche i gruppi anagraficamente trasversali. Vecchi e bambini infrangono i modelli di vita, richiedono cure e attenzioni, modificano ritmi e stili di vita abituali. Evocano urla e lamenti, bisogni, impedimenti e impellenze, feci e urina. C’è un parricidio egocentrico dietro questa rimozione, una sostituzione anagrafica, che è poi anche etnica, perché i giovani non ci sono, i bambini figuriamoci; di conseguenza chi rimpiazza i vecchi sono i migranti. La notte e la movida, il sesso e la vacanza, i consumi e la fluidità sono incompatibili con entrambi.
Un tempo c’era l’alibi dall’euforica attesa d’avvenire con l’utopia rivoluzionaria del mondo nuovo, rivolto alle generazioni venture. Oggi invece non c’è né futuro né passato da invocare ma solo un morboso attaccamento al presente. Di conseguenza, dopo aver rifiutato i vecchi rifiutiamo anche i bambini, salvo quelli nati per via artificiale, tra uteri in affitto, maternità surrogate e compravendite di ogni tipo. Ci pesa sia il passato che il futuro perché ci chiamano alle nostre responsabilità.
Però c’è un piccolo problema: i vecchi non sono una fetta della società ma la maggioranza, via via assoluta. Di conseguenza considerarli come una sorta di sciagura per l’umanità significa sostenere che la maggioranza dell’umanità sia una sciagura per la minoranza… Ah, se esistesse un profilattico per non avere vecchi per casa, oltrechè bambini; ah, se potessimo abortire i vecchi padri come si abortiscono i figli… Gerontofobia e pedofobia. Siamo una società che invecchia e non fa figli: avremmo due ottime ragioni per amare e rispettare i vecchi come i bambini. La loro alleanza ci salverà?

MV                                                                                                                                   

Una maschera per vivere…

 

In ogni lingua europea l’uso della parola “person”è involontariamente appropriato. L’origine di “person” è “persona”, una maschera ,come quella che gli attori erano soliti indossare sui palcoscenici antichi;ed è sicuramente vero che la maggior parte di loro non mostravano se stessi come erano, ma indossavano una maschera della quale interpretavano il ruolo. Infatti, la nostra posizione sociale può essere paragonata ad una continua commedia.
Ed è  per questo motivo che l’uomo che sa riconoscere il valore delle cose trova la maggior parte della società senza alcun interesse , mentre l’incompetente e credulone si trova perfettamente a suo agio, come se fosse a casa sua. E’ stato guardandomi intorno che mi sono ricordata della visione pessimistica della vita di Shopenhauer  e, sinceramente, mi pare attualissima.

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L’uccello e l’uovo. Una parabola Sufi.

Ricordo di Don Milani…e un grazie.

 

A pochi chilometri da Firenze, nel paese di Barbiana, negli anni ‘60 un giovane insegnante, don Lorenzo Milani, usò due semplici parole in inglese nella sua scuola: I care (ho a cuore, ci tengo, mi importa dell’altro in italiano Ndr). Sono le due parole più importanti da imparare”: non poteva passare inosservata la citazione della presidente della Commissione europea Ursula Von Der Leyen. Un omaggio al sacerdote di Barbiana nella sua terra, in occasione della presenza di Von der Leyen allo State of the Union, organizzato all’Istituto universitaio europeo di Fiesole nel maggio scorso. A dimostrazione di quanto l’esperienza e l’eredità di Don Milani siano un patrimonio internazionle.(La Nazione)

“I care – aveva aggiunto Von der Leyen – significa mi faccio carico delle responsabilità e ne ha fatto un motto per l’Europa, che , tuttavia, molto spesso, viene dimenticato.

Don Lorenzo Milani, il priore pedagogista di Barbiana nasceva cento anni fa a Firenze. Una delle personalità ecclesiastiche più significative del dibattito culturale del secondo dopoguerra: colto, visionario, disobbediente nel suo sentirsi sempre parte della Chiesa. Forte di una convinzione che nasceva da una matura e disincantata osservazione del contesto sociale nel quale gli operatori culturali dovevano agire, don Milani giunse a rivoluzionare completamente il ruolo dell’educatore, denunciando la natura classista dell’istituzione scolastica italiana, andando incontro concretamente alle esigenze dei ceti meno privilegiati. E lo fece con i suoi «ragazzi» di montagna, nell’Alto Mugello, organizzando nella canonica di Barbiana, nel comune di Vicchio, la sua scuola, destinata ai «figli dei poveri».
Con il nome collettivo di «scuola di Barbiana», il sacerdote nel 1967 pubblicò «Lettera a una professoressa», testo anticipatore della contestazione studentesca del 1968. Il riconoscimento della grandezza di don Milani avverrà da parte della Chiesa molto tempo solo dopo la sua morte (26 giugno 1967), con un tardivo riconoscimento della sua opera, suggellata dalla visita di Papa Francesco a Barbiana il 20 giugno 2017.( Il Messaggero)

Era nato il 27 maggio 1923, a Firenze, don Lorenzo Milani, che come scriveva Michele Gesualdi, uno dei suoi ragazzi di Barbiana, era “uno di quegli uomini che per le sue scelte nette e coerenti, le sue rigide prese di posizione, il linguaggio tagliente e preciso, la logica stringente si tirava facilmente addosso grandi consensi o grandi dissensi con schieramenti preconcetti che hanno spesso offuscato la sua vera dimensione”. E se su di lui è stato detto e scritto molto, sosteneva Gesualdi, ancora resta molto da scoprire, “soprattutto in quella dimensione religiosa che è l’aspetto fondamentale di tutta la sua vita e delle sue opere”. Perché, prima di tutto, don Lorenzo era un prete che voleva servire Dio radicalmente e lo voleva fare servendo la gente che gli era stata affidata.

Don Milani è stato sacerdote e maestro perchè convinto che la mancanza di cultura fosse un ostacolo all’evangelizzazione e all’elevazione sociale e civile del suo popolo. Uno scritto di don Lorenzo esprime in modo impressionante la radicalità della sua fede e delle sue scelte. Di fronte a Pipetta, il giovane comunista che gli diceva: “Se tutti i preti fossero come lei, allora …”, don Milani rispondeva: “Il giorno che avremo sfondato insieme la cancellata di qualche parco, installato la casa dei poveri nella reggia del ricco, ricordati Pipetta, quel giorno ti tradirò, quel giorno finalmente potrò cantare l’unico grido di vittoria degno di un sacerdote di Cristo, beati i poveri perchè il regno dei cieli è loro. Quel giorno io non resterò con te, io tornerò nella mia casuccia piovosa e puzzolente a pregare per te davanti al mio signore crocifisso.”
“Il Centenario della nascita di don Lorenzo Milani non può essere una celebrazione storica scontata – afferma il presidente dell’Istituzione culturale don Milani, Leandro Lombardi -, ma vogliamo che diventi un’occasione per riscoprire quanto il suo messaggio sia più attuale che mai, ci aiuti a capire il nostro tempo e a trovare nuove soluzioni per i nostri”. Il Comitato nazionale per il Centenario dalla Nascita spera che l’anniversario possa promuovere soprattutto l’approfondimento e la riflessione sull’attualità dell’esperienza del priore con l’ambizione di sollecitare, ispirato dalla sua figura, un impegno diffuso per la realizzazione di un futuro più giusto per tutti.(Vatican Inside)

Don  Milani

“Lettera ad una professoressa è il libro scritto da Don Milani” in cui il prete racconta la sua scuola, i luoghi in cui ha operato e nel quale è racchiuso tutto il suo pensiero, tanto semplice da non aver bisogno di un trattato, ma che riflette tutto il contenuto di quelle due semplici parole inglesi”I care” ,che riteneva dovessero far parte integrante del pensiero politico e religioso, un pensiero accessibile a tutti, che da solo riuscirebbe a colmare la disaffezione verso la politica, che allontana da essa sempre più persone. Ecco l’incipit..

Cara signora,
lei di me non ricorderà nemmeno il nome.
Ne ha bocciati tanti.
lo invece ho ripensato spesso a lei, ai suoi colleghi, a quell’istituzione che chiamate scuola, ai ragazzi che «respingete».
Ci respingete nei campi e nelle fabbriche e ci dimenticate.

La timidezza

Due anni fa, in prima magistrale, lei mi intimidiva.
Del resto la timidezza ha accompagnato tutta la mia vita. Da ragazzo non alzavo gli occhi da terra. Strisciavo alle pareti per non esser visto.
Sul principio pensavo che fosse una malattia mia o al massimo della mia famiglia. La mamma è di quelle che si intimidiscono davanti a un modulo di telegramma. Il babbo osserva e ascolta, ma non parla. .
Più tardi ho creduto che la timidezza fosse il male dei montanari. I contadini del piano mi parevano sicuri di sé. Gli operai poi non se ne parla.
Ora ho visto che gli operai lasciano ai figli di papà tutti i posti di responsabilità nei partiti e tutti i seggi in parlamento.
Dunque son come noi. E la timidezza dei poveri è un mistero più antico. Non glielo so spiegare io che ci son dentro. Forse non è né viltà né eroismo. E solo mancanza di prepotenza.

Ci sono donne…quasi tutte.

 

Le donne hanno la cattiva abitudine di cascare ogni tanto in un pozzo, di lasciarsi prendere da una tremenda malinconia e affogarci dentro, e annaspare per tornare a galla: questo è il vero guaio delle donne. Le donne spesso si vergognano d’avere questo guaio, e fingono di non avere guai e di essere energiche e libere, e camminano a passi fermi per le strade con bei vestiti e bocche dipinte e un’aria volitiva e sprezzante; ma a me non è mai successo d’incontrare una donna senza scoprire dopo un poco in lei qualcosa di dolente e di pietoso che non c’è negli uomini, un continuo pericolo di cascare in un gran pozzo oscuro, qualcosa che proviene proprio dal temperamento femminile e forse da una secolare tradizione di soggezione e schiavitù e che non sarà tanto facile vincere; m’è successo di scoprire proprio nelle donne più energiche e sprezzanti qualcosa che mi indiceva a commiserarle e che capivo molto bene perché ho anch’io la stessa sofferenza da tanti anni e soltanto da poco tempo ho capito che proviene dal fatto che sono una donna e che mi sarà difficile liberarmene mai. Due donne infatti si capiscono molto bene quando si mettono a parlare del pozzo oscuro in cui cadono e possono scambiarsi molte impressioni sui pozzi e sull’assoluta incapacità di comunicare con gli altri e di combinare qualcosa di serio che si sente allora e sugli annaspamenti per tornare a galla.

Natalia Ginzburg ,Discorso sulle donne, 1948

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 Per curiosità ho provato a fare una ricerca su Bing sullo stesso argomento. Ecco cosa mi ha dato.

L’insicurezza femminile è un tema molto importante e complesso. Ci sono molte cause che possono contribuire all’insicurezza femminile come fattori culturali e biologici³. L’insicurezza femminile può influire sulla libertà delle donne e sulla loro capacità di vivere la vita al massimo¹.

Ci sono molte risorse disponibili per aiutare le donne ad affrontare l’insicurezza femminile. Ad esempio, il libro “La città delle donne” di Bianca Fusco si focalizza sul concetto di sicurezza come scelta prospettica per guardare a chi ha il diritto di vivere la città e come².

Spero che queste informazioni ti siano state utili.

Origine: conversazione con Bing, 26/5/2023
(1) Le cause dell’insicurezza femminile – Nuova Mente – Psicologo Bologna. http://www.nuova-mente.it/cause-insicurezza-femminile/.
(2) Per una critica di genere all’idea di sicurezza – OpenEdition Journals. https://journals.openedition.org/qds/710.
(3) La città delle donne. Sicurezza, spazio pubblico e … – DWF. https://www.dwf.it/recensioni/la-citta-delle-donne-sicurezza-spazio-pubblico-e-strumentalizzazione-del-corpo-femminile-nel-contesto-urbano-una-prospettiva-di-genere-bianca-fusco-redstarpress-2021/.

Ci sono molte cause culturali che possono contribuire all’insicurezza femminile. Ad esempio, la società può creare aspettative irrealistiche per le donne riguardo al loro aspetto fisico e al loro comportamento². Inoltre, la cultura può promuovere stereotipi di genere che possono influire sulla percezione delle donne di se stesse e degli altri¹.

Spero che queste informazioni ti siano state utili.

Origine: conversazione con Bing, 26/5/2023
(1) Le cause dell’insicurezza femminile – Nuova Mente – Psicologo Bologna. http://www.nuova-mente.it/cause-insicurezza-femminile/.
(2) 7 cause comuni di insicurezza – tandempsicologia.it. https://tandempsicologia.it/why-insecure/.
(3) Le cause più comuni di insicurezza – La Mente è Meravigliosa. https://lamenteemeravigliosa.it/le-cause-piu-comuni-di-insicurezza/.
(4) Insicurezza – IPSICO, Firenze. https://www.ipsico.it/sintomi-cura/insicurezza/.

 Cosa vi piace di più, farvi una cultura leggendo autori che vi ispirano o affidarvi a Chat GBT?

I fiori…

Pare che, nella lunghissima storia della terra e in particolare da quando c’è la vita, i fiori non esistessero. Per me, che li amo immensamente, è difficile immaginare un paesaggio senza fiori e di conseguenza senza tutto ciò che li accompagna. Parlo di un luogo sconfinato, senza colori ad interrompere la monotonia del verde, senza tutti quei deliziosi animaletti che sono la loro piccola corte, delizia gioiosa ed utile perchè impollinatori. E tuttora, la loro assenza mantiene viva in noi la speranza di rivederli. I fiori ci raccontano che la natura non è mai troppo vecchia per imparare nuovi trucchi. I fiori mi ricordano che la vita è un verbo, un processo, una storia in evoluzione di infiniti risvegli. Quali nuove meraviglie saranno in embrione per questo mondo; e quanti strani boccioli saranno ora in gemmazione nel suolo ricco degli anni passati ?
Il mondo futuro ,mi auguro, sarà ancora un luogo bellissimo, pieno di fiori, api e farfalle al loro seguito, una danza sulla musica del vento del domani.

fiori,da foto1

Sono stanca..proprio stanca…

 

Quello che c’è in me è soprattutto stanchezza non di questo o di quello
e neppure di tutto o di niente:stanchezza semplicemente, in sé,stanchezza.
La sottigliezza delle sensazioni inutili, le violente passioni per nulla, gli amori intensi per ciò che si suppone in qualcuno,tutte queste cose –
queste e cio’ che manca in esse eternamente –tutto ciò produce stanchezza,
questa stanchezza, stanchezza.
C’è senza dubbio chi ama l’infinito,
c’è senza dubbio chi desidera l’impossibile,
c’è senza dubbio chi non vuole niente –
tre tipi di idealisti, e io nessuno di questi : perchè io amo infinitamente il finito, perchè io desidero  impossibilmente  il possibile, perchè voglio tutto, o ancora di più, se può essere, o anche se non può essere…
E il risultato?
Per loro la vita vissuta o sognata, per loro il sogno sognato o vissuto, per loro la media fra tutto e niente, cioè la vita…
Per me solo una grande, una profonda, e, ah, con quale felicità, infeconda stanchezza, una supremissima stanchezza,
issima, issima, issima,stanchezza…

Alvaro de Campos

donna accovacciata con languore

Oggi 20 maggio è la giornata delle Api. Ricordiamole con affetto e gratitudine-

 

“Ode all’ape”
Moltitudine di api!
Entra ed esce
dal carminio, dall’azzurro,
dal giallo,
dalla più tenera
morbidezza del mondo:

entra in
una corolla
precipitosamente,
per affari,
esce
con un vestito d’oro
e gli stivali
gialli.

Perfetta
dalla cintura,
con l’addome rigato
da sbarre scure,
la testolina
sempre
pensierosa
e le
ali
bagnate:

entra
in tutte le finestre odorose,
apre
le porte della seta,
penetra nei talami
dell’amore più fragrante,

inciampa
in
una
goccia
di rugiada
come in un diamante

e da tutte le case
che visita
estrae
il miele
misterioso,
ricco e pesante
miele, spesso aroma,
liquida luce che cade a goccioloni,
finché al suo
palazzo
collettivo
ritorna
e nelle gotiche merlature
deposita
il prodotto
del fiore e del volo,
il sole nuziale serafico e segreto!

Moltitudine d’api!
Elevazione sacra
dell’unità,
collegio
palpitante!

Ronzano
sonori
numeri
che lavorano
il nettare,
passano
veloci
gocce
d’ambrosia:

è la siesta
dell’estate nelle verdi
solitudini
di Osorno. Sopra
il sole inchioda le sue lance
nella neve,
risplendono i vulcani,

ampia
come
i mari
è la terra,
azzurro è lo spazio,
ma
c’è qualcosa
che rema, è
il bruciante
cuore dell’estate,

il cuore di miele
moltiplicato,
la rumorosa
ape,
il crepitante
favo
di volo e oro!

Api,
lavoratrici pure,
ogivali
operaie,
fine, scintillanti
proletarie,
perfette,
temerarie milizie
che nel combattimento attaccano
con pungiglione suicida,

ronzate,
ronzate sopra
i doni della terra,
famiglia d’oro,
moltitudine del vento,
scuotete l’incendio
dei fiori,
la sete degli stami,
l’acuto
filo
di odore
che raccoglie i giorni,

e propagate
il miele
oltrepassando
i continenti umidi, le isole
più remote del cielo
dell’ovest.

Sì:
la cera innalzi
statue verdi,
il miele
sparga
lingue
infinite,
e l’oceano sia
un alveare,
la terra
torre e tunica
di fiori,

e il mondo
una cascata,
chioma,
crescita
inesauribile
di favi!

 Pablo Neruda

ape su fiori di lavanda