Una volta gli italiani si vestivano a festa, scendevano in piazza, andavano in corteo, chiamato processione, o festeggiavano in casa il Dei Pride. Letteralmente vuol dire Orgoglio di Dio, in anglo-latino, ed è il nome consono al tempo nostro per indicare la festa del santo, fiero e devoto servo del Signore, e all’orgoglio del campanile. Sant’Antonio il 13 giugno, San Giovanni il 24 giugno, Santa Maria in più date; e tanti santi patroni, alcuni famosi, altri solo locali, taluni perfino rurali o marinari. Tutti miracolosi. La Regina di quella feste, oggi diremmo la Star, non era una Queer ma la Madonna, nelle sue svariate vesti e versioni. Solo a Napoli se ne contavano 250.
Ma il Dei pride non era solo una mobilitazione popolare di piazza né si celebrava solo nella Casa del santo, la chiesa a lui dedicata o dove c’era una sua statua, una sua reliquia, una tela o una pala d’altare a lui/lei dedicata. C’era il pellegrinaggio nelle case degli Antonio, Giovanni, Peppino, Maria per il loro onomastico, che valeva più del compleanno; un via vai di amici e parenti, visite e garzoni, cremolate e spumoni, per non dire di altri dolciumi che da noi si chiamavano “complimenti”.
Come avrete capito, vi sto parlando in particolare del sud, che esibiva più vistosamente quel che in tutta la cristianità cattolica era d’uso. Era la linea di distinzione tra il nord protestante e il sud cattolico; tra l’austero, lugubre e solitario luteranesimo e il chiassoso, corale paganesimo in chiave cattolica. Variopinto e festoso, anch’esso, ma senza essere circense o carnevalesco.
Perché vi parlo dei santi all’indomani del solito gay pride? Non solo per paragonare due mondi paralleli e opposti, tra sorprendenti analogie e radicali capovolgimenti. Ma per ricordarvi il ruolo dei santi da noi, l’importanza dei nomi ereditati, spesso dedicati a quei santi, e ripensare la religiosità nel tempo della sua scomparsa o meglio della sua sostituzione con i gay pride e affini.
Per farlo, non cito le innumerevoli fonti sulle vite dei santi, i loro culti e le loro feste “a divozione”. Ma il libretto simpatico, intitolato L’altra scommessa (Marsilio) di un autore televisivo e divulgatore scientifico, Antonio Pascale, che si definisce “ateo ma meridionale”. In che senso? Un po’ come l’ateo devoto, ma con un sapore etnico tutto particolare. A sud, anche gli atei non possono fare a meno di essere devoti ai santi, o perlomeno di rispettarli. Pascale venera in particolare i due Sant’Antonio, abate, “chillo cu puorc” e il santo portoghese da Padova. In loro anche chi è ateo può rispettare un modo di vivere, un sentire comunitario, una tradizione di popolo, il ricordo delle loro madri, del passato e dell’infanzia, il bisogno di sacro, di simboli e riti, l’affabilità domestica del divino, altrimenti troppo lontano, irraggiungibile.
I santi sono la prima rappresentazione della mediazione, di cui abbonda il sud, e il mondo cattolico, a ogni livello. C’è sempre qualcuno che si mette di mezzo; e quando si rompono gli argini e si passa a un’azione violenta, la parola d’ordine è “levateve a’ miezze”, toglietevi di mezzo (minaccia oggi superflua, perché nessuno si mette più in mezzo). Il clientelismo ha un antefatto celeste nella protezione dei santi: avere santi in paradiso è un modo di dire ancora corrente per la raccomandazione. I santi patroni, i santi più amati, i santi pop più recenti, su cui primeggia Padre Pio, erano le app più diffuse per accedere a favori e benefici altrimenti inaccessibili. Ai santi si chiede la grazia, l’intercessione, i numeri al lotto, il zito o la zita, tutto.
Sono i rappresentanti del sacro a portata di mano; un tempo uomini come noi, dunque ci capiscono, ci vengono incontro.
I santi sono la rappresentazione più alta dell’ascensore sociale: anche un umile mortale, un poveraccio, può diventare santo, salire in cielo. Non l’umanizzazione del divino della teologia della secolarizzazione, ma la santificazione dell’umano per avvicinarsi a Dio. Buon esempio, bella lezione. I santi erano gli influencer dell’antichità, i top model della vita buona.
Un mondo agli antipodi del nostro, anche se per la verità, nel sud dei santi e delle madonne, c’erano pure i femminielli, che erano l’archeologia degli lgbtqiazxgnboh+ (aumentano sempre le lettere, non saprei spiegarle). Ma il loro gay pride era devoto, andavano nel giorno della Candelora, il 2 febbraio, al Santuario della Madonna di Montevergine per chiedere benedizione e protezione. Era la juta dei femminielli; c’era pure lo “spusalizio mascolino” e la “figliata dei femminielli”.
Me le ricordo cos’erano le feste dei santi dalle nostre parti; lo sono ancora ma sono echi del passato; mi ricordo soprattutto come era bello per noi bambini assistere al via vai delle “visite” a casa, che facevano il giro dei Giovanni o degli Antonio di casa in casa. Era il tempo dei santi, dei dolci ma anche della frutta, dei magnifici fioroni, dei cibi del paradiso, dei gelsi e delle cerase. La natura concorreva alla festa con le sue primizie.
Di quella civiltà, e perfino delle sue esagerazioni e superstizioni, ho nostalgia e comunque ricordo con affetto quel mondo in confidenza coi santi, caloroso e verace, pieno di umanità e di fervore, religioso e gioioso, pur tra sacrifici, afflizioni e penitenze.
E ricordo tra i tanti, un lascito prezioso che stiamo perdendo. Un tempo, quando nascevano molti bambini, il nome dato loro non doveva essere “figo”, spiritoso o alla moda; i nomi non dovevano essere originali, online, ma dovevano significare qualcosa e ricordare qualcuno. E infatti erano i nomi dei loro nonni, dei loro zii, o i nomi dei santi a cui erano devoti, in particolare i patroni. Perché la vita era una sanguigna poesia a rime alternate, in cui i nipoti portavano il nome dei nonni, o dei santi venerati nella loro comunità. Ora senti in giro tra i rari neonati, nomi-fiction, alieni, nomi astratti, hi-tech, in silice, vegani o vegetali, global, netflix… Sono come i tatuaggi, che magari ti piacciono appena fatti ma poi devi tenerteli per una vita, quando perderanno il colore del tempo e della moda. Allora ripensi ai Dei pride e dici: ma siamo davvero meglio noi rispetto a quelli che portavano i nomi dei santi e andavano in processione?
MV
Già, le processioni popolari di santi e/o approntate per la settimana santa. Da piccolo, quando abitavo nella città vecchia, ho anche partecipato a qualcuna di queste sante processioni al fianco del parroco perché non potevo star da solo. Mia madre mi affidava a lui e si raccomandava. C’era tutto un rituale che il tempo non ha mai toccato: quella del venerdì Santo, ancora oggi attraversa le vie della città vecchia e alcune strade della città nuova. Dura ore e ore, una lentezza esasperante con i partecipanti e il pubblico pronti a sacrificarsi per la fede. Alcuni addirittura, erano lì per un fioretto da offrire alla Madonna Addolorata che con il suo abito nero, seguiva il lungo corteo con altre statue del Cristo in “piena passione”. Sono momenti che ho vissuto e che non cancellerò mai dalla mente. Marcello ha lavorato con la fantasia per associare questi cortei che è un po’ difficile da comparare. Ma del resto penso che oggi, quando si crede in qualcosa e/o in qualcuno con pura e schietta fede, si possa accettare tutto.
Ciao Giovanna, buona serata.