Quando gli italiani amavano gli stabilimenti balneari…

Oggi terreno di battaglia politica, c’è stata un’epoca in cui i “bagni” erano un simbolo dell’estate italiana, raccontati dal cinema, dalla letteratura, dalla fotografia.

 

«Il mare è un accessorio», mi diceva quando ero piccolo mia nonna, che gran parte della villeggiatura la trascorreva seduta il pomeriggio ai tavolini all’ombra del Bar Sole di Rapallo e in spiaggia non scendeva praticamente mai. Per tutti gli altri che si affannavano nei viali, negli arenili, nei ristoranti e nelle discoteche, la partita da giocare era completamente diversa. Noi cuccioli invece, più che altro, il tempo lo passavamo usufruendo di una piscina, dall’acqua azzurra come in Sardegna, posta al centro dei Bagni Ariston, un piccolo ed elegante stabilimento dalle sdraio e i lettini bianchi e azzurri, posto in fondo al lungo mare davanti ad una piccola piazzetta intitolata a Ezra Pound, che nella cittadina ligure aveva avuto frequenti trascorsi prima di stabilircisi definitivamente nel ’62. L’acqua della piscina era bassa ed era un grande vantaggio per le mamme che potevano rimanere così a parlare sotto l’ombrellone, mentre i pargoli si tuffavano selvaggiamente in quella grande vasca da bagno in preda all’elemento sconosciuto. Il trampolino, che stava in fondo a una lunga e malandata passerella di legno sospesa sul mare, era severamente vietato e a esclusivo uso dei ragazzi più grandi. Ho avuto per un lungo periodo una grande consuetudine con gli stabilimenti balneari, non-luogo per eccellenza delle vacanze estive, che mi hanno accompagnato per sedici estati consecutive: da quando ero in fasce fino ai tormentati anni dell’adolescenza.

Stessa spiaggia, stesso mare. Le vacanze all’epoca erano molto lunghe e si dividevano militarmente in due parti: a luglio, vestiti alla marinara come Susanna Agnelli, sulla sabbia di Forte dei Marmi a casa dei miei, ad agosto nella villa sulle hills di Rapallo, dove da giugno a settembre, tutti gli anni, si trasferiva mia nonna. Il derby per molti anni così si è giocato tra i Bagni Dalmazia di Forte e gli Ariston di Rapallo, due luoghi molto diversi tra loro di cui ho ricordi contrastanti. A Forte dei Marmi ancora oggi la spiaggia non è spiaggia ma salotto, e come si sa quasi tutti ambiscono a stare nel salotto giusto, ovverosia in quei due o tre stabilimenti dove prenotare sdraio e lettini per la stagione è un’autentica impresa, senza contare che bisogna avere una sfilza di referenze degne di un socio di un club inglese riservato ai Lord. I Dalmazia confinavano con la mitica Capannina di Franceschi e rivaleggiavano ad armi pari con altri bagni prestigiosi dove ad abbronzarsi, prima della recente invasione degli oligarchi russi, ci potevi trovare i discendenti di famiglie millenarie e parecchio influenti.

A Rapallo invece le vacanze somigliavano a quelle di migliaia di altri italiani che, consolidando una tradizione nata negli anni ’50 nel periodo del boom economico, avevano preso l’abitudine ad agosto di prendere letteralmente d’assalto i lidi della penisola. «Stabilimenti balneari, caffè all’aperto, alberghi, nei quali la borghesia si abbandona alle dolcezze velenose delle vacanze estive», scriveva Moravia in Le vacanze di Cremonini, nel 1973, rendendo bene l’idea. Perché sì, da sempre, in costume da bagno, i vizi nostrani emergono in modo impietoso, come è raccontato magistralmente da Dino Risi nell’imprescindibile Il sorpasso o nel sottovalutato e quasi introvabile L’ombrellone, pellicola apocalittica del 1965 dove Riccione sembra l’anticamera dell’inferno.

‘ voce narrante di Pino Locchi in Sapore di mare dei fratelli Vanzina del 1983, film cult della mia generazione che ancora non aveva letto Moravia né aveva avuto il tempo di sognare la Lancia Aurelia cabrio guidata da Gassman ne Il sorpasso. Le scorribande sgangherate in Vespa di Jerry Calà, le polo Lacoste, le gite in pedalò, i giochi da spiaggia, le infinite partite a biliardino e, ovviamente, i corteggiamenti serrati descrivevano perfettamente le nostre giornate da sbarbi liceali in vacanza. L’estetica di quelle estati è richiamata a quella ritratta negli scatti di Claude Nori, il fotografo francese che intorno alla metà degli anni ’80 partecipò al racconto collettivo Viaggio in Italia, realizzando un reportage sentimentale sul mare italiano, una serie di immagini indimenticabili di luoghi mitici e particolarmente evocativi come Capri, Napoli, Portofino, la Romagna o Stromboli, e soprattutto i volti delle persone che all’epoca li frequentavano. Quelle persone in costume da bagno, con il corpo scottato dal sole, che si radunano intorno a un juke-box, che mangiano un gelato all’ombra di un ombrellone, che si baciano davanti ad una cabina colorata, fanno parte di una poetica italiana indimenticabile. Una giovinezza, come racconta Rohmer in Conte d’été, (il suo film estivo per antonomasia), tutto il tempo è dedicato all’amore e alle illusioni.

Cosa resta oggi di quelle estati, in un tempo falcidiato dagli easyjetter, dal turismo mordi e fuggi e dagli Airbnb, in cui perfino gli stabilimenti balneari, sia che si stia a Capri che a Santa Margherita, sono stati vittima di una mostruosa metamorfosi, contesi a suon di sponsorizzazioni da brand e influencer? Lo chiamano takeover delle spiagge, questa assurda pratica che ha trasformato i bagni, firmati da capo a piedi con lettini, divani e ombrelloni fatti su misura, in posti che sembrano diventati delle lussuosissime boutique. Non è scampato all’ondata fashion nemmeno il mitico Bagno Piero di Forte dei Marmi, quello frequentato dai Moratti per intenderci, che al Forte hanno casa praticamente da sempre.  C’è una foto di Ghirri, scattata ai Bagni Internazionali di Capri, in cui vengono ritratte davanti ai Faraglioni una serie di sdraio colorate. Sono disposte a coppie, sistemate diligentemente le une di fianco alle altre. Giacciono rivolte verso l’infinito, senza alcuna presenza umana, come affacciate a gustarsi il panorama a picco sul mare del golfo di Marina Piccola. Se guardo quella foto attentamente e mi soffermo ad osservare il legno del pontile, il salvagente appollaiato sulla struttura d’acciaio colorata di azzurro della palafitta e il profilo dei tetti delle cabine, mi sembra di vedere il riassunto di tutta         un’estate italiana di una volta. Anche se io a Capri, da bambino, non ci sono stato mai.

Andrea Frateff-Gianni  

I primi nemici della libertà di stampa sono i giornalisti…

 

 

Ma davvero l’informazione oggi è minacciata da un attacco eversivo che la intimidisce e l’aggredisce? La stampa, secondo Mattarella documenta la realtà senza sconti, getta luce su fatti trascurati, raccoglie la sensibilità e le denunce della pubblica opinione. E la democrazia, conclude citando Tocqueville, è il potere di un popolo informato. Sentita la predica, guardiamo la realtà.
La gente segue sempre meno l’informazione e l’informazione segue sempre meno la realtà e la sensibilità della gente. Lo dicono i dati, lo dice il restringersi del numero di lettori, lo dice l’astensionismo popolare che non riguarda solo il voto ma anche l’informazione. Lo dice la spaccatura clamorosa tra l’opinione prefabbricata dominante e le opinioni della gente su tanti eventi di politica estera, interna, militare, sanitaria, sociale e civile.
Pensate davvero che alle origini di tutto questo distacco tra la stampa e la gente ci sia l’attacco eversivo contro la stampa? Ovvero episodi come quello di Torino, di due o più attivisti di Casa Pound che malmenano un giornalista infiltrato nel loro ambiente?
Non sarebbe più onesto e veritiero dire che l’informazione è screditata dalla percezione sempre più diffusa nella gente che non racconti la realtà dei fatti ma la minestrina corretta del giorno, le distorsioni dell’ideologia, gli obblighi rituali imposti dal Canone in base agli interessi politici e affaristici di chi la controlla? Pensate davvero che quattro sciamannati scoperti a fare il saluto romano siano la causa del lento, inesorabile, progressivo declino dell’informazione e della libertà; e che la gente non legga i giornali perché impaurita, intimidita da questi attacchi che i giornali medesimi poi presentano come se fossero figli di un piano eversivo paragovernativo? Vuoi vedere che la stampa in Italia perde lettori, libertà, diritti a causa del malefico Ignazio La Russa, il più dileggiato presidente del senato a mezzo stampa?
Ogni volta che Mattarella interviene in queste vicende, dopo aver taciuto su altre, troppe altre, hai la netta sensazione che la parrucca prevalga sulla realtà, e che ogni discorso alla fine sia sempre funzionale a una parte politica ben precisa, che per comodità chiamiamo dem.
Lo spettacolo dell’informazione è quello di un racconto a senso unico, pieno di omissioni e omertà, carico di esagerazioni, di cui la gente si fida sempre meno. O se volete la più cinica delle interpretazioni, la gente coglie questa faziosità della stampa a pretesto per risparmiarsi la fatica di leggere, di informarsi, comprare i giornali; il pretesto, però glielo fornisce in abbondanza la stampa medesima e i parrucconi che la proteggono.
Magari la gente si chiede perché gli stessi giornali o giornalisti, le stesse testate online, non s’infiltrano tra gli attivisti di ultima generazione che compiono atti di teppismo e di intolleranza o tra quei gruppi, quei centri sociali, che organizzano spedizioni punitive all’esterno, per esempio in Ungheria. Sarebbe interessante sapere come nascono queste azioni eversive (azioni, non opinioni eversive), come si organizzano questi gruppi ma nessuna inchiesta documenta queste cose. Eppure compiono danni, aggressioni, blocchi stradali, interrompono libere espressioni di pensiero o manifestazioni istituzionali; mentre nei casi sparati sui media con la massima evidenza vengono portati alla luce solo chiacchiere e distintivi, parole in libertà, non aggressioni ma saluti romani; insomma non fatti, non reati contro qualcosa o qualcuno, se non d’opinione.
Ma il tema vero di fondo in una società matura e democratica, con senso critico e amore vero di libertà e di verità, è come mai l’informazione è così poco frequentata e così tanto disistimata nel nostro paese? Valida è l’obiezione che pure l’informazione non allineata, non se la passa meglio in termini di diffusione; resta di nicchia. Diciamo che la scontentezza verso l’informazione non premia la controinformazione ma si esprime nella fuga generale dall’informazione, nella defezione, nel buco nero della non lettura o si disperde nei mille rivoli sotterranei dei social. Dove ogni giorno si esercita una ridicola, soffocante, irritante censura, sotto la finzione degli algoritmi, e nessun mattarella osa denunciare lo sfregio alla libertà d’opinione e al diritto al dissenso, quotidianamente e impunemente violati. Siti oscurati, parole e immagini censurate, emarginazioni e squalifiche programmate, non solo a causa di contenuti offensivi e aggressivi, ma semplicemente perché non allineati al mainstream.
A queste vicende torno sempre più sporadicamente e sempre più controvoglia, perché stanca ripetere sempre le stesse cose ed è frustrante notare che le denunce non servono mai a nulla. Da tempo rifiuto interviste di chi vorrebbe usarti solo per parlare ancora e sempre di questi presunti attacchi eversivi protetti chissà in quali sedi governative: ti chiedono di alzare la zampa a comando e dire pure tu che viviamo in un terribile clima intimidatorio e fascistoide; e se non lo fai sei eversivo pure tu e complice. Mi è capitato in più occasioni di dover gentilmente mandare a quel paese giornali e giornalisti che ti chiedono interviste sempre e solo per parlare di mazzate, saluti romani, fasci, nazi e roba simile. Mai di libri, scenari, pensieri, eventi culturali che sistematicamente ignorano. Si accorgono di te solo se partecipi a questo circo propagandistico, scegliendo se fare la bestia selvatica o la scimmia ammaestrata. E hanno trovato alcuni damerini di pseudodestra, che saltano da un carro all’altro, purché ci sia guadagno e convenienza strettamente personale, pronti a far la riverenza e attaccare il ciuccio dove vuole il padrone. Benvenuti nel tempo dei servi e dei parrucconi, dove pure la verità è trans, e dove i primi nemici della libera informazione stanno nell’informazione.

  Marcello Veneziani 

Non so trovare un titolo. Ma so che per me è importante.

 

Se ancora riesci a respirare.Se i tuoi polmoni si riempiono di aria.
Se il cuore batte.E pompa sangue.E di quel sangue senti il flusso caldo,nelle vene.
Se le gambe reggono il peso del tuo corpo.E ancora ti ricordi come si fa a mettere un piede dietro l’altro.
Se le braccia fanno scudo ad un cucciolo di uomo.E le mani sanno stringere altre mani.
Se gli occhi sanno piangere.E le labbra piegarsi in un sorriso.
Se riesci a ripensare al Passato senza compromettere il Futuro.
Se ancora hai un Presente.Qualche sogno nelle tasche.E la possibilità di crescere e invecchiare.
Se ancora ti resta una Vita intera davanti …

Ecco.Se hai tutte quante queste cose … sappi che sei fortunato.Non hai bisogno di nient’altro per essere felice.

Allora prendi la tua Vita.E non limitarti a guardarla da lontano,come fosse il film di qualcun’altro.Diventane protagonista.Scrivi la tua storia.Vivi come vorresti vivere.E non come ti dicono di farlo.Balla ad un ritmo che sia soltanto il tuo.Scegli chi vuoi essere,e diventalo.Anche se fa paura.E ne fa tanta.Scegli chi non vorresti essere.E stai lontano dalle strade che rischierebbero di trasformarti proprio in quello.
E’ tutto un gioco.Un battito di ciglia.Il Tempo di un respiro.Una porta che si chiude.Una finestra che sbatte.Un temporale in arrivo.Una giornata di sole.L’arcobaleno.Le nuvole,e lo zucchero filato.E’ una partita.Una follia.Una mano vincente.Una scommessa sbagliata.Una sfida.Una corsa.Una caduta.Una ripresa.Ripartenza.

Allora prendi la tua Vita.E vivila.Tutta quanta.Fino in fondo.E’ tuo dovere.Hai un obbligo preciso verso tutti coloro che vorrebbero,ma non possono.Tu non li conosci.Ma loro esistono.E non sono stati fortunati come te.

E se è vero che le parole sono pietre,prendi queste mie e trasformale in mattoni.Costruisci un parco giochi nel giardino del tuo cuore,e corri lì a divertirti.Come quando eri bambino,e ancora sapevi come fare.
Se è vero che le parole sono pietre,prendi queste mie e scagliale lontano.Oltre l’orrizonte.Poi,corri a riprenderle.Ma non preoccuparti davvero di arrivare alla meta.Ciò che conta è il viaggio,e come,e quanto,esso sa cambiarti.E come,e quanto,ti lascerai cambiare.
Se è vero che le parole sono pietre,prendi queste mie e non dimenticarle.Fallo per me.Ti prego.Ho bisogno che tu te ne ricordi.

Antonia Storace

rivoglio_la_mia_vita2

Con il berretto frigio, queste Olimpiadi sono non solo pagane, pure giacobine..

Bisognava anche celebrare, con la mascotte, i rivoluzionari atei e tagliatori di teste. Bisognava proprio riesumare il berretto dei fanatici, dei settari, dei totalitari, dei terroristi di Robespierre,       e se non fosse sufficiente bisognava anche alzare agli onori dell’Ultima cena Leonardesca la bellezza della cultura Lgbtq+ con la parodia drug queen, la più grande bestemmia contro la  Religione Cattolica, che il mondo potesse ammirare ,coll’entusiasmo estasiato delle sinistre ,che  qui dovrebbero solo vergognarsi di tanta ignobiltà e , ineducazione, quando accusano di omofobia  chi osa dissentire.( Il corsivo è mio)

Santa Geneviève, patrona di Parigi, davvero grande è la tua carità se continui a intercedere per i parigini. Non bastava loro organizzare le consuete Olimpiadi pagane: le hanno volute pure giacobine. Non bastava l’osceno culto del corpo, l’idolatria della perfezione fisica e del successo sportivo (tutto opportunamente condannato dal Catechismo della Chiesa Cattolica al punto 2289). Non bastava. Bisognava anche celebrare, con la mascotte-berretto frigio, i rivoluzionari atei e tagliatori di teste. I giacobini che nel 1793 bruciarono pubblicamente le tue reliquie. I vandali che distrussero la tua chiesa (non a caso la parola “vandalismo” nasce proprio durante la rivoluzione per identificare i rivoluzionari e la loro “cancel culture” avanti lettera). Bisognava proprio riesumare il berretto dei fanatici, dei settari, dei totalitari, dei terroristi di Robespierre, dei protofascisti (De Felice spiegò i legami tra giacobinismo e fascismo), scelto come simbolo da organizzatori che, forse inconsapevoli della violenza così evocata, ora temono atti terroristici. Quello scatenarsi dell’odio già evidentissimo nella partita Argentina-Marocco. Maledette Olimpiadi. Come potrai benedirle, Santa Geneviève?

Camillo Langone_da_IL FOGLIO

 Sunset Taverna

Ero stata in vacanza a Stavròs diverse estati prima. Quante, mi era impossibile stabilirlo ragionevolmente: mi veniva da dire «appena un paio» e «cento almeno» ed entrambi i conti mi sembravano tornare. Un motivo c’era. Tra la scoperta dell’Akrotiri e il ritorno in quella zona dell’isola di Creta, stava lunga distesa una forma, vuota e trasparente come la muta di una serpe, una fragile spoglia fantastica che avevo abbandonato a un certo punto, e che pure ero io: ancora, non più. La sentivo sotto i piedi, attraverso i sandali sottili, mentre camminavo sulla spiaggia nella mia pelle nuova. La calpestavo e lei si sbriciolava, arrendevole, come si erano sbriciolate al vento, al sole, all’acqua, chissà quante pietre e conchiglie, tutte cose dure e solide; altro che la vita.

Ero diretta verso la grande taverna, sempre piena di luci e di festa che, me lo ricordavo bene, stava fuori dal perimetro del Blu Beach. Mi lasciavo alle spalle i villini bianchissimi, sparpagliati a monte della piscina e del bar, svuotati e immobili a quell’ora, nel sortilegio del primo pomeriggio di luglio. Avevo verificato: era rimasto tutto come allora. Potevo dunque proseguire la mia missione fuori dal villaggio.

Mentre affondavo nella sabbia e sudavo sotto il sole greco, mi sentivo di nuovo la bambina che giocava a fabbricarsi in testa scenari avventurosi, affannandosi in pochi metri di mondo, che diventavano il suo vasto dominio. Intanto, sorrideva non vista: nessuno dei grandi aveva minimamente idea di quello che stava accadendo, che era lì lì per accadere, di emozionante, di straordinario… Poveri sciocchi. Quella volta, però, l’unica grande in giro ero io e mi sorrideva il mare, che la sapeva più lunga di me.

Superato un piccolo schieramento di sdraio vuote e ombrelloni chiusi, passata una baia d’acqua purissima, raccolta da due bordi di rocce come in un palmo, ero arrivata su quella frangia estrema di litorale occupato dalla taverna del Tramonto, detto però in inglese, Sunset, che fa subito un altro effetto. Non avevo più pensato al nome e mi tornava così, sul posto, dove, a considerare bene lo spettacolo che avevo di fronte, mancava tutto tranne la possibilità del tramonto.

Del locale erano infatti rimasti solo i muri e le fondamenta, uno zoccolo di calcestruzzo di circa tre metri e, sopra, uno spazio ampio, rettangolare, interrotto da colonne, totalmente aperto sul lato lungo, a oriente, chiuso sugli altri tre da muri coperti di graffiti, da angoli piastrellati; forse la vecchia cucina, i bagni. C’erano ancora segni di sanitari e tubature divelti. Dai tre finestroni a ovest e a nord, il mare si sporgeva a guardare dentro. Si rammentava degli ospiti che, fino alle prime ore del mattino, ogni sera, rimanevo a fissarlo nel buio, buttando, mezzi ubriachi, mezzi felici, i sassi invisibili dei loro desideri a fiore d’onda, a rimbalzare tra i riflessi della luna.

E tra gli ospiti, mi veniva in mente, sulla veranda, in un angolo, una ragazza con un vestito bianco sopra il ginocchio, le spalle scoperte. Stava seduta sull’orlo di una sedia. Accanto, un tavolo ancora mezzo ingombro di piatti e bicchieri, musica greca tutto intorno. Allungava le gambe abbronzate, come se dovesse scivolare via, le caviglie intrecciate, i piedi nudi. A poca distanza da lei si ballava. Il personale della taverna aggirava con destrezza, per nulla infastidito, il cerchio che si era formato in mezzo al locale e che girava vorticoso, per poi fermarsi e incitare qualcuno al centro, impegnato in un a solo. Quello che sembrava l’oste, intanto, girava tra i clienti in maniche di camicia. Ogni tanto si voltava a guardare lo spettacolo e batteva le mani a tempo. Poi riprendeva le sue visite. Parlava in greco coi greci e in un inglese che diventava greco a forza di suoni scivolati e aspirati, di occhiate e alzate di mento, con gli altri ospiti.

La ragazza con il vestito bianco guardava due ballerini, due ragazzi sui vent’anni, come lei. Erano i più bravi e più chiassosi. Anche loro, tra un salto, uno schiocco di mani e un opa, la guardavano. Anzi, ballavano per lei, perché era molto bella e loro pure. Quando si accorgeva dei loro occhi, si girava e si metteva a parlare con qualcuno, coperto dalla folla, sorridendo improvvisamente, da seria che era un attimo prima; o rovesciava la testa indietro, sullo schienale della sedia, e si stirava annoiata. Fissava la luna capovolta, mentre il vestito scendeva sul seno e saliva sulle gambe. In una pausa dei balli, me lo ricordavo bene, erano scesi insieme dietro la taverna, sugli scogli, senza parlare. Degli amici si sbracciavano a chiamarli, dalla spiaggia. Forse li avrebbero raggiunti.

Quella sera io tenevo in braccio mia figlia ancora piccola. C’era anche mia madre, più giovane. Aveva ballato anche lei. Il vino bianco resinato, servito freschissimo, le aveva impedito di opporsi al genero, che la voleva a tutti i costi nella mischia. Io ero rimasta seduta a guardarli per un po’. Poi eravamo andate via. Era l’ora di dormire. Avevamo attraversato da sole la baia, la spiaggia attrezzata, per salire fino al nostro villino bianchissimo. Dall’altra parte della taverna i ragazzi forse facevano il bagno.

Non ero mai stata dall’altra parte. Così ho aggirato quel grande involucro vuoto e ho trovato, svoltando a sinistra, un altro muro scrostato, un altro tag; ma non un disegno, una frase in corsivo greco: Abbiamo scritto con lo spray il nostro amore per rendere famosi questi muri, ti ricordi?
Sì, mi ricordavo.
– Mamma, ma cosa fai? – La voce di mia figlia arrivava da dentro.
– Arrivo – risposi d’istinto e tornai dentro. La trovai a gambe divaricate e braccia conserte in un fascio di luce che entrava da un finestrone. Aveva lo sguardo corrucciato di una super eroina adolescente ed era incantevole. Sfidava così tutto quel cumulo di rovine, quel tramonto in un primo pomeriggio di luglio.
– Ma com’è che mi hai trovata? – chiesi.
– Guarda che non è mica così lontano. Dalla piscina ti vedevo che camminavi… Voglio fare il bagno. Dai, vieni, che non c’è ancora nessuno. Mi annoio da sola -.
Saltò giù dallo zoccolo di calcestruzzo e si avviò attraverso la piccola baia. Io dietro a lei.

La taverna aveva chiuso qualche anno prima; quanti, nessuno del Blu Beach sapeva dirlo con esattezza. Dovevano essere molti visto lo stato di abbandonato del luogo. Eppure, non erano convinti che fosse passato effettivamente molto tempo. I due soci avevano litigato, uno se ne era andato, l’altro non ce l’aveva fatta a fare fronte da solo a tutte le spese … C’era dietro una faccenda d’amore, c’entrava una donna, assicurava la signora del bar, alzando gli occhi al cielo. I camerieri annuivano, non credo perché ne sapessero qualcosa. La storia pareva loro verosimile. Anche a me, dopo tutto.

Il giorno dopo, alla stessa ora, tornai alla taverna, spoglia fantastica, fragile che avevo abbandonato e che stava là, a tramontare in pieno sole. Eppure, sì, mi ricordavo altre forme, spazi, ore. Mi confondevo in mezzo a tutti i personaggi di una festa d’estate. La spiaggia deserta sull’Akrotiri era fatta dei granelli di una gigantesca clessidra che si era rotta.

Francesca Sensini
sunset taverna

   Illustrzione  Lavinia Fagiuoli

Francesca Sensini è in libreria con “Afrodite viaggia leggera”, Ponte alle Grazi

Camilleri e De Crescenzo scrittori pop, non giganti..

Nella stessa settimana di mezza estate, un luglio di cinque anni fa, il Sud, l’editoria italiana e la letteratura popolare persero due grandi pop-writer e due figure pubbliche con grande seguito: Andrea Camilleri e Luciano De Crescenzo. Entrambi hanno reso più accattivante il sud, i suoi linguaggi, il suo modo di vivere e di pensare, la Sicilia di Camilleri e la Napoli di De Crescenzo. La sorte ha dato a Camilleri il privilegio di vivere una lucida e riverita vecchiaia, ha recitato per vent’anni il ruolo di Grande Vecchio e di Oracolo Siculo della Tv e delle Lettere. Invece ha dato a De Crescenzo un ventennio di declino e di ritiro dalle scene pubbliche per ragioni di salute. Ricordo vent’anni fa a una cena De Crescenzo si presentò esibendo un biglietto preventivo di scuse perché non riconosceva i volti delle persone, anche a lui note o addirittura amiche. I primi tempi si pensò a una spiritosa trovata dello scrittore, che conoscendo molte persone non ricordava i loro nomi e dunque era un modo gentile e simpatico per scusarsi in partenza della distrazione e non passare per superbo e scostante. In realtà soffriva di prosoagnosia, una malattia seria.

Entrambi sono stati scrittori assai popolari, e l’uno deve molto alla traduzione televisiva dei suoi romanzi, l’altro al cinema e alla partecipazione attiva nella simpatica scuola meridionale di Renzo Arbore. De Crescenzo si tenne sempre lontano dalla politica e dalle ideologie, si definì monarchico, indole di destra ma votante a sinistra, un po’ ateo e un po’ cristiano, ma preferì non mischiarsi nelle vicende della politica. Camilleri invece da anni ormai aveva assunto il ruolo di testimonial della sinistra, si era schierato apertamente in modo radicale, con qualche nostalgia del comunismo e un’antipatia viscerale che tracimava nell’odio verso Berlusconi ieri e verso Salvini di recente, fino alla famosa dichiarazione del vomito. Ma per giudicare un autore si deve avere l’onestà intellettuale e lo spirito critico di distinguere le sue posizioni politiche dalla sua prosa e dall’impronta che lascia nella letteratura. A questo criterio ci sforziamo di attenerci, ma l’aperto schierarsi di Camilleri gli è valso da morto una glorificazione veramente esagerata. Mentre De Crescenzo ha avuto un trattamento sottotono.  Eppure De Crescenzo, oltre a riabilitare con arguzia il sud, aveva avuto il merito non secondario di aver reso simpatica e popolare la filosofia a tanti, e soprattutto la filosofia antica. Aveva reso famigliare la figura di Socrate, i presocratici, lo Zarathustra nietzschiano, stabilendo un ponte con la Magna Grecia. I professori di filosofia trattavano con sussiego De Crescenzo, come se fosse un abusivo del pensiero e un profanatore della filosofia: ma lui non ha trascinato in basso la filosofia, ha innalzato il lettore comune facendogli scoprire e amare la saggezza dei filosofi. Lui è stato un campione amabile di filosofia pop. Quanti accademici contemporanei hanno allontanato i lettori dalla filosofia, coi loro linguaggi involuti che nascondevano scarsa originalità e più scarso acume. Allontanavano la gente senza avvicinarsi alle vette del pensiero. Meglio De Crescenzo a questo punto…

Dal canto suo Camilleri è stato uno scrittore di talento, ha inventato un suo linguaggio gustoso e simil-siciliano, ha scalato le classifiche librarie quanto e più di De Crescenzo, anche perché la narrativa tira più della saggistica, le sue opere sono state tradotte in tutto il mondo, aiutato dal successo televisivo di Montalbano che è una delle fiction più vendute nel mondo.  Ma i necrologi agiografici, gli infiniti servizi dedicati dai tg, i paragoni con Pirandello e Verga, e perfino con i classici, non gli hanno reso un buon servizio.   Quando muore un personaggio pubblico bisogna rispettare la memoria e difenderlo dai suoi detrattori come dai suoi esagerati incensatori. Camilleri intrigava con le sue trame, sapeva gigioneggiare in video e sul palco, col suo tono da cassandra sicula e l’aura istrionica del vegliardo, assumendo un ruolo ironico-profetico. Grande affabulatore. Sul piano civile, sbandierava l’antifascismo, seppure molto postumo, ieri antiberlusconiano, poi antisalviniano. Una polizza per farsi incensare, come era già avvenuto in vita, e come è avvenuto in morte. Era uno scrittore bravo, un giallista e un autore di polizieschi di successo, non un Gigante, non il Grande Scrittore che entra nella storia della grande letteratura. Non esagerate, Camilleri rimane nella bestselleria corrente e nella personaggeria di scena del nostro tempo. Non rendetelo ridicolo, paragonandolo a Pirandello e Verga e pure a Sciascia. E’ come se negli anni trenta avessero paragonato Guido da Verona e Pitigrilli, autori di successo e di talento, a D’Annunzio e Pirandello. Via, abbiate senso della misura e delle proporzioni. Non mettetegli pennacchi e aureole, abbiate rispetto di un morto; lo scrissi allora sui social e oltre a una marea di consensi ricevetti insulti isterici dai suoi fan, che sono spesso lettori di un solo autore, non hanno termini di confronto, e credono che leggere Omero o Camilleri, Proust o Saviano sia la stessa cosa. La mia polemica non era rivolta contro Camilleri ma contro chi lo usa per scopi politici e lo innalza a tal punto da rendergli un cattivo servizio. Sappiate distinguere il successo dalla gloria, il cantastorie dalla storia, il “colore” dal pensiero. Pirandello descrisse a teatro la condizione dell’uomo contemporaneo, la perdita delle verità, l’avvento del relativismo; Camilleri seppe intrattenere, piacevolmente, migliaia di lettori e milioni di spettatori. Sono due cose diverse. Camilleri non è Pirandello, e De Crescenzo non è Benedetto Croce. Lo dico per difendere la verità e la memoria di ambedue, De Crescenzo e Camilleri.

Marcello Veneziani                                                                                      

Scompare il freno a mano, e l’uomo è defitivamente addomesticato dalla tecnica..

Comprare una macchina nuova e scoprire che esiste il freno di stazionamento elettronico. I vantaggi sono risibili. Torna in mente Jünger: “Ogni comodità ha il suo prezzo. La condizione dell’animale domestico si porta dietro quello dell’animale da macello”

Compro una macchina diesel per tornare all’antico e scopro che è scomparso il freno a mano. Dove caspita è finito? Chiedo al venditore, sorride: è stato sostituito da un freno più moderno, il freno di stazionamento elettronico. Al progresso non c’è proprio modo di sfuggire… Vantaggi? Il venditore sorride di nuovo: adesso li fanno così. Insomma non li conosce nemmeno lui i vantaggi. Per trovarli devo guardare su internet e sono, sarebbero, due: 1) libera spazio; 2) è comodo. Il vantaggio 1 è risibile: eliminando la leva del freno si liberano pochi centimetri cubi. Il vantaggio 2 è inquietante: a chi mai un pulsante risulterà più comodo di una leva? A un ibrido uomo-mollusco? Ovviamente ci sono degli svantaggi, il primo è la manutenzione maggiore: per settare il freno c’è bisogno di taratura elettronica, dunque di personale iperspecializzato. Mi torna in mente Jünger: “Ogni comodità ha il suo prezzo. La condizione dell’animale domestico si porta dietro quello dell’animale da macello”. Il freno di stazionamento elettronico, di utilità dubbia e fragilità certa, è un’altra tappa dell’addomesticamento dell’uomo da parte della tecnica. Che ormai è del tutto autonoma e serve innanzitutto a sé stessa. E’ la tecnica a decidere il percorso: l’uomo può soltanto sorridere, accettare, atrofizzarsi.

Camillo Langone_da_IL FOGLIO         

mani legate                                                              

Speciale empatia…

Riservo a pochi il diritto di avere accesso al mio cuore e per me raccontarsi è una forma di intimità. Ho un’idea d’amore e amicizia oramai rara, perchè ogni legame per me richiede profondità. Il bene che ti darò sarà un prolungamento del bene che mi voglio.

La mia felicità diventerà la tua ed il tuo dolore sarà anche il mio. Questo è l’unico modo di amare che conosco. Un modo che mi lega tanto a chi amo, ma anche un modo che mi dimostra quanto sia doloroso confondere gli altri con te stesso.

Charles Bukowski

 

th (2)

 

L’overparenting è una trappola per genitori e figli. Si chiama così la tendenza, facilitata dalla tecnologia, a controllare sempre più i figli, dalle cose di scuola alle uscite, con conseguenze di cui si discute molto.

 

Il messaggio che non vorresti mai ricevere a mezzanotte è il messaggio di un altro genitore, inizia con «non sono solito intervenire nelle questioni dei ragazzi…», continua con «ma tuo figlio ha fatto questa cosa orribile» e di solito proviene da una persona che è assolutamente solita intervenire a gamba tesa in questioni minori come il prestito di cancelleria. Di solito opto per la parte del cane bastonato, e rispondo con iperboli fuori luogo che sono “mortificatissima” e che mio figlio è un essere abbietto; e in genere la contromossa funziona, ridimensionando l’ira del genitore elicottero.Tenersi informati sui dettagli della vita scolastica e relazionale dei bambini in età scolare e ostinarsi a timonarla da remoto è solo uno dei primi segnali dell’overparenting, un fenomeno che – originatosi negli anni Ottanta in una società americana che vedeva espandersi la forbice sociale – insorge innocentemente tra neogenitori che al parco non tollerano il minimo graffietto, ma continua pericolosamente con la geolocalizzazione degli adolescenti attraverso l’opzione “trova il mio iPhone” o, come nel caso di una famiglia che conosco, con l’installazione di telecamere di sicurezza in tutte le stanze della casa, bagni compresi, per sorvegliare i figli liceali mentre in genitori sono in ufficio. «Ma lo sai che tuo figlio è a casa mia? Ho appena visto la sua giacca buttata sul divano in un’inquadratura del soggiorno». (Ovviamente io non lo sapevo.)  Da genitore poco elicottero – per questioni di tempo e salute – non amo sentirmi riferire pettegolezzi sui miei figli. Di solito fermo gli zelanti informatori: non l’ho saputo perché non lo voglio sapere. Ovviamente, la maggior parte di loro pensa che io sia una sciamannata. La storia dell’overparenting è molto più complessa e interessante di quanto la banale aneddotica personale possa restituire, e i suoi effetti sono dibattuti da studi e ricerche che ne comprovano alternativamente i danni o i benefici. Se negli anni Settanta, quando il gap salariale tra laureati e non-laureati negli Stati Uniti era piuttosto basso, lo stile genitoriale passò da autoritario a permissivo, negli anni Ottanta, in concomitanza con l’allargarsi del dislivello sociale, e quindi con l’aumentata competitività per entrare nelle scuole giuste, si sviluppò uno stile “interventista”, caratterizzato da grandi investimenti nelle attività extrascolastiche, un monte ore triplicato ad affiancare i figli nei compiti, e un’ansia da prestazione generalizzata.

Uno studio dell’Università di Minnesota del 2018 osservava che bambini i cui genitori tendevano a pilotare i giochi nella prima infanzia sviluppavano nel tempo più problemi relazionali e disturbi d’ansia, e una minore capacità di problem-solving. Un’indagine più recente invece, confluita nel volume Love, money and parenting: how economics explain the way we raise our kids, sostiene che in una società diseguale, quelli che chiamiamo eccessi genitoriali portano a benefici duraturi. Pare infatti che i ragazzi monitorati costantemente dai genitori (quelli, insomma, che a differenza dei miei figli non dimenticano mai il flauto) ottengano voti più alti degli altri. A questo proposito, mi viene da obiettare due cose. La prima è che altrettanti studi attestano l’aggravarsi della salute mentale dei ragazzi adolescenti (sebbene questa condizione venga associata più spesso agli strascichi della pandemia o l’utilizzo degli smartphone, che con le pressioni dei genitori). La seconda obiezione – più ironica – è che, nella mia modesta esperienza, la ragione per cui i ragazzini over-parentizzati ricevono voti migliori è esattamente il terrore che professori e presidi provano ormai verso questo tipo di genitori, sempre pronti a contestare una nota, una valutazione, una scelta educativa dell’insegnante. Si arriva a un punto in cui i più rilassati di noi iniziano a sentirsi in colpa per non essere al corrente di ogni futile risvolto della vita del proprio figlio, a sentirsi in difetto per non aver partecipato a tutti i ricevimenti professori e open-day cittadini; finendo per adottare controvoglia uno stile più presenzialista e aggressivo, pur di difendere i propri orfanelli dalle ingerenze di quegli altri. Una cosa a cui forse noi genitori di minorenni non pensiamo mai, ma su cui varrebbe la pena di concentrarsi, è che un certo livello di coinvolgimento negli affari dei propri bambini oggi si traduce in una relazione altrettanto dipendente con i figli nella fascia 18-34 anni. E non mi riferisco alla vecchia e sana famiglia allargata coi nonni a portata di mano; perché i figli under 34 non li fanno, i nipoti. Mi riferisco proprio al cordone ombelicale come fardello eterno.

Secondo sondaggi del Pew Research Center di Washington, la gran parte di genitori e figli americani non è d’accordo con me. I primi si dichiarano soddisfatti dei rapporti intensi coi propri giovani adulti, e questi ultimi a loro volta apprezzano i consigli di vita provenienti da cinquantenni esperti e genuinamente interessati a loro. Eppure, questo perpetuo “parental control” che da un lato previene i comportamenti a rischio dei giovani e innalza il loro livello di istruzione, dall’altro li scoraggia a formare nuove famiglie, lasciandoli in una precarietà emotiva e in un bisogno di attenzione e cura che aumenta l’occorrenza di malattie mentali, e soprattutto rinnova il bisogno della tutela genitoriale. Le ricerche citate si rifanno a osservazioni fatte nel lungo periodo su una generazione per la quale l’uso della tecnologia non era ancora così invasivo. Quel che ancora è poco trattato è quanto le tecnologie recenti abbiano allargato le potenzialità del controllo. Dagli anni Dieci a oggi, le chat e sotto-chat di genitori sono diventate incubatori di panico collettivo e dietrologie, nonché facilitatori dell’emarginazione degli elementi meno assimilabili, e naturalmente strumenti atti allo spionaggio costante dei propri bambini e dei passi falsi degli insegnanti. Alle scuole medie, gli stessi telefoni, regalati direttamente ai bambini, sono diventati cercapersone, microchip, termometri dell’umore e suggeritori di risposte persino durante le lezioni, tanto che alcuni genitori forniscono ai figli perfino un telefono rotto da consegnare nella cesta all’inizio della mattinata, per poter tenere addosso il secondo smartphone funzionante. La mattina, collegandosi all’app del registro scolastico, gli ansiosi controllano l’esito dell’appello, e se il figlio risulta “assente” si attaccano subito al telefono. Il poveraccio di solito è solo cinque minuti in ritardo: inutile marinare la scuola con gli strumenti attuali di tracciamento; inutile mentire sulle strade percorse, perché il braccialetto contapassi collegato all’app Salute di papà potrebbe smentirli anche su questo. «Quella disgraziata non è a dormire dall’amica a Porta Romana», diceva un padre durante una cena guardando l’iPhone. «La localizzo in mezzo a un campo. È a un rave fuori Milano. Lei non sa che la seguo col satellite».

Alcuni professori, per normalizzare la socializzazione degli adolescenti, propongono gite smartphone-free nella natura. Ma anche lì c’è un’alzata di scudi: se voglio sentire mio figlio ogni sera, ne ho il diritto. Non c’è da stupirsi se metà degli adolescenti, seguiti da mamma e papà su Instagram, abbiano secondi profili segreti dove condividono la loro vera identità, costretti a sdoppiarsi e a essere trasgressivi più per mancanza di privacy che per vera ribellione. Ma quali sono i sentimenti dietro alla mania di controllo di questo tipo di genitori? In piccola parte, c’è l’egoismo di voler placare le proprie ansie o di volersi affermare attraverso figli eccellenti; ma per lo più, c’è il desiderio sincero di proteggerli dai pericoli di un mondo che capiamo sempre meno e di oliare le strade che dovrebbero portarli ad avere “successo.” Qualcuno ha detto anche che orientare i comportamenti dei figli a compiacere le aspettative del mondo della scuola e del lavoro rischia di formare generazioni di individui meno liberi e meno creativi. Io penso che fare proiezioni sulla felicità e l’affermazione personale di bambini che vivranno in un mondo surriscaldato e abitato dall’intelligenza artificiale sia poco realistico. Se dobbiamo allentare le maglie del controllo genitoriale, è perché la dedizione richiesta da un simile approccio e consentita dai mezzi a disposizione è potenzialmente illimitata, e fa male prima di tutto a noi adulti.  Lo so perché io stessa, per non farmi mettere i piedi in testa, ho finito per dover diventare un po’ control-freak dei figli. Ma qualche volta, in teoria per punirla per qualcosa, tolgo il telefono a mia figlia. Lei immancabilmente in quelle settimane offline arriva a casa in ritardo, ha contrattempi, perde cose per strada. Io inizio a chiamare la scuola, gli insegnanti, le vicine, i panettieri sulla strada. Ma poi penso a me stessa, a quando a mezzanotte cercavo a Parigi una cabina telefonica per dire ai miei che ero rientrata in collegio. E penso che in quella mezz’ora di macabri scenari mia figlia è proprio il contrario che in punizione: lei in quella mezz’ora è una ragazza libera. E mi sto liberando anch’io, che mi devo allenare a perderne pian piano le tracce prima di ritrovarmi a cullare una venticinquenne insicura. E sono ancora più orgogliosa di me quando torna a casa, e incasso la sua storia inventatissima sull’imprevisto che l’ha fatta tardare. Sono orgogliosa della mia tempra finché arriva mezzanotte e qualche over-parent mi messaggia: «Non è mia abitudine interferire con le vite dei ragazzi, ma è bene che tu sappia che tua figlia alle sei di sera cazzeggiava allo skatepark».

Arianna Giorgia Bonazzi __rivista STUDIO

 

genitoriiperprotttivi

Il miracolo delle feste di giovani non tatuati e in giacca e cravatta..

Non si creda che tutti i ragazzi siano tatuati e trappizzati. E ci sono ragazze che di J-Ax e Fabri Fibra potrebbero essere tranquillamente figlie e tuttavia sanno ballare il valzer, indossano calze e gioielli, vantano pelle immacolata.

Si prega di non generalizzare, di informarsi meglio, di vincere la pigrizia degli stereotipi, di non credere che tutti i giovani siano tatuati e trappizzati. In questo periodo ho conosciuto ventenni e trentenni che non c’entrano nulla con quella inguardabile immagine, con quella inascoltabile colonna sonora. Che partecipano abitualmente a feste cravatta nera, uomini in smoking e donne in lungo negli antichi palazzi delle vecchie capitali italiane, da Torino a Palermo, o a feste romane, nei circoli, senza smoking ma in giacca e cravatta anche d’estate. Incredibile, lo so, ma vero. Ci sono ragazze che di J-Ax e Fabri Fibra potrebbero essere tranquillamente figlie e tuttavia sanno ballare il valzer, indossano calze e gioielli, vantano pelle immacolata. Il mondo è bello perchè è vario e loro sono più belle perchè non standardizzate. Dio perpetui il miracolo di questi giovani differenti.

Camillo Langone__da__IL FOGLIO

cravatte