Il perdono…

 

Perdonare qualcuno non significa tollerare il suo comportamento. Non significa nemmeno dimenticare che ti ha ferito o nemmeno permettere che te lo faccia di nuovo.
Perdonare significa fare pace con quello che è successo. Significa riconoscere la tua ferita, darti il permesso di provare dolore e capire che quel dolore non è più necessario. Significa lasciar andare il dolore e il risentimento per guarire e andare avanti.
Il perdono è un dono a te stesso. Ti libera dal passato e ti permette di vivere nel presente.
Quando perdoni te stesso e gli altri, sei davvero libero. Perdonare significa liberare un prigioniero e scoprire che quel prigioniero eri tu.

Louise Hay

 

OIP

La salvezza di Napoli è nella favola…

 

 

 

Napoli si salva solo nel mito mentre è dannata nella realtà. Non è un paradiso abitato da diavoli, come diceva Benedetto Croce, citando Goethe. Perché ha l’inferno sotto casa. Persino Galileo Galilei localizzava la porta dell’inferno nei Campi flegrei, a due passi dalla città; il lago d’Averno dantesco si trova lì. Non a caso la guida di Dante all’inferno, il suo tassista d’eccezione, è un napoletano d’adozione, Virgilio, che evidentemente conosceva i posti infernali. Il Vesuvio, il fuoco, lo zolfo, un paesaggio infernale sotto la buccia amena di un eden baciato dal sole, dal cielo, dalla natura. Napoli è un paradiso poggiato sull’inferno, un roof garden sull’abisso; i suoi abitanti sono poveri diavoli, anche quando sono furbi e ingannatori. Perché alla fine vivono peggio degli altri, anche se magari sognano di più, grazie al mito e alla loro indole festosa e fantasiosa.
Pensavo a Napoli come mito sotto l’effetto ammaliante del film Parthenope di Paolo Sorrentino. Amo i suoi film, i dialoghi, la fotografia, le sequenze, le musiche, l’atmosfera, quando entra nella sfera del favoloso, del sogno, della fantasia coinquilina della realtà. E Parthenope ne riflette lo splendore, con pochi punti down. Il film naviga come una fiaba smaliziata nella mitologia napoletana, anche più recente: da Achille Lauro, o’Comandante, a Sophia Loren, da Maradona alla stessa Partenope, nata come Afrodite dall’onda del mare. Di vertiginosa, incantevole bellezza, pericolosa e in fondo impenetrabile come una Sirena. Da perdere la testa. Anche nella realtà l’attrice ha le generalità di un mito, si chiama Della Porta Celeste.
Don Achille è il pascià di una Napoli ricca e potente ma in fondo generosa, empatica col suo popolo e la sua città. Maradona è il mito sotto traccia di Sorrentino come ne È stata la Mano di Dio. A Sophia Loren, rappresentata nella sua volgarità venale e nel suo carisma di diva, è affidato invece il discorso più terribile su Napoli e sui napoletani. Il mito vivente si rivolta contro la realtà della sua città e del suo popolo. Altre figure incontra Partenope, lo scrittore americano, il cardinal blasfemo, il riccone, il professore misantropologo; amori inesplicabili, casti e profanatori. L’amore di Sorrentino per la sua città non lo acceca, anzi gli dona una spietata vista: se nella realtà Napoli è una brutta chiavica nella visione affascina il suo splendore e la sua saudade che la rendono inimitabile, cioè mitica.
Forse non è solo Napoli a salvarsi nel mito, ma il sud, e perfino l’Italia intera, una volta perduta la storia, la realtà, la natalità. Anche se vedendo ora Roma né il mito né la storia né la cristianità riescono più a sollevarla da quella decadenza senza gloria; obesa di turisti e lurida, malata e rattoppata, insozzata e paralizzata. Il Giubileo tra due mesi sembra esserne l’estrema unzione.
Roma e Napoli sono come il latino e greco, due lingue morte, seppur gloriose. Parthenope, giusto il nome, è la nostra grecità rispetto alla romanitas; ma una grecità turchina, turchese, infiltrata da un aroma turco, un nonsoche di orientale, bizantino e musulmano, ma temperato dall’irridente scetticismo dell’indole napoletana. Il turco napoletano non è solo un film di Totò ma una mezza vocazione napoletana. Non è un caso che a sollevare il velo di Napoli sia stato un regista turco come Ferzan Ozpetec, con Napoli velata. Anche Mario Martone, con Nostalgia, ha raccontato una Napoli buia, intima e torbida sotto la buccia del mito e il suo canto ammaliatore.
Se il cinema ha reso attraente la Puglia attraverso lo splendore bianco della sua luce, dei suoi paesi, tra campagna, cucina e mare, il cinema restituisce la regalità a Napoli attraverso il mito, che è insieme nostalgia, sapienza di velare e svelare, fascinazione e mistero. Anche torbido, e violento.
E poi tutto quell’universo brulicante sotto la sua superficie che proviene dal mondo magico dei munacielli e degli scazzamurielli, delle santarelle e della pezzentelle, dei femminielli e dei malommi; e costeggiando il mondo dei morti, delle cape gloriose e delle capuzzelle, le anime d’o’ purgatorio; e le megere, gli iettatori, la mitologia urbana, tra figure che spiccano per la loro eccentrica singolarità ma recitano sempre una parte in commedia; sono tipi, se non maschere. Un teatro dal vivo, e anche dal morto, in certi casi. Napoli ha persino un suo dio apposito, san Gennaro, con poteri straordinari; quel santo taumaturgo e sanguinante che per Alexandre Dumas “è il vero dio di Napoli”. Insomma Napoli oltre che un inferno ad hoc ha anche un dio tutto suo.
Perché “la realtà è deludente” e per sopportarla, e farsela piacere, occorre darsi alla favola, al miracolo. E quando non è possibile, meglio arrendersi alla natura, al sole, al mare, e ai suoi figli. Come Partenope o come il figlio d’o’ professore, un immenso, bianco chiattone mitologico fatto di acqua e sale; un enorme frutto di mare, una balena ridente, spiaggiata in salotto a vedere la tv, un monstrum che suscita meraviglia e paterno, fraterno affetto.
Gli dei napoletani, a differenza di quelli siciliani, di cui parlava Tomasi di Lampedusa, non si prendono mai sul serio, sanno ridere, capiscono di non abitare nell’Olimpo ma in condominio, non sono pugnaci come i pupi siciliani ma salaci come Pulcinella. Non prendono sul serio la vita, non si battono per l’onore, nonostante la guapparia; ma cercano il modo migliore per aggirarla, coglionarla, e sopravvivere allegramente ai morsi della fame e alle pernacchie della farsa.
Il mito preserva la giovinezza, a cui questo film è dedicato; la giovinezza vissuta come sospensione favolosa del tempo e trasfigurazione magica della realtà. Poi la vecchiaia è il ritorno al reale.
Lasciatevi catturare dal fascino di lei, Parthenope. Io ne sono stato stregato e ho vissuto con lei una storia d’amore unilaterale per due ore. Ho amato il suo sguardo, i suoi sorrisi, il suo corpo, le sue movenze, le sue pronte risposte, la sua sfuggente, venerea lievità. Avrei detto anch’io a lei, come le dice o’Comandante: “se avessi quarant’anni di meno mi sposeresti?” Ma già conosco l’astuta risposta: “E se li avessi io quarant’anni in più mi sposeresti?”. Eccoli, i raggiri del tempo, gli amori beffardi perché non combacianti, le non coincidenze fatali sui binari divergenti del caso.
L’unico riscatto è nel mito. E il fascino vero del cinema, al di là delle menate ideologiche e degli stereotipi ossessivi di oggi, è nella sua capacità di suscitarlo. Cantami o diva….

Marcello Veneziani 

Tra lazzi e ammicchi, questi spiritosoni ci chiudono lo stomaco…

 

Gli spiritosi sono pericolosi. Massimo Bottura, per dire, il cuoco modenese che in epoca ormai remota lanciò la moda dei menù ironici, vorrebbe sbattere in galera Carlo Giovanardi e me. Lui è un partigiano del ddl Zan e noi invece crediamo nella Bibbia tutta e perciò anche in quel libro del Nuovo Testamento (Lettera ai Romani) in cui San Paolo definisce “ignominiosi” gli atti di uomini con uomini, aggettivo che in futuro ci potrebbe procurare 18 mesi di reclusione. Com’è possibile? E’ possibile perché, come annotò Friedrich Schlegel, “ogni arguzia tende al nichilismo”.

L’aspirante censore dei testi sacri non si è autocensurato mai, convinto di essere spassosissimo continua a imporre ai poveri clienti, intimoriti dalle tre stelle Michelin, piatti dai nomi ridicoli che rendono l’ordinazione imbarazzante. All’Osteria Francescana, che non è un’osteria e non ha nulla di francescano, in questo periodo propone un secondo ghignante: “Stiamo ancora decidendo che pesce servire!”. Chissà se in tavola arriverà una cernia o un cavedano, l’unica certezza è il prezzo, quello lo ha già deciso, 110 euri. Ma il vertice lo raggiunse nel 2010 quando battezzò “Oops! Mi è caduta la crostatina al limone” un dolcetto spiaccicato su un piatto fintamente rotto. Puro decostruzionismo derridiano, cucinato con oltre quarant’anni di ritardo. Il problema è che nella disastrata ristorazione italiana i ritardi non si riducono ma si accumulano, e Bottura continua a produrre imitatori. Tutti terribilmente spiritosi. L’altro giorno meditavo di cenare in un bellissimo e nuovissimo ristorante tranese quando scorrendo il menù su internet ho letto “Polpo di fulmine”. Mi è venuto da piangere e ho cenato a casa. C’è qualcosa di più triste di una barzelletta vecchia? Qualcosa di più patetico di un gioco di parole seriale? Nella stessa lista c’era inoltre una “Zuppa d’amare” e sarà stato il milionesimo parto dello straconsumato connubio mare-terra. Agli spiritosoni il bisticcio mare/amare risulta irresistibile, come fino a poco tempo fa il calembour vino/divino.Due esempi fra mille: il Capriccio di Vieste con la “Parmigiana d’(a)mare”, insomma melanzane e gamberi, e Da Vittorio a Brusaporto col “Crudo “D’Amare”, ovvero pesci e crostacei. Dilaga un frasario similfaceto, stucchevole, che travolge anche i migliori e dunque Errico Recanati all’Andreina di Loreto invece di scrivere “Ostrica alla brace” (l’avrei presa) scrive “L’ostrica si dà le arie di brace” (l’ho lasciata lì). Figuriamoci se si tirava indietro quel ridanciano di Alessandro Borghese: “Ho trovato una seppia a Capri” (seppia, fior di latte, pomodoro e basilico). A qualcuno diverte? A me fa venire il fior di latte alle ginocchia. Un amico mi parla bene del ristorante Manna di Milano che però è tutto un lazzo e un ammicco: un piatto di paccheri al pomodoro si chiama “Banalissimo”, un dolce a base d’uva si chiama “Senza volpe”… Anziché farmi ridere, Manna mi allarma: siccome ogni arguzia tende al nichilismo, non sarà che anche lì brigano per sbattermi in galera?

 

Camillo Langone_da _Il FOGLIO

cibo

I miei amici…

 

I miei amici sono tutti così: metà follia, metà sacralità. Non li scelgo dalla pelle, ma dalla pupilla, che deve avere un bagliore indagatore e una tonalità inquietante.
Scelgo i miei amici dalla faccia pulita e l’anima esposta. Non voglio solo la spalla e l’abbraccio, voglio anche la loro più grande allegria. L’amico che non sa ridere con me, non sa soffrire con me.
I miei amici sono tutti così: metà gioco, metà riflessione.
Non voglio risate prevedibili né pianti pietosi. Voglio amici seri, di quelli che fanno della realtà la loro fonte di apprendistato, ma che danno la vita affinché la fantasia non svanisca.
Non voglio amici adulti o dozzinali. Li voglio metà infanzia e metà vecchiaia. Bambini, perché non dimentichino il valore del vento in faccia, e anziani, affinché non abbiano mai fretta.
Ho degli amici per sapere meglio chi sono, perché vedendoli folli, giocherelloni e seri, anziani e fanciulli, non dimenticherò mai che la normalità è una sterile illusione.

Fernando Pessoa

 

Self portrait of economists, students, financiers, lawyers in casual outfit showing thumb up with fingers shooting selfie on front camera with joyful cheerful expression having pause, break, hugging

Il silenzio degli storici davanti allo storicidio…

 

 

Ma davanti allo scempio della storia, cancellata, distorta e maledetta, cosa dicono gli storici di professione? Tacciono, al più sussurrano sotto voce, si immergono nei loro libri e nelle letture. Eccolo, il tradimento degli storici, con la loro ignavia. Ma è possibile che nessuno storico italiano, nessun cattedratico abbia il coraggio di dire, con parole chiare e forti, che l’onda lunga di criminalizzazioni degli avvenimenti storici del passato è un’infamia che uccide la verità storica e pure la ricerca? Possibile che nel paese di grandi storici, fino ai più recenti Renzo De Felice e Rosario Romeo, non si levi una voce, non sorga un gruppo o un’iniziativa per deprecare l’uso politico e giudiziario della storia, la condanna retroattiva del passato e le cerimonie istituzionali fondate su verità di comodo, mezze, false o unilaterali? La memoria storica rinnegata o demonizzata e i film storici settari e manichei, monotoni e allineati al mainstream. Solo qualche apprezzabile parentesi come Rai storia, poi il nulla. La storia si cancella e gli storici non hanno nulla da dire?
In Italia e in Occidente assistono inermi al linciaggio permanente dei fatti e al massacro retroattivo degli avvenimenti e dei protagonisti del passato. Una società che uccide e rinnega la sua storia ha smesso di essere una civiltà; si è dimessa dalle sue radici, dalla sua identità, dalla sua dignità, dalla sua tradizione, dalle sue memorie, divise e condivise, unitarie e controverse.
In Francia sorse anni fa un’associazione di storici, Liberté pour l’histoire, per denunciare questo bavaglio ideologico-penale alla storia che in Francia è cominciato prima che da noi. Traccia di quella denuncia resta in due testi, uno di Pierre Nora e l’altro di Francoise Chandernagor, che furono pubblicati in Italia da Medusa (con un’introduzione di Franco Cardini) col titolo “Libertà per la storia”. Vi si denunciava la vigliaccheria politica e la riduzione del passato a una collezione di orrori; “la retroattività senza limiti e la vittimizzazione generalizzata del passato”. Un impianto accusatorio e moralistico che di fatto distrugge la ricerca storica, ne impedisce gli scavi e le revisioni, impone pregiudizi e scomuniche… La storia risulta davvero, come notava Nora, “un lungo susseguirsi di crimini contro l’umanità”.
Ma il problema si aggrava se si considerano le varie, ulteriori complicazioni e aberrazioni che ne discendono. La prima è che la pretesa di giudicare il passato con gli occhi, i pregiudizi, le ideologie del presente, ci porta a condannare ogni evento o personaggio che si discosti dal nostro modo di vivere e di giudicare le cose. Poi l’interdizione ricade sui viventi, serve per colpire da una parte i movimenti e la gente comune che ha opinioni differenti sulla storia e dall’altra colpisce e inibisce gli stessi storici, la loro ricerca, i loro giudizi e le loro interpretazioni. E ancora: le storie negate o travisate riguardano alcune e ne risparmiano altre: ci sono processi postumi contro la Chiesa e la fede cristiana, contro la storia nazionale, i suoi eroi e condottieri, sono criminalizzati i nazionalismi, i veri e presunti razzisti, e naturalmente i fascismi; ma non c’è la stessa condanna per ciò che accadde ad esempio nella Rivoluzione francese, la ghigliottina e il genocidio della Vandea, nelle Rivoluzioni comuniste, nei gulag e nei regimi comunisti, negli eccidi partigiani, nei bombardamenti e nei massacri compiuti nel nome della libertà e della democrazia, dalle potenze occidentali (condannate invece per quel che concerne il colonialismo). E infine, l’ultimo effetto di quest’abuso giudiziario e politico della storia è legittimare quell’ondata di demenza militante che è la cancel culture, la furia distruttrice che soprattutto in America, ma non solo, colpisce Cristoforo Colombo e l’Impero romano, i grandi del passato e i monumenti storici. In un susseguirsi di assalti, che investono dai classici ai cartoons…
A supporto di quest’ondata storicida, è sorta una legislazione abnorme in Europa e in Italia ma non si sente la voce di dissenso degli storici, a partire da quelli di grande autorevolezza o visibilità. Conosciamo bene le difficoltà che incontrerebbero: metterebbero a rischio l’accesso a ruoli di prestigio o perfino le loro cattedre, la loro visibilità in tv e nei giornaloni, le loro collaborazioni e i loro incarichi se sollevassero il velo di ipocrisia e gli anatemi dell’historically correct. Subirebbero ostracismi e linciaggi. E dunque per quieto vivere, per salvaguardare il proprio particulare, sono disposti a veder massacrata la storia, la verità e la ricerca.
Ma la storia così perde interesse e valore, diventa solo un tunnel oscuro di infamie e di orrori, da rimuovere e condannare. Accettando quell’impianto giudiziario e moralistico si firma la capitolazione della storia al presente, la sottomissione della ricerca storica alle leggi speciali e ai loro vigilanti inquisitori, la perdita della memoria storica nel nome di una “pulizia etica” subordinata alle verità dominanti, somministrate dall’egemonia ideologica vigente.
Si può dunque parlare di tradimento degli storici per viltà e omertà. Ogni tradimento della verità, dei fatti e dei giudizi saggi si avvale della complicità o quantomeno del silenzio-assenso di quanti dovrebbero obiettare, denunciare, dissociarsi e non lo fanno. Troppi storici appartengono a questa vil razza dannata, anzi d’annata, per restare nella materia.

 Marcello Veneziani                

Non si finisce mai d’imparare..

 

Ho imparato che da un giorno all’altro tutto può cambiare.
Ho imparato che non c’è cosa più bella e difficile che potersi fidare di qualcuno.
Ho imparato ad accettare le delusioni o comunque a non dargli troppo peso.
Ho imparato ad andare avanti anche quando l’unica persona con cui vorresti parlare è la stessa che ti ha ferito.
Ho imparato che questo molte persone non l’hanno mai capito.
Ho imparato che più dai e meno ricevi.Che ignorare i fatti non cambia i fatti.
Che i vuoti non sempre possono essere colmati.
Che le grandi cose si vedono dalle piccole cose.
Che la ruota gira, ma quando ormai non te ne frega più niente.

Fabio Volo

ho imparato

Qui abbiamo solo Proust…

«Qui abbiamo solo Proust!» – ha allargato le braccia come in una sorta di orgogliosa, divertita rassegnazione, il giovane addetto della Maison de Tante Léonie a Illiers-Combray, quando gli ho chiesto se lì intorno ci fosse un bar aperto, o un posto dove mangiare qualcosa. La risposta mi ha fatto vergognare della domanda, e in qualche modo di me stesso: tra qualche attimo potrò vedere il copriletto a fiori dell’infanzia, la stanza di e da cui parla Proust all’inizio della Recherche, e mi preoccupo di dove mangiare?

La verità è che in un lunedì di agosto, nella controra muta e senza passanti di Illiers, l’unica sembianza umana che puoi incrociare è proprio la sua. Di nuovo, solo Proust, o meglio la statua di bronzo che lo ritrae bambino, seduto su una panchina in quel momento molto assolata. «Non hai caldo, Marcel?»

Uscito dalla casa museo piena di luce, con la suggestione -forse naif- di aver attraversato o abitato davvero qualche pagina della Recherche, ho sentito distintamente un rumore credo inudibile altrove, in qualunque posto con un passaggio più o meno sostenuto di automobili: la serranda elettrica di un piccolo supermercato alla riapertura. Qui, nel piccolo paese di Illiers che da qualche decennio porta anche il nome immaginato da Proust, Combray, le spire capitalistiche da orario continuato non hanno ancora attecchito. Conquistato qualche snack, noto su uno scaffale dietro la cassa delle scatole di cioccolatini bluette. Rimandano all’inverno, lontane promesse di souvenir rimaste lì, velate di polvere.

C’è scritto sopra Marcel Proust, con un disegno stilizzato del suo volto. Il sole di Illiers Combray mi fa ben sperare per Cabourg, ma il tempo, a oltre due ore di strada, può variare anche di molto. Mi preoccupo del tempo perché sono stato lì proprio ieri, e a pochi passi dal Grand Hotel dove soggiornava Proust, in quella che nell’«eteronimia» dei luoghi della Recherche diventa Balbec, nel suo italiano poco allenato, una signora gentile mi ha invitato alla cena speciale che dovrebbe tenersi stasera sul lungomare. «Qui non passano mai italiani, lei ci sarà domani sera?» In un giorno stabilito di fine agosto, a Cabourg, le persone del posto portano da casa tavoli, sedie e qualcosa da mangiare, e così si compone una tavolata interminabile all’aperto, tra sconosciuti. «Se dovesse piovere, bisognerà aspettare l’anno prossimo». Ho tenuto per me il pessimismo, ma le nuvole nere sopra di noi, ieri, mi hanno fatto pensare che sarà per la prossima estate, e in fondo è anche un modo per dirsi: ci saremo ancora.

La signora sembrava colpita quanto me da una coppia di mezza età. Elegantissimi, e come appena arrivati da un viaggio lungo cento anni, marito e moglie sono stati a lungo a fotografarsi davanti all’ingresso dell’hotel – forse soggiornavano lì, non lo so. Il taglio degli abiti fuori moda, i colori pastello, i gesti misurati, sembravano davvero provenire da un altro mondo, da salotto proustiano. E a proposito di Proust, e di casa sua, forse avrei davvero dovuto chiedere scusa al giovane addetto della Maison de Tante Léonie per avergli chiesto di un posto dove mangiare – come uno entrato lì per caso, e che ha solo fame. A Rouen, alla casa museo Flaubert, non me lo sarei potuto permettere. Solo per averle viste esitare nel riprendere l’ombrello all’ingresso, il custode ha letteralmente incenerito le persone che stavano uscendo insieme a me dal museo. Guardava tutti con una tale impazienza! Però in effetti c’è sempre, l’attimo in cui ti chiedi se quello è davvero il tuo ombrello. La pesante porta di legno si è chiusa alle spalle di noi ultimi avventori della giornata con una grande forza, come se non solo il custode ma anche lo stesso Flaubert volessero dire allo sparuto gruppo di Bouvard e Pecuchet di cui ero parte: «Via, levatevi di torno!». Per le visite, si sa, non sempre è un buon momento – ma in alcuni casi, vale la pena comunque.
Paolo Massari

 

Proust

 

Paolo Massari è in libreria con “Tua figlia Anita” (Nutrimenti)

I confini sono sacri e chi li preserva è un sacerdote…

Sacerdote è colui che presidia il sacro. E senza confini non esiste paradiso (che significa “giardino recintato”), non si dà civiltà. Ecco perché Giorgia e Matteo sono meritevoli.

Non siano chiamati politici, Giorgia e Matteo, bensì sacerdoti. Perché sacerdote è colui che presidia il sacro. E sacri sono i confini come ricorda perfino l’agnostica costituzione novecentesca: “La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”. In epoche religiose era compreso meglio. Com’è noto o com’era noto (chissà se Tito Livio si studia ancora), la sacralità del confine è all’origine di Roma, in quel giorno di aprile in cui Remo oltrepassò, per scherno o altro, il sacro solco appena tracciato e perciò venne ucciso dal fratello. Senza confini non esiste paradiso (che significa “giardino recintato”), non si dà civiltà. Cicerone considerava le mura dell’Urbe sacre alla pari degli altari, dei templi, dei santuari. Di analogo avviso era Neemia che ricostruì le mura di Gerusalemme, e ho evocato un profeta, un uomo mandato da Dio. Può darsi che anche Giorgia e Matteo siano stati mandati da Dio, allo scopo di non far precipitare l’Italia nel caos e nell’indistinzione. Di sicuro questa loro missione così rischiosa a difesa dei confini, di un sacro non confessionale ma territoriale e nazionale, li rende meritevoli di molte preghiere, comincio io con la mia

Camillo Langone_da _IL FOGLIO           

sacerdoti

Pensiamo al futuro, ma senza esagerare…

 

Lungotermismo. La parola è brutta ma il significato è promettente, forse esaltante, comunque liberatorio. Finalmente in un’epoca tutta risolta nella fretta, nel presente, nel cortotermine senti che sta nascendo una corrente filosofica, addirittura, che ci riporta al pensare in grande e in lungo, visionaria e lungimirante. Il fatto che il pensare a lungo termine abbia attecchito in particolare a Silicon Valley e che abbia conquistato i miliardari della valle tecnologica, lo rende forse più promettente, ma già sorgono i primi sospetti. Capisci subito che non di visione del mondo e concezione della vita si tratta, non di filosofia, ma del tema solito della sopravvivenza del pianeta e quindi delle generazioni che verranno. Senti odor di Greta Thunberg, di green, di chi vuol salvare il pianeta mentre va in rovina l’uomo; anzi chi vuol salvare il pianeta dall’uomo. Aria pura senza gli umani.

Ho letto la circostanziata inchiesta di Milena Gabanelli sul Corriere.it e non ripeterò i nomi, sconosciuti a voi quanto a me, di questi veri o presunti filosofi, ricercatori e impresari. Ma sono già impressionato dai numeri: si dice che l’Homo sapiens abbia solo 300 mila anni (conosco una girandola di dati assai divergenti in merito) mentre i suddetti lungotermisti si occupano dei prossimi 700mila anni che sarebbe la prospettiva normale o naturale di sopravvivenza di una specie di mammiferi. Trovo lungimirante chi si occupa dei nostri figli e dei nostri nipoti, o della nostra civiltà misurata a millenni; ma tutto ciò che si prospetta oltre i duemila anni, che sono un po’ l’unità di misura indotta dall’avvento del cristianesimo, mi sembra perdersi nell’indeterminato. Anzi, a dirla tutta, chi pretende di occuparsi dei prossimi settecentomila anni non è previdente e premuroso ma velleitario e presuntuoso. Ma davvero noi viventi in transito siamo in grado di tutelare migliaia di generazioni che verranno dopo di noi e che secondo gli schemi tecno-progressisti saranno molto più evoluti e tecnologicamente più potenti di noi? Giù la testa, limitatevi a fare la vostra parte, accontentatevi di parlare di tempo futuro o di scommettere sull’eternità; ma non pensate di programmare l’avvenire per una milionata d’anni o poco meno. Non è cosa nostra.

Il discorso si fa più ragionevole quando viene indicato un periodo di riferimento più circoscritto: quando si dice, per esempio, che corriamo il serio rischio nei prossimi cinquant’anni di un’espansione incontrollata dell’intelligenza artificiale col rischio di espugnare, esautorare l’umano. A cui viene aggiunto il rischio di nuove pandemie e guerre nucleari. Sono pericoli reali perché non riguardano tempi per noi impensabili ma li stiamo già vivendo, si sono già manifestati. Dunque, ce ne possiamo occupare.La fine della vita intelligente sulla terra è un pericolo tutt’altro che remoto o indefinito: se deleghiamo tutto agli algoritmi, e a quella che chiamiamo erroneamente Intelligenza Artificiale mentre è un Cervello Elettronico (l’Intelligenza non è un fatto solo fisico, neurocerebrale, come invece è il cervello), rischiamo davvero di trovarci un giorno, senza rendercene conto, con la mente atrofizzata e il cervello infilato dentro una selva oscura di procedure, stimoli esterni, controlli e indirizzi venuti dalla Macchina. Torna la vena megalomane, anzi la pazzia, quando il discorso riprende la via lattea, ovvero quando i lungotermisti progettano di colonizzare altri pianeti perché qui c’è sovraffollamento: l’idea non è del tutto folle e utopistica, qualcosa si sta già muovendo, ma è così complesso programmare migrazioni planetarie di massa, traslochi popolari interstellari, che un po’ di sano e ironico realismo ci vuole per stabilire la differenza tra ciò che si può fare e ciò che si può solo immaginare. Sfamate chi oggi ha fame piuttosto che puntare tutto sulle tecnologie innovative, dice uno scienziato che tocca le corde della Gabanelli; e anche questo è bello a dirsi, più difficile a farsi ma qualcosa di concreto si può fare.

Resta inquietante la prospettiva che il destino dell’umanità sia affidato ai giganti della Big Tech, che non so fino a che punto si faranno guidare da sapienti e benefattori dell’umanità e non da aspiranti padroni del mondo. Musk è già tra i migliori, ma resta inquietante la sua pretesa di guidarci nel futuro, fin dentro il cervello; mi accontenterei che desse un supporto costruttivo a Trump per andare alla Casa Bianca e fare qualcosa di buono. Alcuni leader politici, intanto, si lasciano tentare dal lungotermismo; non vorrei malignare, ma sono tutti ex premier che una volta fuori gioco, se non diventano consulenti e conferenzieri come Billy Clinton, Tony Blair e Matteo Renzi, si mettono a giocare al Futuro e al Globale interplanetario. Alla fine mi pare che sia più saggio lo scienziato Federico Faggin, citato nell’inchiesta del Corriere, scettico sul lungotermismo, che considera “materialista” e impegnato ad accrescere il potere e il profitto dei Signori del Big Tech; e frena sull’intelligenza artificiale, di cui riconosce i grandi vantaggi ma li circoscrive in un ambito che non potrà mai sostituire l’autocoscienza, il libero arbitrio e il progetto umano. La macchina non ha etica, non ha cuore, non ha sensibilità, non ha anima e non può amare né suscitare amore né generare amando. Alla fine il pallino torna al punto di partenza, all’uomo, con la sua ricerca, la sua grandezza e i suoi limiti. E torna al nostro tempo, al nostro mondo, a noi viventi.

State contenti umana gente al quia, dice Dante, non pretendiamo di sostituirci al divino o al mistero e alle migliaia di generazioni che verranno; limitiamoci a provare la difficile impresa di salvare la nostra civiltà, l’umanità presente, con la sua cultura e la sua natura, l’intelligenza e il pensiero dai pericoli di oggi e di domani, e non tra cinquecentomila anni. Consegnamo degnamente il mondo ai nostri successori secondo tradizione; tra diecimila generazioni non è compito nostro, eccede dalle nostre competenze e facoltà. Pensare lungo, vedere ampio, ma senza pretese milionaristiche, esagerazione iperbolica del millenarismo. Quando vedo la terra nello spazio come una briciola dispersa nel cosmo, mi casca il mondo; e a nostra volta siamo briciole disperse dentro quella briciola di pianeta, non possiamo pretendere di guidare l’universo e fare programmi per il prossimo milione d’anni. Facciamo la nostra parte, fino in fondo, lasciamo le nostre tracce, preoccupiamoci del mondo che lasceremo ai nostri figli e nipoti. Al resto, se ci credi, ci pensa Dio. Il destino è più grande della nostra volontà.

Marcello Veneziani      

“Non rifiutare i sogni” .

“Non rifiutare i sogni” è una poesia di rara intensità, che trasmette al lettore il potere del sogno come mezzo per guardare alla vita in modo differente, quasi come una parola magica in grado di riplasmare le nostre esistenze.

“Non rifiutare i sogni”
Non rifiutare i sogni in quanto sogni.
Tutti i sogni possono
esser realtà, se il sogno non finisce.
La realtà è un sogno. Se sogniamo
che la pietra è la pietra, quello è la pietra.
A correre nei fiumi non è un’acqua,
ma è un sognare, l’acqua, cristallino.
Maschera i propri sogni
la realtà e dice:
«Io sono il sole, i cieli, l’amore».

Mai però se ne va, mai si allontana,
se fingiamo che sia più d’un sogno.
E viviamo sognandola. Sognare
è quel modo che l’anima
ha per non farsi mai sfuggire
quel che le sfuggirebbe se smettessimo
di sognare che è vero quello che non esiste.
Solo muore
un amore se non è più sognato
fatto materia e che si cerca in terra.

Pedro Salinas

La poesia “Non rifiutare i sogni”, ci invita a sognare,a non rinnegare i nostri sogni solo perché possono sembrare astratti e fantasiosi, a non averne paura, ma a lasciarci catturare dalla loro magia.Se la natura è un sogno ,lo stesso vale per la vita; infatti secondo Salinas “Tutti i sogni possono esser realtà, se il sogno non finisce. ”
Dobbiamo credere in ciò che la nostra mente crea quando sogniamo, in modo che il sogno si concretizzi nella realtà: un po’ la stessa visione cantata nella fiaba di Cenerentola “I sogni son desideri / di felicità”. La dimensione onirica del sogno si fonde con la natura nei versi di Salinas “Se sogniamo che la pietra è la pietra, quello è la pietra.
A correre nei fiumi non è un’acqua, ma è un sognare, l’acqua, cristallino. ” Ciò sta a comunicare il fatto che non ci sia nulla di più concreto che sognare, una condizione che si manifesta già a partire dagli elementi naturali che ci circondano.

Sogniamo ciò che vorremmo accadesse, sogniamo ciò che amiamo e desideriamo, sogniamo ciò che di bello ci circonda in natura. La dimensione onirica ci aiuta a capire cosa davvero cerchiamo nella vita e, allo stesso tempo, può aiutarci a realizzarlo.

Un sogno d’amore
“Sognare
è quel modo che l’anima
ha per non farsi mai sfuggire
quel che le sfuggirebbe se smettessimo
di sognare che è vero quello che non esiste”.

Pedro Salinas ci insegna che sognare è un movimento dell’anima, è un ciclo ininterrotto di potenza e atto, di rincorsa di desideri e della loro realizzazione, di amori incompiuti che plasmano mondi per non smettere mai di sognare, e di amare.

fonte__Libreriamo

ai-generated-8481679_640