Fiat voluntas dei. Per la seconda volta l’industria automobilistica italiana ripete il miracolo italiano, stavolta addirittura da defunta: mette d’accordo tutti, in un coro unanime. Ma raccontiamo la vicenda miracolosa dagli inizi.
Un tempo tutti elogiavano e corteggiavano la Fiat e il suo Divino, Regale Avvocato. Chi nel nome del capitalismo nostrano, chi nel nome del progresso o dello sviluppo, chi nel nome dell’occupazione e degli operai, chi perfino nel nome della Juventus e dell’orologio sui polsini. Da destra a sinistra, passando per il centro il coro devozionale era unanime, lasciava solo pochi scalmanati ai bordi estremi della politica e del sindacato. Tutti gli altri andavano a nozze con la Fiat, in ginocchio da Re Gianni. La stampa e i mass media poi non ne parliamo. Ossequiosi, inginocchiati al più Potente dei potenti, che per giunta era padrone per vie dirette e indirette dei cosìddetti giornaloni. Nel ’92 quando fondai l’Italia settimanale, un importante giornalista economico di un importante quotidiano, sapendomi giovane e impetuoso, mi avvertì: “Un consiglio d’amico. Attacca tutti, perfino la mafia, ma non toccare la Fiat. Altrimenti chiudi in poco tempo”. La miseria, commentai. Non vi dico il seguito.
La Fiat era sempre stata nel cuore del potere, nel cuore del fascismo quando c’era il regime, nel cuore dell’antifascismo dopo. Ai tempi della Repubblica sociale oscillava tra i partigiani e i nazisti, aspettando gli alleati, boicottando con l’aiuto dei comunisti e degli occupanti tedeschi la socializzazione delle fabbriche dell’ultimo fascismo. Poi diventò il volto del capitalismo italiano al tempo del boom economico; mise in moto l’Italia, letteralmente. Se dici boom la prima cosa che ti viene in mente è la seicento, o la cinquecento, per i più megalomani, la millecento. Fiat, fiat, fiat.
Ma l’apice del potere la Fiat di Gianni Agnelli lo raggiunse dagli anni settanta in poi. Era per definizione governativa, anzi i governi erano per definizione fiatanti, mansueti agnellini nelle mani dell’Agnellone Major. S’accordava coi sindacati e coi giornali dell’opposizione, a partire dai più comunisti. S’era accordata coi russi comunisti e poi con Gheddafi dittatore, divenuto azionista Fiat, e noi zitti. E man mano che finiva la lotta armata, l’estremismo di sinistra, la militanza ultracomunista, i compagni di ieri prendevano posto nell’impero Fiat e nelle sue ramificazioni a mezzo stampa e derivati. Nacque allora il patto tra i produttori, preambolo al compromesso storico, che coinvolgeva in primis sindacati, governo e Pci, Confindustria, Fiat, forze laiche come mosche cocchiere. E si disegnava quell’osmosi tra capitale e sinistra che darà vita al mondo radical chic, ai liberal con scappellamento al Padrone, ai comunisti guardia rossa del capitale, fiat & martello. La sinistra sostituiva l’anticapitalismo con l’antifascismo, e così celebrava la grande alleanza tra ideologia dem ed economia lib. Sappiamo le teorie e le strategie della Fiat e di Agnelli: le riforme più utili al capitale può farle solo la sinistra perché dispone di grandi ammortizzatori sociali, dal sindacato alla stampa, dalla cultura alle piazze di sinistra. Capitolo parallelo la famosa filosofiat – regno inattaccabile, ingiudicabile, inviolabile perfino al tempo di mani pulite – che si riassume nella nota massima: socializziamo le perdite, privatizziamo i profitti. Soldi pubblici, cassa integrazione, agevolazioni e aiuti d’ogni tipo, rottamazione e via dicendo, scorrevano a fiumi in direzione Torino, inondata da un Po di sostegni e ammortizzatori. Già l’Italia dal dopoguerra in poi fu disegnata su gomma anziché su rotaia, cioè a immagine e somiglianza del modello Fiat e dei suoi interessi.
Poi una serie di sciagure si abbatterono sulla famiglia Agnelli prima ancora che sulla azienda Fiat. Finiti gli agnelli ripiegarono su Elkann. La globalizzazione giocò contro la fabbrica torinese, la competizione sconfisse la Fiat, la bassa qualità delle sue auto, nonostante le impossibili inchieste a mezzo stampa o a mezzo magistratura, diventò un passa parola. Circolavano sottotraccia notizie sulla sicurezza e sul poco rispetto di alcune norme elementari, altro che vetture ecologiche.
Così la Fiat pretese di battere in Italia bandiera tricolore ma di spostarsi come sede all’estero per evidenti ragioni fiscali e di manodopera. Anche la produzione delle auto fu spostata all’estero salvo venire a battere cassa al governo italiano. Nacque perfino una nuova società che chiameremo Questuantis, anziché Stellantis, perché ogni comunicazione con le istituzioni pubbliche italiane è una richiesta di soldi, salvo scappare all’estero. Dopo Zelenskij, è Tavares il vice-primatista mondiale nella specialità chiamata battere cassa.
La parabola comunque ha proseguito fino all’ultimo, anzi al penultimo giorno. L’ultimo dono agli Elkann-Fiat, che non ha mai destato l’interesse di giudici, report, corte dei conti, è il finanziamento vergognoso con milioni di euro dei film di Ginevra Elkann che furono un flop nelle sale e non erano certo film di alto valore culturale. Era al governo la sinistra, era ministro della cultura Dario Franceschini; ma non ricordo inchieste su di lui, a differenza dei suoi successori…
Si parlava perfino di gioielli da 75 milioni di euro nelle mani degli Elkann, ma i soldi pubblici, a milionate, finanziavano la rampolla del casato Fiat, negando sostegni magari a film meritevoli ma di poveri cineasti sconosciuti.
Ma un bel giorno si sveglia il Buon Senso Comune, suscitato dall’evidenza a lungo negata, e avviene il secondo miracolo Fiat, girone di ritorno. Per la prima volta nella storia dei rapporti tra Fiat e politica, l’azienda automobilistica mette tutti d’accordo; si registra un coro unanime di dissenso e riprovazione nei confronti dell’atteggiamento padronale di Elkann e dei suoi cercatori d’oro. Dal governo alle opposizioni, da destra a sinistra, tutti rimproverano il comportamento dell’ex Fiat, deplorano Elkann, denunciano il mancato rispetto del Parlamento e delle istituzioni italiane.
A rendere beffardo il destino, come solo sa fare quella burlona della storia, con le sue astuzie e i suoi ribaltoni, arriva nello stesso giorno la nomina a cavaliere del lavoro da parte di Mattarella della figlia di Berlusconi, Marina. E nessuno osa dire nulla, anzi tutti plaudono: i governativi per ovvie ragioni di vicinato ma anche gli oppositori che ormai sperano solo in una giravolta dei berluscones e in un loro rigurgito centrista che li porti a rompere con la Meloni. Però il fatto resta: i discendenti del Sovrano torinese, lungamente attesi, vanno all’inferno; i discendenti del Diavolo brianzolo salgono in paradiso. E tutti a battere le mani. Che paese fantasioso di sublimi pagliacci.
Marcello Veneziani
Storia di ordinario desueto potere.
Ciao, gi