La meraviglia dei disegni di Picasso…

 

“Bisogna uccidere l’arte moderna. Questo significa che bisogna uccidere sé stessi, se si vuole continuare ad essere in condizione di fare qualcosa.”

Con questa frase scritta da Picasso al culmine del successo della sua pittura cubista, voglio raccontarvi il disegno di Pablo Picasso. Pare strano che proprio uno come lui, il più rivoluzionario nell’arte dell’inizio del novecento, dopo aver dato vita al movimento Cubista, parli di “uccidere l’arte moderna”, per ritornare a quelli che sono i più tradizionali moduli figurativi classici, ricercare nuove soluzioni innovative per evitare di ripetersi, cosa che non gli piaceva e voleva sempre essere il primo a ideare un nuovo modello di espressione.
Picasso non è solo cubismo, quest’ultimo rappresenta solo una stagione della sua opera lunghissima e instancabile; si sa che la sua formazione fu assolutamente tradizionale, che le sue abilità tecniche erano formidabili e che il suo legame con il “classico” riemerge nella sua potente seduzione, in tutti i momenti di svolta nella carriera dell’artista.

Oltre a essere un pittore, scultore e ceramista, Picasso esprime con massima efficacia la sua forza creativa attraverso il disegno e l’incisione, ovvero in quelle tecniche nelle quali la sua mano e il suo segno sono liberi e immediati. Ancora oggi si trovano in vendita centinaia di disegni di Picasso, frutto di una produzione talmente vasta e originale da sembrare infinita; Picasso disegnava continuamente e aveva raggiunto con il suo segno una tale sicurezza da riuscire a dare vita, con una sola linea, a figure eleganti e compiute, come pochi altri artisti sono mai stati in grado di fare. Un segno essenziale, preciso, asciutto e pulito che si curva e si modula senza nessuna esitazione.
Si tratta di una linea-spazio che definisce una forma chiusa precisa e compatta, da scultore, che si fa perimetro, senza esitazione alcuna. Grande attenzione è posta anche sulla composizione del disegno; le forme sono in relazione fra loro attraverso un equilibrio perfetto.
Nel disegno con materie grasse e friabili quali la grafite e le matite o con tecniche elastiche ed umide come la penna , il bistro o l’inchiostro, la sua linea disegnativa, così simile a quella di Ingres, è la sintesi dello sdoppiamento che ciascun artista vive tra realtà e anima, un segno fluido che si muove alla ricerca del linguaggio perfetto per dare forma e far vivere ciò che l’animo vive.
Infatti “Il disegno non è la forma, ma il modo di vedere la forma” scriveva Picasso.

la danza  Picasso

La Danza___Pablo Picasso

 

La femminilità tra gli impressionisti…

 

Berthe Morisot nasce nel 1841 in Francia in una famiglia borghese. Il padre è un funzionario statale, la madre la pronipote del pittore Jean-Honoré Fragonard. A dieci anni, insieme alle due sorelle e al fratello, Morisot si trasferisce a Parigi, dove entra in contatto con un ambiente culturale in fermento, grazie anche ai genitori che rendono la propria abitazione un ritrovo di artisti.

In quegli anni le accademie erano ancora precluse alle donne, per questo i genitori di Morisot realizzano per le figlie un atelier casalingo dove far loro prendere lezioni di pittura .Nonostante lo studio dei grandi classici della pittura, Berthe Morisot dimostra un’insofferenza verso le convenzioni e le tecniche classiche. Per questo motivo grazie a conoscenze riesce ad inserirsi nell’atelier di Jean-Baptiste Camille Corot. Questi la spinge a dipingere en plein air e, in questo periodo, Morisot entra in contatto con  i grandi artisti dell’epoca .Nel 1868 Berthe Morisot conosce Manet, con il quale instaura una profonda amicizia.
I due artisti si influenzano a vicenda nello stile e Manet la sceglie anche come musa per alcuni dei suoi quadri.Qualcuno parla di una relazione tra i due, ma Manet è sposato e qualche anno dopo averlo conosciuto, Morisot sposa il fratello, Eugène Manet.Dopo il matrimonio, con il marito Morisot trasforma la propria casa in un ritrovo per intellettuali, dove vengono invitati anche artisti come Zola, Mallarmè, Rossini, Renoir, Daumier, Monet e Degas, e non smette mai di dipingere e sperimentare anche con altri artisti e nel 1873 si associa al movimento dell’Impressionismo, fondando con Monet, Pissarro, Sisley, Degas, Renoir e altri artisti la Società anonima degli artisti, pittori, scultori, incisori, ecc. Dopo una prima mostra in cui non viene accolta benevolmente nonostante le si riconosca talento e bravura, lei non si scoraggia e continua a dipingere ed a esporre fino a diventare una degli esponenti di spicco del movimento. Dopo di lei, al movimento impressionista si aggiungono le artiste Marie Bracquemond, Eva Gonzales e Mary Cassatt.I suoi lavori hanno spesso come protagonisti donne e bambini, in particolare sua figlia Julie Morisot, e nonostante Manet le suggerisca di utilizzare prevalentemente il nero, utilizza sempre colori chiari e pennellate veloci e leggere, tutti elementi caratteristici dell’impressionismo ,realizzando bozzetti preparatori e focalizzandosi sulle espressioni e sulle emozioni dei soggetti ritratti nelle sue opere. Berthe Morisot muore improvvisamente a soli 54 anni, nel 1895, a causa di una polmonite. Sebbene in vita il suo talento sia stato universalmente riconosciuto, lo stesso non avviene dopo la morte. Sulla sua lapide nella tomba della famiglia Manet infatti viene apposta la scritta “vedova di Eugène Manet”, senza alcun riferimento alla sua carriera di artista. Anche sul certificato di morte non le viene resa giustizia, viene infatti scritto che la donna risulta senza professione.
Omaggi al talento di Berthe Morisot sono stati fatti spesso nel corso degli anni. A lei è stato dedicato un film, realizzato da Caroline Champetier e basato sull’incontro tra la pittrice e Édouard Manet. L’artista ha anche un asteroide a lei dedicato, il 6935 Morisot.

il balcone

Il mondo sottosopra: le fotografie di Philippe Ramette.

Un uomo, in un elegante abito scuro, cammina sul tronco di un albero in una bella giornata d’autunno:

01 albero

Lo stesso distinto personaggio, con la sua impeccabile giacca doppiopetto, solca il mare nei pressi della riva, mentre tutto intorno è sottosopra:

02 spiaggia

Poi, con un’invidiabile compostezza, levita a mezz’aria nel parco di una villa:

03 in aria su basamento

Oppure, senza mostrare il minimo timore, cammina sulla parete di un salotto:

04 muro

Impassibile e ben vestito, sfida non solo ogni legge di natura, ma anche il più comune buon senso.
Gli manca solo la bombetta per apparire come uno di quei surreali ometti che popolano i quadri di René Magritte.
Ma qui non siamo nell’universo fittizio della pittura: qui è tutto vero e quell’uomo che, nelle situazioni più improbabili, conserva la stessa flemma di un attore del cinema muto come Buster Keaton, è l’artista francese Philippe Ramette .
Nato nel 1961, disegnatore, scultore e fotografo, vive e lavora a Parigi. È lui che, qualche anno fa, ha avuto l’idea di giocare con se stesso e con la realtà, abolendo- per il tempo breve di uno scatto fotografico- le leggi fisica e della gravità.  Perché le sue foto non sono affatto- come si potrebbe pensare- frutto di un fotomontaggio o create con un raffinato programma al computer. Qui, come direbbe un prestigiatore: “non c’è trucco e non c’è inganno” (almeno digitale). “Sicuramente si potrebbe fare una manipolazione a computer- afferma Ramette- ma quello che mi interessa, invece, è il paradosso, è cercare di razionalizzare l’irrazionale”. Dietro le sue foto, infatti, c’è un lavoro da certosino che inizia con un album di disegni di vere e proprie sceneggiature.  Poi un gruppo di fedeli collaboratori si incarica di realizzarle, a partire dal suo complice di sempre, il fotografo Marc Domage, capace di sfruttare ogni angolazione per rendere la foto più verosimile e, allo stesso tempo, più assurda possibile. Insomma, è come la produzione di un un film, di cui Ramette è il regista.  Qui, ad esempio, come in un fotogramma bloccato, il nostro uomo in nero, sembra contemplare una città in bilico su un cornicione, in un atteggiamento che ricorda sia il protagonista di un film d’azione che l’eroe romantico di un quadro di Friederich.

05 parapetto

Senza mai un capello fuori posto, Ramette si sottopone a pose faticose e non esenti da rischi: in piedi o seduto, sospeso nel vuoto o nelle posizioni più strane. Niente paura! Anche se non si vede, è sostenuto da piattaforme, da anelli alle caviglie o da supporti rigidi inseriti nei vestiti e da tutta una serie di strutture o- come li definisce lui stesso- di “oggetti” che costruisce, per lo più, da solo e “che servono da punto di partenza per delle micro-finzioni”. E poi, ovviamente, non gli manca un’innegabile dose di sangue freddo. Come qui, dove, parallelamente all’acqua dell’oceano, attraversa, con la consueta impassibilità, la baia di Hong Kong, quasi fosse appoggiato alla balaustra del balcone di casa:

07 Hong Kong

Nessuno sforzo è troppo per lui, anzi è sempre pronto ad affrontare situazioni quanto meno poco confortevoli.
Come nella serie intitolata “Esplorazione razionale dei fondi marini”, dove Ramette si cimenta addirittura con delle foto realizzate in apnea, per cui ha dovuto preparare minuziosamente le sue immersioni al largo della Corsica e ha chiesto la collaborazione di un’intera squadra di sommozzatori.
Ed eccolo, mentre con l’immancabile giacca e cravatta, si orienta sott’acqua, leggendo una carta:

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Oppure mentre, tranquillamente seduto, osserva il paesaggio sottomarino:

09 acqua ramette

In un video  Philippe Ramette spiega gli avventurosi processi tecnici che precedono gli scatti delle sue fotografie.
Ma, forse è meglio non indagare troppo per lasciarsi conquistare dalla magia (e dalle sensazioni vertiginose) delle sue immagini.
Come questa, dove, seduto sul bordo di un precipizio nel Sud della Francia, nella posa del “Pensatore” di Rodin, contempla, con tutta calma, la strada stretta e piena di curve che sembra correre sotto di lui:

10 precipizio

“La mia idea- spiega-è quella di rappresentare un personaggio che abbia uno sguardo diverso sul mondo e sulla vita quotidiana. Nelle mie foto non c’è alcuna attrazione per il vuoto, ma la possibilità di acquisire un altro punto di vista”.
Con leggerezza, apparente disinvoltura e -perché no?- un pizzico di follia, Ramette restituisce, nelle sue foto, l’idea di una società che ha perso ogni punto di riferimento.
Con umorismo, ironia e il suo immutabile completo da funzionario modello, cerca di scardinare la nostra razionalità e modificare la nostra maniera di vedere le cose, costruendo un suo universo, insieme bizzarro e familiare, dove si può camminare sotto il mare e la gravità non esiste.
Come solo un grande illusionista o un vero artista sa fare.

 

 

 

 

Nello Studio di Jan Vermeer___L’allegoria della pittura-

Se la pittura di Vermer è tutta qui, mi pare che quel “qui” sia una vastità” (G. Ungaretti)

Ormai è una superstar. Dopo un’esistenza riservata e tutta dedicata al lavoro, dopo due secoli d’oblio e la riscoperta ottocentesca, oggi basta esporre anche uno solo dei suoi dipinti per attirare migliaia di visitatori.
A rischio quasi di farlo passare per un’icona pop.
Per ritrovare la sua magia, però, bastano il silenzio e l’incanto di un dipinto come questo: una tela, datata tra il 1666 e il ’68 e ora al Kunsthistorisches Museum di Vienna.

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La porta è aperta e la pensante tenda di broccato sembra scostata apposta per noi.  Non ci resta che oltrepassarla per entrare nello studio di Vermeer (1632-1675).  Tutto è in ordine: non c’è nulla del caos che ci saremmo aspettati nell’atélier di un pittore. Le comodità, invece, non mancano: mobili di pregio, una scultura, qualche stoffa preziosa  e perfino una carta geografica appesa alla parete, come usava, allora, nelle case dei più ricchi. La stanza, ampia e luminosa, col pavimento a grandi riquadri bianchi e neri, è quella abitualmente utilizzata al primo piano della casa della suocera. Un’agiata dimora borghese nel quartiere “papista” di Delft, dove è andato ad abitare dopo il matrimonio e la conversione al cattolicesimo. Con venti stanze e tre piani, la casa è grande, ma la famiglia è aumentata così rapidamente (quindici figli) che sembra  quasi diventata angusta. Non è facile per lui, così lento e meticoloso, isolarsi per dedicarsi alla pittura. Il suo lavoro lo occupa giorno e notte e, come al solito, fa tutto da solo: mantenere un collaboratore gli costerebbe troppo.

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Ed eccolo, al centro della scena, mentre sta ritraendo una giovane donna, che tiene in mano un libro e una tromba e ha in testa una corona di alloro. Con gli occhi pudicamente abbassati e l’aria gracile da ragazzina, sembra una delle servette di casa, travestita apposta per mettersi in posa.Un pittore e una modella: sembrerebbe un momento come tanti nella vita di un artista. Eppure, come spesso succede con Vermeer, si ha l’impressione che non sia tutto qui e che qualcosa ci sfugga.  A cominciare dall’aspetto del protagonista che, invece di mostrarsi in bella vista, ci volta le spalle, mentre siede al cavalletto, vestito con un abito fin troppo elaborato ,completamente  inadatto al lavoro.  E poi le vesti che indossa, dal giubbotto traforato sulla camicia bianca, alle calze portate arrotolate alle caviglie, sono sorpassate: andavano di moda, in Olanda, più di un decennio prima.

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Se si guarda ancora meglio, ci si accorge, poi, che Vermeer, di solito così preciso, ha mescolato parti di verità a piccole incongruenze. Intanto, la grande carta geografica alla parete rappresenta una situazione vecchia di mezzo secolo, prima della creazione del nuovo Stato olandese. Poi, per esempio,  ha tracciato sulla tela dove lavora lo schema iniziale di una composizione, però sta usando un poggia-mano, un bastoncino col pomo d’avorio, che dovrebbe essere riservato solo alla rifinitura finale.
Viene, allora, il dubbio che quella a cui assistiamo sia una messa in scena e che Vermeer abbia trasformato il suo studio nella scenografia di un teatro, in cui sia lui che la modella recitano una parte. Ma quale? La chiave sta tutta nell’abbigliamento della donna: secondo l'”Iconologia” di Cesare Ripa, un testo fondamentale per gli artisti dell’epoca, la tromba e l’alloro sono gli attributi della fama, mentre il libro allude alla storiografia.
Si tratta, dunque, di una rappresentazione di Clio, la musa della storia e dell’ispirazione artistica. Ed ecco che la scena assume tutt’altro significato: non è un autoritratto di pittore nello studio- all’epoca piuttosto frequente- ma un’allegoria della pittura.  Vermeer non è di quelli che scrivono trattati, o elaborano teorie.  Se vuole celebrare la sua arte, proprio negli anni del suo riconoscimento ufficiale e della sua nomina a Sindaco della Gilda dei pittori di Delft, preferisce farlo nel modo che conosce meglio: dipingendo.  E lo fa, senza retorica e senza enfasi, evitando di usare i soliti riferimenti mitologici o alla storia antica.  Sceglie di raffigurare una stanza di casa sua, con la luce, che entra da una finestra fuori-campo e rende vero ogni dettaglio, dalla stoffa della tenda in primo piano, al pavimento che ha l’aria di essere appena pulito, ai bagliori del bronzo scintillante del lampadario.  In questa scenografia casalinga, con un  semplice pezzo di stoffa azzurra e una trombetta di latta, trasforma una servetta timida nella musa Clio.
Poi fa sì che l’artista al cavalletto, abbigliato con un vestito fuori moda, scovato nel fondo di qualche armadio, diventi il simbolo, senza tempo, di tutti i pittori.  E ci fa capire che la pittura, più ancora della scultura, simboleggiata dalla testa di gesso posata sul tavolo, è in grado di ricreare una realtà fuori dal tempo e di rendere eterno ogni minimo frammento di vita  Vermeer sa di essere un grande pittore e ne va fiero: per questo terrà questa tela nel suo studio, senza mai venderla e, alla sua morte, la moglie rifiuterà di cederla per pagare i debiti.
Rappresenta il suo omaggio all’arte che ha sempre praticato, con orgoglio e senza mai venire meno, malgrado le difficoltà e i problemi economici.Sa che gli bastano colori e pennelli e, in quella stanza  al primo piano di una casa affollata e rumorosa di voci infantili, potrà trasfigurare, nella serena perfezione delle sue tele, anche i più modesti particolari quotidiani.
Grazie al suo modo di usare la luce e il colore, la rappresentazione di un artista al lavoro, quella di una domestica che versa il latte , di una piccola via di Delft o di una ragazza con l’orecchino di perla potranno assumere un significato universale e  diventare opere in grado di attraversare i secoli.

All’interno di quella nitida dimora olandese la pittura avrà compiuto, ancora una volta, la sua magia.

Le mie natività preferite…

 

 

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Caravaggio__Adorazione dei Pastori

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Albrecht  Durer__ Natività ,Pala d’altare.

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 Correggio___La Notte

el greco, l'adorazione deipastori

El Greco__Adorazione dei Pastori

natiità mistica di Sandro Botticelli

Sandro Botticelli__Natalità Mistica

Questi  Capolavori dell’arte Mondiale per  augurare a tutti un Natale pieno di serenità e gioia, un Nuovo Anno che  possa ispirare ognuno di noi  , indicandoci la strada  per una nuova  rinascita in un mondo nuovo, senza guerre, un mondo di concordia e  condivisione,  dove gli uomini, incontrandosi, incrociando gli sguardi, tornino a sorridersi e riconoscersi gli uni negli altri!

 AUGURI DI BUONE  FESTE!!

 

 

Guardare le opere di Edward Hopper con occhi diversi…

 

Io penso che tutti coloro che conoscono Edward Hopper e le sue opere, uniche nel loro genere asciutto, minimalista e reali, le abbiano sempre guardate come rappresentazione della solitudine, alla quale si poteva aggiungere qualsiasi aggettivo. Quelle persone sole appoggiate ad una porta, quelle donne nude su letti o poltrone cogli sguardi volti all’infinito, quei lunghi banconi di bar quasi vuoti, benzinai in attesa di un cliente ci sono sempre apparse come disperati solitari in popolose metropoli americane, dove persino il caos del rumore a volte viene percepito come un assordante silenzio.
Esiste invece un ‘altra interpretazione dei dipinti di Hopper, che libera i suoi personaggi dalla solitudine, mettendoli in una dimensione diversa – C’è un libro  Oltrecolore , nel quale l’autore Antonio Spadaro ci spiega la sua visione e ci aiuta ad osservare questi dipinti secondo un diverso punto di vista,ci porta insomma a dare sfogo alla nostra immaginazione. Ebbene sappiamo come la nostra fantasia dipenda dai nostri stati d’animo. Meraviglioso quindi avvicinarsi a questi dipinti, e mentre li ammiriamo perdersi in una qualunque situazione, che possiamo immaginare per loro.
Spadaro scrive infatti che “nei quadri di Hopper le figure sono colte in attesa che qualcosa avvenga, come se una rivelazione fosse a portata di mano. La risposta sta fuori, rispetto alla superficie del quadro. La soluzione dell’attesa non è data, ma è suggerita come una necessità ineliminabile. Si ha la certezza che qualcosa debba avvenire o qualcuno debba arrivare, anche se non si sa che cosa o chi. Hopper è dunque il maestro che sa fissare l’attimo instabile in cui la vita si manifesta come desiderio di una forma di salvezza”. Sarà bello fare questo ragionamento non appena mi troverò ad ammirare un dipinto di Hopper, sarà bello immaginare i pensieri di quella signora in treno, in attesa di qualcuno che la sta aspettando con ansia , per qualsiasi motivo, in viaggio verso una realtà piacevole.

in treno

Oppure guardare quelle sue case solitarie e riempirle di vita, di gioia, di rumori, di persone che non siedono nude su un letto guardando, fuori dalla finestra, un mondo che non le appartiene.

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Odissea, libro ventitreesimo. Ulisse prima e dopo….

Già la spada di ferro ha eseguito
l’opera dovuta di vendetta;
già i dardi crudeli e la lancia
hanno versato il sangue del malvagio.
A dispetto di un dio e dei suoi mari
Ulisse è tornato al suo regno e alla sua regina,
a dispetto di un dio e dei grigi
venti e dello strepito di Ares.
Già nell’amore del letto condiviso
dorme la famosa regina sopra il petto
del suo re, ma dov’è quell’uomo
che nei giorni e notti dell’esilio
errava per il mondo come un cane
e diceva che Nessuno era il suo nome?

Jorge Luis Borges

C’è in questa poesia il rovesciamento della prospettiva classica su Ulisse.  L’Odissea racconta le sue grandi vicissitudini tra pericoli, parentesi amorose, tuttavia col pensiero a Itaca. Ma Borges in questa poesia si chiede: è ancora lo stesso adesso che è tornato? Non sente la mancanza della sua vita vagabonda e disperata e solitaria, ma libera e avventurosa?

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Giorgio De Chirico___Ulisse

Lo sfregio ai Girasoli di Vincent Van Gogh…

 

https://video.repubblica.it/green-and-blue/zuppa-contro-i-girasoli-di-van-gogh-il-raid-dei-militanti-ecologisgti/429291/430245?ref=RHTP-BH-I369858479-P3-S2-F

girasoli

 Che  c’entrano con l’ecologia i bellissimi girasoli di Vincent Van Gogh?  Forse sono io che non riesco a trovare il nesso, ma rovinare in questo modo un’opera di tale portata , usarla da sfondo ad un discorso che non ha niente di nuovo, sentito migliaia di volte da pazzi di questo genere, è un reato che andrebbe punito molto severamente. Sappiamo tutti della fame nel mondo, del guaio che i combustibili fossili, dei problemi del cambiamento  climatico, ma perchè proprio questo  Van  Gogh   ,perchè imbrattare la solarità di quest’opera, una delle poche espressioni di calma, di serenità, di gioia spirituale nell’ispirazione artistica di uno dei pittori  più tormentati della Storia della  Pittura? Non riesco assolutamente ad entrare nella mente di questa gioventù infatuata soltanto di slogan,di quel va bene tutto purchè se ne parli. Non si saranno mai chiesti se non potrebbero sortire effetto contrario, specialmente in un momento in cui  proprio la mancanza di questi prodotti condannati all’inutilità totale ,  fa sentire  alle popolazioni occidentali europee che certi discorsi siano anche fuori luogo  quando la loro mancanza sta creando disagi e difficoltà a milioni di famiglie?- Aveva ragione Dostojewsky quando   scrisse la famosa frase ” La bellezza salverà il mondo” , perchè non servono solo le parole, ma etica, umanità, ma anche un’educazione alla bellezza per ogni cosa che si trova al mondo, naturale o  semplicente opera dell’uomo.

Antropologia di un gesto, Paolo e Francesca si baciano ancora.

Jean-Auguste-Dominique Ingres, il bacio di Paolo e Francesca
Jean-Auguste-Dominique Ingres, il bacio di Paolo e Francesca

Dalla Divina Commedia ai personaggi contemporanei. Non c’è contatto che abbia colpito di più la fantasia letteraria

Dal bacio di Paolo e Francesca a quello di Paola e Francesca. Il primo, reso immortale da Dante finì in tragedia, il secondo fra Paola Turci e Francesca Pascale, con un matrimonio. Gli amanti della Divina Commedia furono sorpresi sul fatto dal di lei marito. La cantautrice e l’ex di Berlusconi sono state paparazzate labbra sulle labbra. In un caso galeotto fu il libro, nell’altro uno yacht. Eppure, al di là delle differenze è pur sempre un bacio a simboleggiare l’amor che a nullo amato amar perdona. E non è un caso che magazine, tv e social in questi giorni abbiano tutti rispolverato i versi del V Canto dell’Inferno, rendendo iconiche le testimonial dell’amore LGBTQIA+.

Perché quello di Paolo e Francesca è il bacio più celebre della letteratura. Un bacio che nasce da un altro bacio letterario. Quello altrettanto proibito che Ginevra, moglie di re Artù, scambia con il prode Lancillotto, raccontato dal grande poeta Chrétien de Troyes, nel libro che accende la passione dei due young adulterers.

Quel turbine di desiderio immortalato dalle terzine vertiginose di Dante ha colonizzato la vita sentimentale di generazioni di studenti. Mescolandosi ai turbamenti dell’adolescenza. “Ma Paolo e Francesca, quelli io me li ricordo bene – dice Antonello Venditti in Compagno di scuola – perché, ditemi, chi non si è mai innamorato di quella del primo banco?”.

Gli unici a poter contendere agli amanti di Rimini la palma del bacio fatale sono gli amanti di Verona, Giulietta e Romeo. Con una bella differenza. I primi sono due ragazzini ingenui, tutti fremiti e palpiti. Basta un libro a farli andare fuori di cabeza. Mentre la Giulietta di Shakespeare appare molto più scafata di Romeo, quasi una metrosexual. Lui, ingenuo, paragona le sue labbra a due timidi pellegrini in cerca della sacra bocca dell’amata. Mentre la ragazza Capuleti la sa lunga e valuta da uno a dieci l’arte filematica del Montecchi. “You kiss by a book” – gli dice compiaciuta – “baci come un libro stampato” o, se preferite, “baci da manuale”. Insomma, il libro galeotto è diventato un tutorial.

Il sì di Paola Turci e Francesca Pascale a Montalcino il 2 luglio 2022

Il sì di Paola Turci e Francesca Pascale a Montalcino il 2 luglio 2022 

Quello che evidentemente non ha letto Otello che, accecato dalla gelosia, scambia i baci d’amore di Desdemona per prove del suo tradimento. E quando la uccide nel sonno, la bacia e continua a parlarle di baci: “E non c’è altro modo che questo: uccidermi, per morire in un bacio”. La scena ha una lunga eco letteraria e musicale, fino al libretto scritto da Arrigo Boito per l’Otello di Verdi dove il Moro dopo il femminicidio canta “un bacio, un bacio ancora, un altro bacio”. Con una sorta di triangolazione delle citazioni, perché la frase di Boito si ispira a un passo delle Ultime lettere di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo dove Lorenzo, uno dei protagonisti del romanzo, scrive all’agognata Lauretta “O! un altro tuo bacio, e abbandonami poscia a’ miei sogni e a’ miei soavi delirj: io ti morrò ai piedi”.

Insomma, sulla letteratura piovono baci in tutte le direzioni, come quelli di cui Vronsky copre il viso e le spalle di Anna Karenina nell’omonimo romanzo di Tolstoj. Ma la fiaba e il fantasy sono un vero catalogo di prodigi filematici, aspirazioni bocca a bocca, suzioni fatali. A cominciare da quelle del Dracula di Bram Stoker, il più nefasto tirabaci dell’Ottocento.

Ma la magia del bacio, il suo potere di cambiare anima e corpo delle persone ha nelle favole e poi nel cinema la sua consacrazione. L’idea di fondo è che in ogni ranocchio è nascosto un principe e in ogni serpente una principessa che solo un bacio potrà restituire alla loro bellezza originaria. A questo genere appartengono storie come La donna serpente di Carlo Gozzi una favola teatrale settecentesca. O ancor prima l’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo, dove il prode cavaliere Brandimarte libera la fata Febosilla trasformata in rettile da un mago invidioso. Va da sé che l’indomito slinguazza senza esitazioni il biscione. E il lieto fine è assicurato.

Alla stessa famiglia di miracolate appartiene la Bella addormentata nel bosco, svegliata dal bacio del principe dopo un sonno di cento anni. Senza dire di Biancaneve che dopo aver assaggiato la mela della strega piomba in uno stato di ibernazione da cui solo le labbra amorevoli del principe la tirano fuori. Più o meno come succede ad Anna, principessa di Arendelle e coprotagonista di Frozen-Il regno di ghiaccio, il film d’animazione che ha stracciato tutti i record d’incasso.

Ma non si creda che siano solo e sempre le donne ad aver bisogno degli uomini. Anche i principi hanno i loro inestetismi da incantesimo. Trasformati in mostri come ne La bella e la bestia. E nemmeno i paperi fanno eccezione. Ne La leggenda di Papertù, geniale crasi fra Paperino e Artù, il pennuto più famoso di sempre viene trasformato in rospo dalla perfida maga Ameliana. L’incantesimo viene spezzato solo dal bacio della principessa Paperinevra, Paperina più Ginevra.

Ma adesso, al tempo del #MeToo, quei baci favolosi incappano spesso e volentieri nelle censure del politicamente corretto. Nel 2017 Sara Hall, una mamma inglese, ha chiesto di cancellare la Bella addormentata dai programmi scolastici del Regno. Motivazione. Il principe è uno stalker che ha baciato la dormiente senza il suo consenso. Ha rincarato la dose la sociologa giapponese Kazue Muta che ha accusato il principe di Biancaneve di atti osceni su una partner priva di sensi.

Per ragioni analoghe l’attrice Keira Knightley ha deciso di vietare a sua figlia Cenerentola e pure La sirenetta. Con tutto il rispetto, accusare di sessismo un autore di 2000 anni fa o i fratelli Grimm è come multare per eccesso di velocità i piloti di Formula Uno.

In realtà, questo revisionismo applicato alla fiaba è la prova provata della potenza simbolica di questo gesto antico quanto il mondo. A partire dalle Metamorfosi di Ovidio dove lo scultore Pigmalione bacia la statua di Galatea e la trasforma in una bellissima donna in carne e ossa. Fino al mondo dei Manga e degli Anime, dove siti specializzati stilano la classifica dei baci più amati dagli adolescenti. Insomma, con buona pace della cancel culture, il bacio resta un evergreen del discorso amoroso. Di ieri e di oggi.

Donatello, Madonna Dudley-

Tra i fili conduttori della meravigliosa mostra di Donatello in corso a Firenze a Palazzo Strozzi e al Bargello, c’è certamente il tema della Madonna con il Bambino. È impressionante e insieme commovente la quantità di varianti che Donatello riesce a creare su quello stesso soggetto, come se avesse avuto l’opportunità di essere testimone di mille differenti istanti della relazione tra Maria e suo figlio.

Cambiano i gesti; cambiano soprattutto le pose del Bambino, che come accade nella realtà di ogni bambino non sta fermo, cambia posizione, cerca la madre in modi ogni volta diversi. A volte s’abbarbica al suo volto, a volte si agita sulle ginocchia, a volte le si stringe il collo, a volte si mette teneramente guancia a guancia. Con Donatello il soggetto più amato dal popolo cristiano si vivifica, proponendosi ogni volta in modo irripetibile, proprio com’è irripetibile ogni istante della vita.  C’è però un’opzione preferenziale a cui Donatello ricorre con maggiore frequenza. Riguarda Maria, che tante volte troviamo rappresentata di profilo, mentre rivolge il suo sguardo al Bambino. In mostra ce n’è più di una, compresa quella più celebre, la Madonna Pazzi, che campeggia sui manifesti. C’è ad esempio la bellissima e misteriosa Madonna Dudley, conservata a Londra: una lastra di marmo poco grande – quanto un foglio A4 – che sembra scolpita più che con uno scalpello con la grazia di un soffio. È misteriosa non perché sia sfuggente, ma perché, grazie a tanta leggerezza esecutiva, ci mette direttamente davanti al mistero costitutivo del rapporto tra Maria e suo figlio. Anche la Madonna Dudley ci appare di profilo. Perché Donatello insisteva tanto su questa scelta? Stando di profilo, Maria punta sempre il suo sguardo sul Bambino. È uno sguardo inevitabilmente intenso, profondo e affrancato da ogni psicologismo.In un certo senso può sembrare escludente, in quanto noi siamo tagliati fuori dall’asse di quello sguardo. Eppure è tale la densità umana di quel guardare, che alla fine, ci si sente invece tutti inclusi. Quello di Maria è infatti uno sguardo originato da un’attrattiva, così tenera, fragile e insieme così totalizzante. Difficile non sentirsene investiti, al punto che è difficile anche a noi levare lo sguardo da immagini come queste.

https://piccolenote.ilgiornale.it/56340/donatello-madonna-dudley