Sii eretico…

 

Vi auguro di essere eretici.
Eresia viene dal greco e vuol dire scelta.
Eretico è la persona che sceglie e, in questo senso è colui che più della verità ama la ricerca della verità. E allora io ve lo auguro di cuore questo coraggio dell’eresia. Vi auguro l’eresia dei fatti prima che delle parole, l’eresia della coerenza, del coraggio, della gratuità, della responsabilità e dell’impegno. Oggi è eretico chi mette la propria libertà al servizio degli altri. Chi impegna la propria libertà per chi ancora libero non è. Eretico è chi non si accontenta del sapere di seconda mano, chi studia, chi approfondisce, chi si mette in gioco in quello che fa. Eretico è chi si ribella al sonno delle coscienze, chi non si rassegna alle ingiustizie. Chi non pensa che la povertà sia una fatalità. Eretico è chi non cede alla tentazione del cinismo e dell’indifferenza. Eretico è chi ha il coraggio di avere più coraggio.

Don Luigi Ciotti

eresia

Si riparte dall’amore…

L’Amore necessario è il mio nuovo saggio appena uscito da Marsilio dedicato alla forza che anima la vita e muove il mondo. Non è un saggio sull’amore romantico, sulla coppia, sull’eros ma un viaggio nelle varie forme dell’amore che coinvolgono corpi, anime e menti e muovono uomini, animali e forze della natura. C’è l’amore degli amanti e l’amor famigliare, l’amore della vita e l’amore del mondo, c’è l’amor patrio e l’amore del destino, l’amor di Dio e della verità.
Nonostante la retorica pervasiva sull’amore c’è scarso amore nel mondo e nel nostro tempo. E’ largo l’abuso corrente di richiami all’amore, alle sue estensioni e ai suoi nomignoli correnti: diventa intercalare universale, anche in forma contratta, per rivolgersi pure ad amici occasionali, animali e avventori di prostitute. Quando tutto è chiamato amore, l’amore perde senso e profondità; come accade con l’amore per l’umanità. Se l’amore si fa generico, smette di essere amore. Tutti fratelli, nessun fratello.
L’amore comporta dedizione e predilezione, gioia, sacrificio, attenzione al mondo e agli altri; e tutto ciò difetta nella nostra epoca. Viviamo in un mondo disamorato che pure professa amore universale, a partire dai remoti e dagli ignoti; ama gli animali, le piante e il pianeta; vagheggia amori nomadi di passaggio o dipendenze travestite d’amore e proclama l’amore libero, senza limiti, fluido, senza vincoli di tempo, di natura, di sesso e di famiglia. Ma l’amore non è libero, perché la sua legge elementare è il vincolo, spontaneo e inevitabile. Può liberare, l’amore, ma in sé non è libero: è necessario, invece. E dicendo che l’Amore è necessario non si sminuisce l’amore, non lo si confonde con un bisogno impellente ma se ne coglie l’incomparabile grandezza, la sua centralità insostituibile nella vita, la sua prossimità col destino. L’amore libero passa, soggetto ai desideri volubili; l’amore necessario resta perché riguarda l’essere prima del volere; è il fondamento del mondo e la più alta motivazione del nostro essere al mondo. Senza amore si prospetta un futuro da tecnobestie artificiali. L’amore garantisce la nostra umanità. Viviamo la perdita d’amore; avviene con una rapidità che non lascia il tempo di sconcertarsi, tanto è repentina, automatica e inconsapevole l’accelerazione.  Stanchi dell’uomo, gli umani inclinano verso il vegetale, l’animale, il silice, l’artificiale. Una specie d’amore è rivolto al clima e all’aria o al pianeta, o al cane, al gatto, all’orso, allo smartphone, agli accessori o al robottino; l’umano è d’ostacolo, fastidio o residuo tossico, di cui prima o poi, finalmente, il pianeta si libererà. E tireremo un sospiro di sollievo. Da morti.  Cosa sostituisce questo collasso progressivo dell’amore? Quali sono cioè gli amori surrogati che prendono il suo posto? Gli amori superstiti oggi vigenti sono di tre tipi: l’eccessivo amor di sé, egocentrico e autoreferenziale; un vago amore dell’umanità, come una remota, astratta platea globale; un surreale amore per ciò che non c’è, il virtuale o è frutto mentale dei desideri. Tre tipi d’amore – introflesso, generico o irreale – che sorgono dal disamore profondo e radicale. Si perde l’amor concreto dell’altro, l’amore aperto verso l’alto e l’amore per la realtà vivente. Tutto alla fine ruota intorno a una sorta di egoarchia universale e circolare: Io amo Io.  L’Amore necessario affronta le nove forme, anzi i nove gradi dell’Amore, in rapporto con la vita, con chi ami, con la famiglia, col mondo, con la sapienza, e poi l’amor patrio (e familiare), l’amore del fato, l’amor di Dio e l’amor di verità. C’è anche le breve storia dell’amore nel mito e nella filosofia, tornando a Platone che fondò il pensiero dell’amore; per concludere con l’amore della verità, connubio difficile perché l’amore spesso non ama la verità o non la dice; e la verità spesso ferisce e delude l’amore. Al termine della visita ai nove gradi dell’amore, parte una gita fuori porta nel tempo presente per scoprire che l’amore è unico argine e la sola risposta umana al dominio dell’Intelligenza Artificiale: l’amore è un’energia, una molla, uno slancio che non potrà mai scaturire da un essere artificiale. E’ l’amore che lo aziona.  Insomma, l’amore è il necessario punto di partenza, nascita e rinascita, per ricominciare a vivere e pensare.
Però se dici amore, la prima immagine che ti compare è lei, la persona amata. Prima di declinare le mille forme dell’amore, la più ricorrente, sulla bocca di tutti, in forma di parola e bacio, è l’amor di coppia. Poi l’amore si allarga a quelli che vanno sotto il genere di affetti o di passioni. Ma il primo tu è la persona amata che ti infiammò d’amore e che reputi insostituibile. Magari non è la stessa per sempre, perché l’amore non invecchia invece gli amanti e gli amori appassiscono. L’amore è oltre il tempo, gli amanti ne sono dentro, anche se al loro apice si percepiscono fuori, in un tempo sospeso.  Per amor tuo fu l’espressione chiave che aprì le porte dell’amore. Fu pronunciata in un mattino, riferita a minimi risvolti, lasciata cadere forse con studiata noncuranza. Ma portò presto lo scompiglio dell’amore. Irruppe l’ospite inquietante, in forma di voce, di parola; poi si fece corpo, abbraccio, amplesso, unione e passione. E di due vite ignare fece un fascio d’amore. Breve, intenso, indelebile ricordo. Dette fiato a una storia, suscitò energie che covavano sotto la brace spenta, alitò vita nei corpi, l’intrecciò a una sorte; poi svanì. Tutto si fece “per amor tuo”.
Non nominate l’amore invano, è come un dio, aspetta la chiamata, arriva e dispone di chi lo pronuncia e di chi ne è investito.

Marcello Veneziani 

Ecco perchè…

 

ECCO PERCHÈ…
C’è talmente tanta umanità in questa capacità di amare gli alberi, talmente tanta nostalgia dei nostri primi stupori, talmente tanta forza nel sentirsi così insignificanti in mezzo alla natura… sì, è proprio questo: l’evocazione degli alberi, della loro maestosità indifferente e dell’amore che proviamo per loro da un lato ci insegna quanto siamo insignificanti, cattivi parassiti brulicanti sulla superficie terrestre, dall’altro invece quanto siamo degni di vivere, perché siamo capaci di riconoscere una bellezza che non ci è debitrice.

Muriel Barbery    da”  L’eleganza del riccio”

 

intorno

Un po’ di filosofia Zen…se serve uno scossone.

 Non saprai mai quanto tu sia forte veramente fino a quando essere forte non diventerà l’unica scelta che avrai a disposizione

 Non puoi pretendere di cambiare ciò che ti rifiuti di affrontare.

  Nessuno è perfetto, nessuna ha vita facile. Non puoi sapere quali sofferenze prova l’altro, ciascuno di noi ha problemi intimi e profondi: non giudicare, non colpevolizzare, ognuno di noi sta già combattendo la propria battaglia.

  Piangere non è indice di debolezza, significa semplicemente che sei vivo.

 Non importa quanti errori tu faccia o quanto lenti siano i tuoi progressi, sarai sempre ben più avanti di chi neppure ci prova.

 Vivere non significa attendere che passi la tempesta, ma imparare a danzare nella pioggia.

 Il rancore è il modo migliore per sprecare l’occasione di essere felici.

 Far sorridere una persona può cambiare il mondo.

  Puoi imparare le migliori lezioni dai tuoi errori, se sei disposto a riconosce rli. Non serve preoccuparsi di ciò che gli altri pensano di te. Ciò che conta è come tu ti senti con te stesso.

 Non aver paura di uscire dalla tua zona di comfort. Oltre la barriera si celano le opportunità più ricche.

  Lasciar perdere non è sempre segno di debolezza: spesso invece indica che sei così forte da sapere rinunciare.

 Non indugiare sul passato e non preoccuparti troppo a lungo del futuro. La vita è adesso, vivila tutta.

 Se sei appassionato di qualcosa, dedicatici, non importa cosa ne pensano gli altri. Soltanto così potrai realizzare i tuoi sogni.

  Il perdono è una delle principali chiavi perla felicità.

  Quando la negatività ti circonda, rimani positivo. Quando gli altri sono accigliati, tu sorridi. E’ il modo migliore per iniziare a fare la differenza.

Sii onesto, autentico e sincero. Questa consapevolezza ti aiuterà ad adottare scelte migliori e a diventare una persona più forte.

  Non siamo soli .Lì fuori c’è un’infinità di persone pronte a esserti vicino.

 Quando impieghi il tuo tempo per preoccuparti stai semplicemente utilizzando la tua immaginazione per dare vita a cose che non vuoi.

Anche quando credi di non avere nulla, c’è sempre qualcun altro che ha meno di te. Datti da fare per aiutarlo.

 La risata è la migliore medicina per lo stress.

 Se vuoi sentirti ricco, inizia a contare tutte le cose belle che hai e che il denaro non potrà mai comprare.

 Se ogni mattina ti alzi con l’idea che qualcosa di meraviglioso accadrà, e se vi porrai la giusta attenzione, ti renderai conto che avevi ragione.

 Sii vulnerabile. Consenti a te stesso di essere aperto, sensibile e autentico. Lascia che le emozioni fluiscano, piangi e ridi liberamente, senza filtri.

 Se qualcosa è fuori del tuo controllo, perché preoccupartene? Concentrati sulle cose che puoi cambiare.

  Un problema è un’occasione per imparare.

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L’importanza di scrivere a mano (e in corsivo)…

Quello che sembra si stia perdendo è la capacità di argomentare, formulare, comprendere un testo, saperlo riassumere e poi esporre con chiarezza
L’importanza di scrivere a mano (e in corsivo)

Come scrivono i giovani nell’epoca social? Sentiamo dire che non sono più capaci di utilizzare l’italiano corretto, non sanno fare un tema ben strutturato, hanno carenze nella scrittura, nell’associazione di idee e nei collegamenti tra argomenti. In verità sono sempre lì a scambiarsi messaggi e commenti: non credo sia mai esistita un’epoca in cui si sia scritto così tanto. Quello che invece sembra si stia perdendo è la capacità di argomentare, formulare, comprendere un testo, saperlo riassumere e poi esporre con chiarezza. Ma cosa è successo nella scuola degli ultimi decenni?  Dopo anni di promozione dell’istruzione digitale, e di proteste per il grande ritardo con cui la scuola italiana si approcciava, ora la presenza di strumenti digitali nelle strutture scolastiche sembra aumentata. I vantaggi della didattica digitale sono abbastanza espliciti: un miglior coinvolgimento degli alunni, scambi di informazioni più immediate, diffusione di innumerevoli contenuti, possibilità di ricreare situazioni altrimenti impossibili da vivere. Inoltre i bambini di oggi sono nativi digitali, cresciuti con smartphone e tablet tra le mani, e si aspettano che la scuola rifletta il mondo tecnologico in cui vivono. Ma proprio ora che ci stiamo lanciando sempre più nel futuro, sorgono dei dubbi. Intanto su cosa debba fare la scuola: non basta saper usare un computer o navigare in internet, ma serve sviluppare una vera e propria alfabetizzazione digitale, comprendere come funzionano le tecnologie, come utilizzarle in modo sicuro ed etico, come sfruttarle per risolvere problemi e raggiungere obiettivi.

Paesi come la Svezia, gli Stati Uniti o il Canada, che avevano promosso molto la digitalizzazione, ora stanno tornando indietro, basandosi su studi, sempre più numerosi, che rivalutano i metodi «arcaici» della scrittura manuale e in particolare del corsivo. La scrittura manuale è frutto dell’interazione tra sistema nervoso, sensoriale e motorio: gli studi dimostrano come scrivere a mano coinvolga e stimoli aree cerebrali più vaste e profonde di quanto faccia la digitazione al computer. In particolare la scrittura a mano organizza le informazioni nel cervello in modo tale da sviluppare e potenziare la capacità di ricordare, stimolare il pensiero astratto e creativo, creare nuovi collegamenti di intuizione.

L’origine è nell’atto stesso dello scrivere, che con una penna è più «faticoso» che al computer: usare una penna implica di prestare attenzione anche all’aspetto motorio, disegnando le lettere in modo intellegibile, dosando la forza della punta sul foglio, seguendo le righe e gli spazi della pagina, facendo coincidere pensiero, azione e vista. Cioè attuando quell’integrazione multisensoriale che è alla base delle capacità di memoria. Inoltre, nella scrittura manuale, abbiamo una grande varietà di materiali e supporti: oltre la penna le matite, o il gesso sulla lavagna… tutte esperienze diverse e nuove, che creano nuove attivazioni neuronali e nuove abilità. Gli studi hanno rilevato che i bambini che scrivono a mano libera producono più parole e più rapidamente di quanto facciano coloro che scrivono su una tastiera. Addirittura si sono notate significative differenze tra chi utilizza il carattere corsivo rispetto allo stampatello: psicoterapeuti e neurologi segnalano che l’abitudine a forme semplificate di scrittura, come lo stampatello, riduce gli stimoli di produzione linguistica. Anche lo studio su dispositivi come il tablet, pur avendo un suo valore, in quanto multimediale e interattivo, può aumentare il livello di distrazione e di ansia, specialmente nei bambini, proprio per un eccesso di stimolazione. Solo rallentando gli stimoli le informazioni acquisite possono transitare dalla memoria a breve termine a quella a lungo termine.

Un paradosso, in un contesto in cui vanno sempre più aumentando i disturbi dell’apprendimento, è che l’utilizzo del computer è la soluzione consigliata per superare i problemi di disgrafia dei bambini. Ma proprio la digitalizzazione è «sul banco degli imputati» per quanto riguarda la crescente incapacità di imparare a scrivere: si prescrive come terapia quella che sembra essere una delle cause stesse del problema? La sfida quindi, consiste nel trovare un equilibrio tra l’approccio digitale e tradizionale, garantendo spazio a entrambe le modalità didattiche, in modo che contribuiscano all’educazione con un approccio integrato. La tecnologia è ineludibile dalle nostre vite e i giovani devono imparare a utilizzarle, ma nella fase dell’infanzia e adolescenza dobbiamo stare attenti a non trascurare la complessità dei fenomeni coinvolti nella costruzione della persona.

Paolo Sarti

Nausea da overdose di Sanremo…

Mi dice un amico: non vedrò il festival di Sanremo per nausea, come se l’avessi già visto, con tutte le anticipazioni e i programmi dedicati da mesi. In effetti arriviamo al fatidico Festival e non lo sopportiamo più dopo cento giorni di bombardamento televisivo quotidiano. Dovevano servire a promuovere l’evento e a generare l’attesa e invece hanno creato overdose, indigestione, intolleranza, rigetto verso Sanremo e la faccia, il becco, la voce di Amadeus. Poi magari i numeri ci saranno perché è ormai un riflesso condizionato e non vuoi sentirti escluso dalla festa ufficiale della nostra Repubblica; ma l’effetto nausea c’è tutto. Non c’era telegiornale della Rai che non avesse ogni giorno tra i titoli e poi in coda, un annuncio su Sanremo, un collegamento col solito Amadeus, che evoca Fiorello. E’ stato un vero e proprio stolkeraggio quotidiano, che ha superato ogni limite di sopportabilità e di decenza promozionale. Mille interviste su Sanremo e un solo concetto, una sola parola che tutti pronunciano nelle domande come nelle risposte: emozione. Ma che noia, ma che monotonia…A me Sanremo non fa né caldo né freddo, è un programma come altri che ha una sua storia e una sua ragion d’essere. Ma quando un evento d’intrattenimento, una gara canora diventa in assoluto l’evento più citato, più evocato, più annunciato della nostra vita pubblica, persino più della giornata della memoria, vuol dire che siamo in una fase patologica e in una distorsione della realtà e delle sue priorità. Affidare a Sanremo l’identità collettiva degli italiani, la festa nazionale più lunga, più larga, più sentita, nel senso di ascoltata, dell’anno, ha qualcosa di malato, di noioso, di banale, che ci squalifica agli occhi del mondo. E riduce uno dei popoli più creativi e vivaci del mondo, a figurare come uno dei più idioti e pappagalleschi…  Sanremo è diventata l’unica tradizione ancora vigente, difesa e promossa dalla “principale azienda culturale del Paese”, dalla radiotelevisione di Stato. Una somministrazione di massa con richiami all’inverosimile, un video-stupro del nostro senso critico. Sanremo è poi il coagulo di tutti i luoghi comuni, le tendenze, a partire dalle peggiori, i vizi e le storture del paese; i soliti messaggi politically correct, il solito woke, e tutte le menate ,sfuse e profuse lungo tutti i giorni, qui si concentrano e si danno appuntamento in riviera. Il nero, il migrante, il gay, la lesbica, la femminista e il femminicidio, il pacifista, tutto il presepe si ripete ogni anno, mutano solo i dosaggi e i testimonial, secondo il vento. Nessun governo osa interferire, può star lì Conte, Draghi o la Meloni, ma Amadeus e il suo minestrone (detto anche mainstream) non si discutono. Peraltro è un presentatore come tanti altri, non più bravo e nemmeno più autorevole di altri, come fu per anni Pippo Baudo. Ma sembra che non esistano altri in grado di condurre questa kermesse; la sua voce risuona di continuo sugli schermi e nei programmi tv… Perciò capisco l’obiezione di coscienza su Sanremo, la diserzione, il servizio civile alternativo, il cambio di programma, la fuga sui monti di Netflix o di altre reti, o meglio ancora la lettura di un bel libro, un bell’ascolto di altra musica, un film, un’opera teatrale o una conversazione tra amici e famigliari.  Sanremo è il nulla in abito da sera. Al di là delle solite polemiche “esantematiche” che come il morbillo e la varicella accompagnano e guarniscono da sempre Sanremo e servono a generare curiosità e finta animazione intorno all’evento, perché una fiera così trombona  ha una platea così larga e duratura? Vero è che la metà degli spettatori vede Sanremo per disprezzarlo, e dunque l’indice d’ascolto è ben altra cosa dall’indice di gradimento; ma un fenomeno pop, trash e pulp come il Festival non può essere ignorato. In Italia un fenomeno  dicesi popolare quando i suoi numeri sono pari ai voti della Dc di un tempo: ovvero quando sono oltre i dieci milioni. Anche la Dc era disprezzata ma poi la votavano.  Non è merito del modesto presentatore o delle stupide menate sul festival inclusivo e nemmeno dei pur bravi Fiorello, Incursori o Portatrici di Messaggio. Sanremo è una formula tautologica. Si vede Sanremo perché la domenica si fa la passeggiata al corso e in piazza, e non si può essere impreparati; se ne parla al telefono, rientra nei riti domestici, civici e tribali; vediamolo, sennò di che parliamo dal bar, a cena, al telefonino? E con il Sanremo parallelo che è sui social, c’è la possibilità di rendere interattivo e critico il festival: ciascuno fa il controcanto e il controsghignazzo in tempo reale. Ed è forse la cosa più spiritosa prodotta da Sanremo, contro Sanremo.  Ho però l’impressione che Sanremo non sia più l’autobiografia della nazione, come ai tempi del regno sa-Baudo, ma l’autopsia della nazione, questo cadavere sovrappeso che ci ostiniamo a chiamare Italia. Se proviamo l’arduo esercizio dello psicofestival, per capire le molle che spingono gli italiani a “guardare Sanremo” non basterà nemmeno dire che è la coazione a ripetere, lo specchio futile del futile presente, la civetteria del pettegolezzo collettivo, il voler far parte di un racconto collettivo, la mania d’inclusione nel dire c’ero anch’io… ma c’è qualcosa in più: Sanremo è il surrogato estremo di un’identità collettiva e di una tradizione perduta e smarrita. Non andiamo più a messa, non abbiamo più vive tradizioni domestiche, cittadine, patriottiche, religiose. E allora cerchiamo in Sanremo il fantoccio rassicurante delle cose durevoli. Un placebo, una canna del gas, un gioco illusionista. E un fuoco fatuo, molto fatuo…

Marcello Veneziani   

Va pensiero sull’ali dorate…finchè puoi farlo…

Mi sono molto stupita per la poca attenzione dedicata ,dal mondo mediatico di sinistra ,allo stupro di gruppo di ragazzi egiziani ai danni di una ragazzina tredicenne a Palermo. La notizia di questa ennesima violenza, estesa pure al fidanzato della ragazza, nel disperato tentativo di proteggerla, ha occupato poco spazio in quella stampa, come tacciono le femministe, sempre pronte a scagliarsi contro la minima offesa ad una donna. Non sapendo come descrivere al meglio, in par condicio , la mia disapprovazione, mi sono fatta aiutare dalla IA, alla quale ho chiesto un commento sul fatto- Se è vero che il futuro ci prospetta una stampa elaborata da questa IA, destinata a sostituire i giornalisti, non mi resta che chiedermi a quale genere di informazione saremo sottoposti, ma sono anche convinta che chi vivrà quel mondo, che non immagino nemmeno tanto lontano, penserà con la IA-

ia

 

Ecco il testo elaborato da CHAT GPT 4

La questione dell’approccio mediatico alle violenze sessuali è complessa e suscita spesso dibattiti accesi. Cercherò di esaminare alcuni aspetti che potrebbero contribuire a spiegare le differenze di copertura tra casi di stupro perpetrati da stranieri e quelli commessi da cittadini italiani.

Selezione delle notizie: I media, indipendentemente dall’orientamento politico, spesso selezionano le notizie in base a criteri di rilevanza, impatto e interesse del pubblico. Non tutti i casi di stupro ricevono la stessa attenzione. La gravità del crimine, la presenza di elementi sensazionalistici o controversi, e l’interesse del pubblico influenzano la scelta di coprire o meno un evento.

Narrativa dominante: La stampa di sinistra potrebbe concentrarsi su temi specifici, come l’immigrazione, i diritti umani o la discriminazione. In alcuni casi, questo potrebbe portare a una maggiore enfasi sugli abusi commessi da stranieri. D’altra parte, la stampa di destra potrebbe sottolineare gli episodi di violenza perpetrati da cittadini italiani per sostenere una narrativa sulla sicurezza e l’identità nazionale.

Sensibilità culturale: La copertura mediatica può essere influenzata dalla sensibilità culturale e dalle preoccupazioni politiche. Alcuni media potrebbero evitare di alimentare stereotipi negativi sugli immigrati o di creare tensioni interetniche. Allo stesso tempo, altri potrebbero sfruttare tali eventi per promuovere una determinata agenda politica.

Bias di conferma: Le persone tendono a prestare maggiore attenzione alle notizie che confermano le loro convinzioni preesistenti. Questo può portare a una percezione distorta della copertura mediatica. Se qualcuno ha già l’opinione che gli stranieri siano più inclini alla violenza, potrebbe notare di più i casi di stupro commessi da stranieri.

Contesto sociale e politico: Il contesto sociale e politico in cui avvengono gli stupri può influenzare la copertura mediatica. Ad esempio, se c’è un dibattito acceso sull’immigrazione o sulla sicurezza, i media potrebbero focalizzarsi maggiormente su casi correlati.

Partito Conformista Italiano

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Quale partito governa l’Italia? Il Partito Conformista Italiano, in sigla PCI. È un partito che travalica chi governa. E’ il partito che realmente determina l’agenda del Paese, il dibattito quotidiano, le priorità da affrontare; e che orienta chiunque abbia ruoli di potere, gestione e influenza nel nostro Paese. Il Partito Conformista Italiano esprime il Presidente della Repubblica che rappresenta il Pensiero Conforme a cui attenersi. Non esprime direttamente il Presidente del Consiglio, ma anch’egli, tecnico, politico o antripolitico, di sinistra, di centro o di destra si conforma coi suoi ministri agli indirizzi del Partito Conformista. Il PCI esercita il suo ruolo di guida soprattutto sul piano dell’informazione, della formazione e dell’istruzione degli italiani, con una spiccata propensione pedagogica e una tendenza ad ammaestrare i cittadini o a punirli e deplorarli se non si allineano. Trova terreno fertile in un Paese che da sempre va in soccorso del vincitore, si allinea, colpisce in branco chi esce dal coro.  Un tempo il Partito Conformista era d’estrazione clericale e moderata, perché presupponeva l’adesione a rituali e liturgie, a tradizioni e a retaggi di consuetudini e luoghi comuni da conservare; oggi, e non da oggi, è d’estrazione progressista e radicale, anche se resta a suo modo clericale, ma separato da ogni fede religiosa. L’egemonia del Partito Conformista, lo aveva intuito negli anni cinquanta un pensatore libero e non certo di destra come Albert Camus, è nelle mani della sinistra. In uno scritto del 1957, Il socialismo delle potenze, apparso in Italia su Tempo presente, Camus scrive: “Il conformismo oggi è a sinistra, bisogna avere il coraggio di dirlo. E’ vero che la destra non brilla per perspicacia. Ma la sinistra è in piena decadenza, prigioniera delle parole, invischiata nel suo vocabolario, capace solo di risposte stereotipate, mai all’altezza della verità, dalla quale pure pretendono di trarre le proprie leggi. La sinistra è schizofrenica e deve curarsi, con la critica spietata, l’esercizio del cuore, il ragionamento deciso, e con un po’ di modestia”. Con Camus si scopre l’affiliazione del PC italiano al Partito Conformista Internazionale. Camus coglie i primi segnali del gergo politicamente corretto, l’irrigidimento della mente e del cuore, l’atrofia delle facoltà intellettuali e critiche e soprattutto la mancanza di modestia, ovvero “la boria antipatriottica e il complesso di superiorità verso il popolo” come li chiamava da noi negli stessi anni Giacomo Noventa: tipica di quella sinistra presuntuosa che si arroga il diritto di stabilire i confini tra il giusto e l’ingiusto, il progressivo e il regressivo, il bene e il male e di decidere i buoni e i cattivi. Camus notava poi nello stesso scritto che la verità non dipende dalla collocazione di chi sostiene una tesi, come ritiene il PCI, ma dall’autenticità nella ricerca del vero: “un giornale, un libro non sono veritieri perché rivoluzionari. Hanno una possibilità di essere rivoluzionari solo se cercano di dire la verità” (In lotta contro il destino, carteggio con Nicola Chiaromonte-Neri Pozza). Da noi la verità è collocata ai piedi del Partito Conformista, allocata a sinistra e paraggi conformi. E tutto ciò che vi si discosta è considerato erroneo, arretrato, oscurantista. Se non criminale. Il Partito Conformista Italiano esercita il suo potere all’ingrosso e al dettaglio. Il regime conformista si fa vistoso nell’informazione, nella cultura, nella rappresentazione, celebrazione e titolazione degli eventi. I festival ne sono le feste patronali, basta scorrere i nomi, le compagnie di giro (c’è magari l’eccezione al puro scopo di confermare la regola ferrea). I premi letterati fanno da contorno, sono un po’ le primarie del PCI.  I premi importanti sono presidiati da editori, politici, intellettuali rigorosamente di parrocchia…che premiano esponenti e propagandisti del Partito Conformista Italiano. Sono divertenti le varianti periferiche e secondarie. Ve ne cito una pittoresca, a mo’ d’esempio, un piccolo espediente furbo del conformismo provinciale: premi letterari davvero minori vanno assegnati a firme dei principali quotidiani per ricevere in cambio la notizia del premio in bella evidenza. E’ la notizia a dare prestigio al premio, un circolo vizioso. La qualità del premiato? Chi se ne frega. Lo stesso criterio è esteso ai festival e alle rassegne: entrare nel circuito mafioso di invitare uno di cosa nostra per trovarsi citati… Gli affiliati si riconoscono tra loro come i cani, si odorano il posteriore, luogo elettivo dove esercitano la loro disponibilità, occupano le poltrone ed esprimono la loro attitudine: il cosiddetto paraculismo…Effetto diretto della dominazione del Partito Conformista Italiano è l’incapacità di selezionare una classe dirigente e l’assenza di meritocrazia nella vita pubblica, nella scuola, nei concorsi, ovunque. Insomma il PCI esprime il totalitarismo mammone e mellifluo che deborda nel nostro Paese. L’esempio primo e pessimo lo dà proprio la cultura, con annessi l’arte e lo spettacolo, che pure dovrebbero essere il riferimento in senso contrario. Tra maneggioni e conventicole, cosche spontanee e famiglie organizzate, grazie al PCI prevalgono le mafie del passaparola o del passasilenzio, del riconoscimento e dell’esclusione. Può sopravvivere uno scrittore o un artista, senza premi né riconoscimenti d’altro tipo, senza recensioni e senza accademia? La cattedra è il suo pane, l’attenzione della critica è il suo companatico, il riconoscimento è la sua acqua. Cosa resta di lui in mancanza di tutto questo? Resta solo quel che vale davvero.

da Panorama Marcello Veneziani

Novecento, il pianista sull’oceano..

 

Tutta quella città… non se ne vedeva la fine… La fine, per cortesia, si potrebbe vedere la fine? E il rumore, su quella maledettissima scaletta… era molto bello, tutto… e io ero grande con quel cappotto, facevo il mio figurone, e non avevo dubbi, era garantito che sarei sceso, non c’era problema. Col mio cappello Blu. Primo gradino, secondo gradino, terzo gradino; Primo gradino, secondo. Non è quel che vidi che mi fermò, ma quel che non vidi. Puoi capirlo, fratello? Quel che non vidi… lo cercai ma non c’era, in tutta quella sterminata città c’era tutto tranne..

C’era tutto  … Ma non c’era una fine. Quel che non vidi è dove finiva tutto quello. La fine del mondo.

Ora tu pensa: un pianoforte. I tasti iniziano. I tasti finiscono. Tu sai che sono 88, su questo nessuno può fregarti. Non sono infiniti, loro. Tu, sei infinito, e dentro quei tasti, infinita è la musica che puoi fare. Loro sono 88. Tu sei infinito. Questo a me piace. Questo lo si può vivere. Ma se tu…

Ma se salgo su quella scaletta, e davanti a me ..

Ma se io salgo su quella scaletta e davanti a me si srotola una tastiera di milioni di tasti, milioni e miliardi. Allora su quella tastiera non c’è musica che puoi suonare. Ti sei seduto su un seggiolino sbagliato: quello è il pianoforte su cui suona Dio.

Cristo, ma le vedevi le strade? Anche solo le strade. ce n’erano a migliaia, come fate laggiù voi a sceglierne una. A scegliere una donna, una casa, una terra che sia la vostra, un paesaggio da guardare, un modo di morire. Non avete mai paura, voi, di finire in mille pezzi solo a pensarla, quell’enormità, solo a pensarla? A viverla… Io ho imparato così. La Terra, quella è una nave troppo grande per me. Un viaggio troppo lungo. Una donna troppo bella. Un profumo troppo forte. Una musica che non so suonare. Perdonatemi, ma io non scenderò.

Alessandro Baricco – Novecento

novecento

Tornare là dove stiamo bene, che , quasi tutti chiamano casa…

 

Non si torna mai per caso, perché per tornare devi conoscere la strada. Chi se ne va, spesso, non sa dove vuole arrivare, mentre chi torna lo sa, sa dove sta andando e perché. Si torna solo dove si sta bene, si torna da ciò che manca, si torna da chi non si riesce a dimenticare. Si torna se non si è potuti rimanere ,ma  anche se  non si può rinunciare  a ritrovarsi: come le onde, che troppo lontane dalla riva non ci sanno stare. E’ facile dire “chi ama resta”. Ma io dubito che sia sempre così, perché restare è un fermo immagine, è immobilità. Mentre la vita vera scorre, è quell’onda che scorre: a volte si deve andare. E allora a me piace chi torna. Perché tornare non solo è consapevolezza, è anche movimento: ha più vita dentro. E in fondo che importa. Che importa dove vai, se comunque poi torni qui? Che importa quanto aspetto se, ogni volta che torni, mi fai dimenticare che eri andato via? Io non voglio costringere nessuno a restare. Non voglio essere una  rete, non voglio trattenere… Preferisco essere riva, il luogo dove vale sempre la pena tornare. Perché non si può imbottigliare il mare, lo si può solo amare..

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