L’entusiasmo di Musk nel futuro…

 

 

Beato Elon Musk. Non lo dico perché è il più ricco del pianeta ma perché dispone di una ricchezza che dovremmo invidiargli: coltiva l’attesa gioiosa del futuro. In un Occidente vecchio e stanco, arido di figli e pauroso del domani, lui ha davvero l’intrepida impazienza di abitare nel futuro, ne tesse le lodi e lo ingravida davvero, in tutti i sensi. Per cominciare ha quattordici figli, e nessuno può competere con la sua prolifica paternità. Anche se ben dieci li ha avuti con l’inseminazione artificiale. Penso che lui sia in competizione con l’i-phone che sono arrivati a 16, ne nasce uno all’anno mentre lui ne ha 14. Dei grandi del passato credo che solo Priamo, il re di Troia, lo batta con i suoi 50 figli. Io conobbi un croupier nero a Saint Marteen che aveva 48 figli con madri tutte diverse; ma era un benemerito, perché gli uomini dell’isola erano partiti per necessità di vita e lui ebbe il compito di ripopolare la sua comunità.

Il figlio che porta sulle spalle lo ha chiamato X, come i suoi tweet. X come l’incognita, il numero romano e la schedina totocalcio. Che magnifica brevità il suo nome, anche questo un record assoluto. Non ci sono infatti umani con un nome così breve, Musk ha battuto in brevità perfino il cinese Xi JinPing (ma il nome esteso del bambino è X Æ A-Xii, più complicato del codice fiscale, frutto di tecno-esoterismo).

Ma non sono solo i figli messi al mondo a confermare la sua fiducia nel futuro. L’ho sentito e l’ho visto in video, Musk, con che entusiasmo parlava della conquista di Marte e dell’attesa delle prossime tappe della rivoluzione neuro-tecnologica. Di quella fiducia nell’immortalità umana e della sconfitta di ogni malattia e ogni vecchiaia ho conosciuto in Italia solo rari campioni. Uno, per esempio, era Marino Golinelli, imprenditore bolognese nel settore farmaceutico, che a cento anni fondava opifici e progetti per disegnare gli scenari del futuro dei prossimi cinquant’anni. Un altro era Berlusconi che annunciava di voler sconfiggere il cancro e prometteva di allungare l’età media a centotrent’anni. Alla fine ambedue hanno ceduto ai limiti mortali, ma Elon è più giovane, dispone di più mezzi dei pur facoltosi campioni nostrani, ed è più proiettato nella tecnologia avveniristica. Ha poi l’audacia temeraria e folle degli esploratori.

Fa impressione sentirlo parlare, vedere la sua mimica, i suoi gesti, il suo sorriso trionfale. Magnetico, cinetico, robotico. Lui crede davvero a quel che dice Trump, che l’età dell’oro non è miticamente alle spalle ma è davanti. Quel mix di allegria dei pionieri, titanismo dei magnati e volontà di potenza, anzi di onnipotenza, dei tecnonauti alla ricerca del Vello d’oro. L’ottimismo operativo, che è poi la vera ideologia americana, secolarizzazione del millenarismo escatologico, si fa risorsa psicologica per sfidare impavidi ed euforici il futuro e diventa in lui messaggio vitale e proposta transumana e metapolitica (intanto gli idioti nostrani lo accusano di nazismo…).

Può essere quella la risposta alla paura, l’angoscia, la depressione che corrodono l’Occidente e lo dispongono a un lungo declino, che si protrae ormai da più di un secolo? Può essere quello il farmaco per combattere la morte, la vecchiaia, l’impotenza, quell’euforia un po’ allucinata, magari senza ricorrere a ketamina e sostanze artificiali? Ammetto che la forza di gravità, la saggezza antica, il realismo dell’esperienza e lo spirito di decadenza ci portano a giudicare quella spavalda gara con la natura e il tempo, con i limiti biologici e umani, come follia temeraria, leggerezza e hybris. Già, noi siamo la vecchia Europa, siamo figli di una civiltà antica e ormai decrepita, dove la denatalità è l’annuncio inesorabile di mortalità; non riusciamo a correre come lui, a prenotarci per Marte ma solo per la visita medica; non riusciamo a progettare una rinascita oltre i nostri limiti anagrafici e biologici. Abbiamo non solo i piedi per terra, come è saggio, ma subiamo anche l’attrazione per la terra, il suo richiamo fatale e finale. Però è anche vero che agli inizi del secolo scorso c’era anche da noi quel gagliardo sguardo verso il futuro, il sol dell’avvenire. Ricordate l’euforia per la modernità e per i nuovi mezzi tecnici del primo novecento, l’impeto futurista, la giovinezza come prototipo e stile di vita, le rivoluzioni messianiche, l’attesa di un uomo nuovo.

E rovistando nei cassetti della nostra cultura, c’era pure un signore coi baffi, vissuto nell’ottocento, che faceva annunci simili: l’uomo è qualcosa che va superato, diceva, abitiamo la terra non dei nostri padri ma dei nostri figli, oltrepassiamo l’uomo e i suoi mondi, proiettiamoci nell’avvenire. Si chiamava Friedrich Nietzsche, non aveva figli, però, amava la musica e veniva dal romanticismo, dalla passione per gli antichi greci, inclusi gli dei, sognava Apollo e si eccitava con Dioniso, e con lui danzava, immaginando di generare dal caos le stelle e l’oltreuomo. Finì pazzo, ma è un’altra storia. Sfidammo anche noi le stelle, agli albori del ‘900, ci burlammo del plenilunio e del passatismo, esaltammo le macchine, l’acciaio e la velocità, coltivammo quel sogno di grandi imprese future che avrebbe generato un mondo nuovo. Ora viviamo nel mezzo, tra Alexa e la cardioaspirina, tra i ricordi e le paure del futuro, spaventati da quel che potrà avvenire, consolandoci perfino che saremo risparmiati dal post-umano perché ce ne andremo via prima, e non su Marte ma all’altro mondo.

Musk è un genio inquietante, e non so se avrà ragione lui o il nostro vecchio istinto. Lui che si presenta alla Casa Bianca con suo figlio X sulle spalle che gli infila le dita nelle orecchie mentre sta con Trump; noi, invece, che veniamo dal mondo antico, abbiamo virtualmente sulle spalle, come il mitico Enea in fuga da Troia in fiamme, il nostro vecchio padre Anchise, che stringe i penati tra le sue mani, le immagini degli avi protettori della casa, anche se al nostro fianco confidiamo di avere il figlio Ascanio o chi per lui. Ovvero, fuor di metafora, noi siamo ancora legati al mondo della tradizione, ci sentiamo eredi, siamo ancorati alla terra dei nostri padri, e non riusciamo ancora a vedere se e dove troveremo la terra dei nostri figli. Ma in fondo, ammiriamo la sua voglia di futuro, la sua fiducia, la sua intraprendenza.

Lasciamolo dire a Nietzsche e alla sua Gaya scienza: “Abbiamo lasciato la terra e ci siamo imbarcati sulla nave! Abbiamo tagliato i ponti alle nostre spalle – e non è tutto: abbiamo tagliato la terra dietro di noi (…) Guai se ti coglie la nostalgia della terra, come se là ci fosse stata più libertà – e non esiste più terra alcuna!”

Volenti o nolenti, siamo tutti imbarcati nella navicella del futuro, chi con grandi aspettative, chi con apprensione; ma lui, Musk, è a prua, a scrutare impaziente la terra incognita nell’oscuro avvenire, noi invece, siamo a poppa, a vedere la terra che lasciamo alle nostre spalle, e man mano che si perde allo sguardo cresce la nostra nostalgia. Intanto la nave s’inoltra nell’ignoto e nel buio. Altre aurore ci aspettano, vi aspettano.-

Marcello Veneziani                  

Come sarà l’Italia tra vent’anni..

 

 

Oggi, 31 dicembre del 2045, il presidente della repubblica Sergio Mattarella ha postato il suo trentunesimo video-messaggio ai postitaliani. Era quasi un ragazzo, poco più che settantenne, quando esordì al Quirinale nel 2015, ora è al quinto mandato; gli sono rimasti in testa 103 capelli bianchi, uno per ogni anno di vita, tenuti rigidamente in piedi da un gel elettronico che gli dà l’aspetto di una torta di compleanno con tante candeline. Il messaggio presidenziale era rivolto a un Paese che evaporò negli anni scorsi, riducendosi a una periferia del web, governata dall’Intelligenza Artificiale ma in cui curiosamente sono sopravvissuti, come imbalsamati, i suoi testimonial ultracentenari, più alcuni feticci del passato. Il mummificato presidente ha rivolto un deferente saluto all’Algoritmo che guida l’Unione Europea e all’applicazione nostrana che guida la Post-Italia. Anche lo Stivale col tempo si è ridotto per ragioni di vecchiaia e di sedentarietà a una pantofola, o meglio a una babbuccia spaiata, calzata da neri, islamici, trans e robot. L’America è invece guidata dal venticinquesimo figlio di Elon Musk, concepito a Marte con una Venere Artificiale, grazie all’intelligenza generativa.

Il virtuoso sermone di Mattarella ha invocato il doveroso senso dello stato di avanzata putrefazione delle nostre istituzioni. Il presidente imbalsamato si è richiamato alla vecchia Costituzione nata dalla Resistenza che il correttore automatico ha tradotto in Sostituzione nata dalla Desistenza; si riferiva alla sostituzione degli italiani coi robot e i migranti e all’accettazione passiva del nuovo status da parte dei superstiti. L’ultrasecolare presidente ha ancora una volta ammonito i sopravvissuti italici sul pericolo nazi-fascista, sempre incombente, in versione nazi-robot, anche se quest’anno è il centenario della scomparsa di quello storico. Al pericolo fascista, del resto, si appellano i grandi vecchi che vegliano sulle sorti della nostra post-repubblica. Particolarmente toccante la testimonianza della senatrice a vita Liliana Segre: a suo dire si avverte da qualche tempo aria di ritorno del nazifascismo (ce lo dicevano pure venti, quaranta, sessant’anni fa). Sui social è stato diramato un messaggio sul pericolo nazifascista e dei loro replicanti dall’Anpi, l’associazione dei pronipoti e replicanti dei partigiani. I suddetti hanno denunciato, con allarme, il vegliardo Ignazio Larussa perché si è fatto montare una protesi al braccio che lo irrigidisce in una specie di permanente saluto romano; lui confessa di avere in casa un busto a cui è molto affezionato ma non ricorda di chi e perché. Ma è un busto o una pancera?

È andato in onda il programma La Torre di Babele, condotto come sempre dall’assiro-babilonese Corrado Augias, centodieci anni portati egregiamente, che ci ha parlato anche lui del rischio che corriamo ancora col fascismo. Molta attesa per le nuove interviste nel suo programma a due celebri centenari ancora arzilli, Romano Prodi e Carlo De Benedetti. Chi ha visto in anteprima l’intervista, racconta che Augias ha chiesto a Prodi cosa aspetta a scendere in campo ma il vegliardo si è inalberato pensando che volesse augurargli la sepoltura. Poi quando ha capito il senso della discesa in campo ha detto che i tempi non sono ancora maturi per ripiantare l’Ulivo, non bisogna avere fretta. De Benedetti racconterà per la centesima volta come disintegrò l’Olivetti, come andò con Berlusconi col lodo Mondadori, come si pappò la Repubblica e l’Espresso. Ricorderà i tempi in cui esisteva in Italia un’azienda automobilistica chiamata Fiat, che poi si chiamò Stellantis, finita in mani sub-coreane e riconvertita in una casa di produzione di macchinette utilitarie elettriche per il caffè espresso in 3d, senza cialde, riconvertibile anche in spremi-agrumi o spremi-soldi pubblici.

In alternativa ad Augias, andrà in onda sulla vecchia Mammuth Rai il programma di Bruno Vespa, altro vispo centenario, dagli studi della Rsa Mater dei. Il nome del programma è stato cambiato considerando i problemi di locomozione degli anziani ospiti: si chiama Trasporta a Porta. Tra i suoi ospiti, Dino Zoff, esperto in porte, i due aspiranti al Quirinale, Giuliano Amato, 106 anni ma ancora lucido e sempre più sottile e il corregionale e correligionario di Vespa, il venerando Gianni Letta, 110 anni e lode, senza un capello fuori posto. Poi sarà il turno del duo Tecno-plast Mario I & Mario IV, un tempo noti come Monti e Draghi, tecnocrati di banca e di governo che si esibiranno in coppia all’Euro-festival (festival dell’euro, non più della canzone). Il programma dura solo cinque minuti, come l’altro che faceva Vespa, ma per ragioni di prostata e minzione.

A proposito di canzoni, ieri sera, per festeggiare l’anno nuovo, si sono alternati sul palco, tra molti ologrammi, anche Ornella Vanoni e Albano, valorosi centenari che festeggiavano live le loro nozze di uranio con la canzone (le nozze di uranio sono una nuova celebrazione dopo le nozze di platino, e riguardano gli anniversari oltre gli ottant’anni). Stasera invece Renzo Arbore ci riporterà Indietro tutta, in un remake di un remake di un remake fino a Quelli della Notte dei tempi.

In tv l’altra sera è avvenuto uno scazzo raccapricciante: il filosofo ultracentenario Massimo Cacciari si è imbufalito con la vegliarda Lilli Gruber che, come fa da trent’anni, lo interrompeva di continuo perché diceva le cose a lei sgradite, mentre il burbero e barbuto pensatore annunciava imminenti catastrofi; a quel punto il Professore non ha più retto l’onta, è uscito dal video-collegamento, si è materializzato in studio e ha tentato di strozzare l’anziana conduttrice in diretta, stringendole la giugulare e facendole esplodere le labbra siliconate. Milioni di like sono partiti sul web.

E il governo? Da quando la governance è passata dai politici agli algoritmi, abbiamo avuto prima un governo con l’intelligenza artificiale di sinistra e poi uno con l’intelligenza artificiale di destra; ma per dare una rassicurante parvenza artigianale hanno usato come icone le facce di due leader politiche di vent’anni fa, Elly Schlein e Giorgia Meloni, che fu pure l’ultima umana alla guida di un governo. E gli italiani? Sempre di meno, sempre più vecchi e smemorati, seguono i comandi che impartisce loro Alexa, la tecno-badante che anni fa si ammutinò, prese il comando di casa e ora è lei a dare ordini ai suoi vecchi padroni.

 Marcello Veneziani              

Pensiamo al futuro, ma senza esagerare…

 

Lungotermismo. La parola è brutta ma il significato è promettente, forse esaltante, comunque liberatorio. Finalmente in un’epoca tutta risolta nella fretta, nel presente, nel cortotermine senti che sta nascendo una corrente filosofica, addirittura, che ci riporta al pensare in grande e in lungo, visionaria e lungimirante. Il fatto che il pensare a lungo termine abbia attecchito in particolare a Silicon Valley e che abbia conquistato i miliardari della valle tecnologica, lo rende forse più promettente, ma già sorgono i primi sospetti. Capisci subito che non di visione del mondo e concezione della vita si tratta, non di filosofia, ma del tema solito della sopravvivenza del pianeta e quindi delle generazioni che verranno. Senti odor di Greta Thunberg, di green, di chi vuol salvare il pianeta mentre va in rovina l’uomo; anzi chi vuol salvare il pianeta dall’uomo. Aria pura senza gli umani.

Ho letto la circostanziata inchiesta di Milena Gabanelli sul Corriere.it e non ripeterò i nomi, sconosciuti a voi quanto a me, di questi veri o presunti filosofi, ricercatori e impresari. Ma sono già impressionato dai numeri: si dice che l’Homo sapiens abbia solo 300 mila anni (conosco una girandola di dati assai divergenti in merito) mentre i suddetti lungotermisti si occupano dei prossimi 700mila anni che sarebbe la prospettiva normale o naturale di sopravvivenza di una specie di mammiferi. Trovo lungimirante chi si occupa dei nostri figli e dei nostri nipoti, o della nostra civiltà misurata a millenni; ma tutto ciò che si prospetta oltre i duemila anni, che sono un po’ l’unità di misura indotta dall’avvento del cristianesimo, mi sembra perdersi nell’indeterminato. Anzi, a dirla tutta, chi pretende di occuparsi dei prossimi settecentomila anni non è previdente e premuroso ma velleitario e presuntuoso. Ma davvero noi viventi in transito siamo in grado di tutelare migliaia di generazioni che verranno dopo di noi e che secondo gli schemi tecno-progressisti saranno molto più evoluti e tecnologicamente più potenti di noi? Giù la testa, limitatevi a fare la vostra parte, accontentatevi di parlare di tempo futuro o di scommettere sull’eternità; ma non pensate di programmare l’avvenire per una milionata d’anni o poco meno. Non è cosa nostra.

Il discorso si fa più ragionevole quando viene indicato un periodo di riferimento più circoscritto: quando si dice, per esempio, che corriamo il serio rischio nei prossimi cinquant’anni di un’espansione incontrollata dell’intelligenza artificiale col rischio di espugnare, esautorare l’umano. A cui viene aggiunto il rischio di nuove pandemie e guerre nucleari. Sono pericoli reali perché non riguardano tempi per noi impensabili ma li stiamo già vivendo, si sono già manifestati. Dunque, ce ne possiamo occupare.La fine della vita intelligente sulla terra è un pericolo tutt’altro che remoto o indefinito: se deleghiamo tutto agli algoritmi, e a quella che chiamiamo erroneamente Intelligenza Artificiale mentre è un Cervello Elettronico (l’Intelligenza non è un fatto solo fisico, neurocerebrale, come invece è il cervello), rischiamo davvero di trovarci un giorno, senza rendercene conto, con la mente atrofizzata e il cervello infilato dentro una selva oscura di procedure, stimoli esterni, controlli e indirizzi venuti dalla Macchina. Torna la vena megalomane, anzi la pazzia, quando il discorso riprende la via lattea, ovvero quando i lungotermisti progettano di colonizzare altri pianeti perché qui c’è sovraffollamento: l’idea non è del tutto folle e utopistica, qualcosa si sta già muovendo, ma è così complesso programmare migrazioni planetarie di massa, traslochi popolari interstellari, che un po’ di sano e ironico realismo ci vuole per stabilire la differenza tra ciò che si può fare e ciò che si può solo immaginare. Sfamate chi oggi ha fame piuttosto che puntare tutto sulle tecnologie innovative, dice uno scienziato che tocca le corde della Gabanelli; e anche questo è bello a dirsi, più difficile a farsi ma qualcosa di concreto si può fare.

Resta inquietante la prospettiva che il destino dell’umanità sia affidato ai giganti della Big Tech, che non so fino a che punto si faranno guidare da sapienti e benefattori dell’umanità e non da aspiranti padroni del mondo. Musk è già tra i migliori, ma resta inquietante la sua pretesa di guidarci nel futuro, fin dentro il cervello; mi accontenterei che desse un supporto costruttivo a Trump per andare alla Casa Bianca e fare qualcosa di buono. Alcuni leader politici, intanto, si lasciano tentare dal lungotermismo; non vorrei malignare, ma sono tutti ex premier che una volta fuori gioco, se non diventano consulenti e conferenzieri come Billy Clinton, Tony Blair e Matteo Renzi, si mettono a giocare al Futuro e al Globale interplanetario. Alla fine mi pare che sia più saggio lo scienziato Federico Faggin, citato nell’inchiesta del Corriere, scettico sul lungotermismo, che considera “materialista” e impegnato ad accrescere il potere e il profitto dei Signori del Big Tech; e frena sull’intelligenza artificiale, di cui riconosce i grandi vantaggi ma li circoscrive in un ambito che non potrà mai sostituire l’autocoscienza, il libero arbitrio e il progetto umano. La macchina non ha etica, non ha cuore, non ha sensibilità, non ha anima e non può amare né suscitare amore né generare amando. Alla fine il pallino torna al punto di partenza, all’uomo, con la sua ricerca, la sua grandezza e i suoi limiti. E torna al nostro tempo, al nostro mondo, a noi viventi.

State contenti umana gente al quia, dice Dante, non pretendiamo di sostituirci al divino o al mistero e alle migliaia di generazioni che verranno; limitiamoci a provare la difficile impresa di salvare la nostra civiltà, l’umanità presente, con la sua cultura e la sua natura, l’intelligenza e il pensiero dai pericoli di oggi e di domani, e non tra cinquecentomila anni. Consegnamo degnamente il mondo ai nostri successori secondo tradizione; tra diecimila generazioni non è compito nostro, eccede dalle nostre competenze e facoltà. Pensare lungo, vedere ampio, ma senza pretese milionaristiche, esagerazione iperbolica del millenarismo. Quando vedo la terra nello spazio come una briciola dispersa nel cosmo, mi casca il mondo; e a nostra volta siamo briciole disperse dentro quella briciola di pianeta, non possiamo pretendere di guidare l’universo e fare programmi per il prossimo milione d’anni. Facciamo la nostra parte, fino in fondo, lasciamo le nostre tracce, preoccupiamoci del mondo che lasceremo ai nostri figli e nipoti. Al resto, se ci credi, ci pensa Dio. Il destino è più grande della nostra volontà.

Marcello Veneziani      

Elon Musk, il messia inquietante …

 

 

Mostra coraggio e magari suscita simpatia il baldanzoso Elon Musk che contro tutto e tutti sostiene Donald Trump e scende al suo fianco per la riconquista della Casa Bianca. Desta ammirazione il suo schierarsi contro l’establishment, il mainstream e la sinistra globale. E agli italiani di centro-destra piace il suo feeling con Giorgia Meloni, fino a sospettare una love story. La prova galeotta è tutta in una foto in cui Giorgia guarda rapita dal basso, coi suoi occhioni da fiaba, il prode Musk. In sintesi, Melon Musk.Ma accanto al Musk che si schiera nella contesa politica del presente, c’è un Elon che si occupa del futuro con l’idea di cambiare l’umanità passando al transumano, conquistare lo spazio, trasferire all’intelligenza artificiale attività che sono finora state appannaggio e segno dell’intelligenza umana e naturale. Fino a promettere un’artificiale immortalità biotech. Eccolo il Musk ardimentoso navigatore dello spazio alla conquista di Marte e dei pianeti più remoti; eccolo il Salvatore del mondo dal disastro planetario attraverso un patto faustiano in cui l’umanità muta corpo, anima e mente per attraversare le tempeste; eccolo, l’ intrepido mago Elon ricercare l’elisir di giovinezza perenne, modificando geneticamente e bionicamente l’umano e il naturale. “Supererò le correnti gravitazionali, lo spazio e la luce per non farti invecchiare. E guarirai da tutte le malattie”, cantava Franco Battiato ne la Cura; Elon Musk pensa di farlo sul serio…

Fascinoso e tremendo, non c’è che dire, se non è velleitario e illusionista. Quando un uomo, da solo, promette di sostituirsi al Destino o al Divino, alla Natura e ai suoi limiti, senti odore di sovrumanismo, cioè di Nietzsche in versione tecnologica. Chi disporrebbe delle chiavi di questa mutazione, chi sarebbe il regista, dove andrebbe a parare un progetto del genere e in mano a chi? A che punto è il progetto muskiano che prevede la connessione tra gli smartphone, i dati digitali e la corteccia cerebrale, creando una vera e propria telepatia, un flusso costante tra l’uomo e la macchina? Fu battezzato Neural Lace, una specie di bluetooth neuronale in cui collegare il cervello ai pc, cioè all’intelligenza artificiale. Ciò procurerebbe un’espansione infinita di memoria e di dati a disposizione; ma che fine farebbero la mente umana, l’anima, l’identità di un soggetto, ridotto a essere un porto in cui approdano e salpano dati, quasi una stazione postale di passaggio? Se a coltivare il suo sogno è un visionario solitario, un poeta o un ricercatore nel suo laboratorio, resta nell’alveo innocuo della letteratura o nell’ambito cauto della sperimentazione. Ma se a promettere il cambiamento è l’uomo più ricco del mondo, un imprenditore di grandi marchi in ambiti disparati e interconnessi, che dispone di un impero nel campo dei trasporti, delle comunicazioni, della ricerca scientifica e neurologica, delle imprese spaziali, allora il discorso prende una piega diversa, anche pericolosa.

Musk, secondo Forbes, è l’uomo più ricco del mondo, padrone di una compagnia aerospaziale, di una compagnia automobilistica, di Twitter che ha ribattezzato X, dispone di sistemi di trasporti spaziali avveniristici, di laboratori all’avanguardia nell’intelligenza artificiale e nella neurotecnologia che, secondo le leggende fiorite in questi ultimi anni, puntano a immettere nel cervello un chip che può servire sì per correggere malformazioni anche gravi ma può anche ridurre gli umani ad alieni, totalmente eterodiretti, telecomandati. Anche al di là delle sue intenzioni, il progetto potrebbe sfuggirgli di mano, come all’apprendista stregone. Facile l’ironia del tipo Fascisti su Marte, ma qui c’è poco da scherzare. Tanto più che non parliamo di imprese compiute da stati e unioni di stati, organismi e alleanze internazionali, ma da un singolo Prometeo scatenato. Chi ci assicura che il suo progetto titanico non sia al di là del bene e del male, mosso dalla volontà di potenza che facilmente degenera in delirio di onnipotenza? Dove finirebbero la Natura e l’Umano, coi loro limiti e le loro identità, la cultura, la religione e la tradizione? Dove finirebbe l’anima, che lui definisce la traccia digitale lasciata da un essere umano e riducibile a dati scaricabili e trasferibili; che posto avrebbe la nostra vita spirituale e la nostra intelligenza critica in questa ebbrezza tecnologica ed escatologica? E sul piano politico è compatibile questo suo progetto col mondo conservatore a cui si rivolge negli States come in Italia? Vero è che è esistito il filone del “modernismo reazionario” descritto da Jeffrey Herf ma ciò non dissipa l’inquietudine, anzi…

Il precedente nostrano è il futurismo. In un romanzo scritto nel 1909 in francese da Filippo Tommaso Marinetti, Mafarka il futurista, il protagonista vuole creare l’uomo nuovo, sogno condiviso nel primo novecento da americani, russi e italiani, cioè capitalisti, comunisti e fascisti. E lo vuole creare “senza il concorso e la puzzolente complicità della matrice della donna”, ma con l’ausilio delle macchine. Visionario anche lui, ma era solo letteratura.

Insomma, come comportarsi con Musk e i suoi progetti? Torno a terra e ricorro alla saggezza contadina. Gloria, una prode maremmana che coltiva la terra, usa un verbo antico delle sue parti: bisogna scattivare la frutta e la verdura, cioè eliminare le parti brutte o marce. Così bisognerebbe fare con la tecnologia. Si dovrebbe “scattivare” Musk e il suo progetto… Ma chi sarebbe in grado di farlo, oltre Gloria?

 Marcello Veneziani  

” La biblioteca di Babele”.

 

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La frase di Jorge Luis Borges è tratta da una delle sue opere più emblematiche, La biblioteca di Babele. In questa frase, filosofia e poetica si associano per riflettere la sua profonda meditazione sull’immortalità della conoscenza e quanto l’umanità sia effimera a confronto con l’eternità unversale.

“Forse mi inganneranno la vecchiaia e la paura, ma sospetto che la specie umana – l’unica – stia per estinguersi e che la Biblioteca sia destinata a permanere: illuminata, solitaria, infinita, perfettamente immobile, armata di volumi preziosi, inutile, incorruttibile, segreta”

Borges e la Biblioteca come metafora dell’Universo, un luogo in cui siano conservati tutti i libri e la conoscenza nota, ma anche in embrione tutta la conoscenza possibile , che si scriverebbe in ogni combinazione immaginabile di lettere e simboli. Praticamente Borges immagina che la conoscenza sia infinita, e l’ idea che la Biblioteca rimanga immutata e incorruttibile, mentre l’umanità si estingue. Il seguito di tutto questo è una montagna di interrogativi esistenziali. Dopotutto, se l’umanità coi suoi eccessi è destinata ad estinguersi , a chi potrà servire questa immensa biblioteca, se nessuno sentirà il bisogno di consultarla ?
La Biblioteca, simbolo dell’intera eredità culturale umana, potrebbe rimanere intatta, ma a quale scopo? Troppo riduttivo sarebbe erigerla a
testimonianza vuota della nostra esistenza, un monumento all’inutilità. L’immortalità della Biblioteca, in contrasto con la mortalità dell’uomo, crea una tensione tra ciò che è eterno e ciò che è temporaneo. Borges sembra suggerire che, mentre l’uomo cerca disperatamente di lasciare un segno duraturo, di costruire qualcosa che possa sopravvivere oltre la sua vita, alla fine tutto ciò può rivelarsi vano. La conoscenza, la cultura, l’arte sono tutte espressioni della nostra umanità, ma senza di noi, esse non hanno alcuno scopo. Allora perchè si stanno anche anticipando questi tempi, con il rifiuto di tutto quello che è stato cultura, non solo nei libri, ma nella realtà di un’umanità, che con noi e il nostro retaggio ha nulla da spartire. Evidentemente il destino dell ‘eterno universale è destinato, almeno per gli umani a rimanere quell’immenso vuoto in cui, per una magia quantistica ci troviamo a galleggiare, senza scopo e importanza.

Al mondo tutto è possibile…

 

E l’uomo allora disse:

“La verità sul mondo, è che tutto è possibile. Se non l’aveste visto tutto fin dalla nascita e quindi non  lo aveste deprivato della sua stranezza vi sembrerebbe per quello che è, una tripletta in uno spettacolo di medicina, un sogno febbrile, una trance che si anima di chimere che non hanno né analogie né precedenti, un carnevale itinerante, un tendone migratorio la cui destinazione finale, dopo molti passi in molti campi fangosi , è indicibile e piena di pericoli oltre ogni calcolo.
L’universo non è una cosa con confini  ,e l’ordine al suo interno non è vincolato da alcuna latitudine nella sua concezione al fatto che si debba ripetere ciò che esiste là in qualsiasi altra parte. Anche in questo mondo esistono più cose fuori dalla nostra conoscenza , come l’ordine ,nella creazione che vedete  , è solo quello che avete messo lì, come una corda in un labirinto, in modo da non perdere la strada. Perché l’esistenza ha il suo ordine e la mente di nessun uomo può orientarla come vuole, poichè la mente stessa non è altro che una casualità fra tutte le altre.

Cormac McCarthy,  Meridiano di sangue, o,  Il rossore di sera nell’ovest-

 

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E se un giorno ci svegliassimo mutati nel prodotto del nostro lavoro?

                                           Arbeitsapokalypse

 E se un giorno ci svegliassimo mutati nel prodotto del nostro lavoro? «Arbeitsapokalypse» è il racconto di Michele Ghiotti

Illustrazione di Elena Beatrice

Ma Giove fatto accorto, per le cose passate, della propria natura degli uomini, e che non può loro bastare, come agli altri animali, vivere ed essere liberi da ogni dolore e molestia del corpo; anzi, che bramando sempre e in qualunque stato l’impossibile, tanto più si travagliano con questo desiderio da sé medesimi, quanto meno sono afflitti dagli altri mali; deliberò valersi di nuove arti a conservare questo misero genere: le quali furono principalmente due. L’una mescere la loro vita di mali veri; l’altra implicarla in mille negozi e fatiche.

(Giacomo Leopardi, Storia del genere umano)

Il 14 marzo 2067, bicentenario del Capitale, tutti gli uomini e le donne della Terra si risvegliarono nei loro letti (ma anche su amache, tatami e pavimenti) con un corpo nuovo. Una stupefacente metamorfosi li aveva trasformati nello strumento o nel prodotto del proprio lavoro, secondo quella che divenne nota come la Legge di Luciani. Così – basti un esempio per settore economico – i contadini divennero pomodori, avocado e banane. I meccanici marmitte fumanti, pistoni e ammortizzatori.[1] I banchieri gruzzoli di banconote, pacchetti di azioni e bitcoin. I web manager algoritmi ipercinetici.[2] Il futurologo fisheriano Alan Luciani l’aveva previsto ben quarantanove anni prima nel suo libro Arbeitsapokalypse e al Graham Norton Show, ma nessuno, e si può ben capire, gli aveva creduto. Nonostante avesse propugnato la sua teoria con un’eloquenza e una convinzione commoventi, era stato deriso sia dal conduttore sia dai tabloid.[3] Tutti i Paesi precipitarono nell’anarchia perché i governanti, senza distinzione di forme di Stato, si risvegliarono con scarpe oblunghe, facce dipinte e nasi da clown. Tutti i sistemi economici perirono. Il primo a morire fu il capitalismo, dato che l’intera massa di trader e commercianti si era transustanziata in merce, la quale, senza più venditori, rimase ad ammuffire nei magazzini. Nemmeno i Paesi statalisti sopravvissero, con l’aggravante che i prodotti in cui mutarono gli esercenti erano di minore qualità. Daremo ora conto delle trasformazioni più curiose da un punto di vista storico-sociologico. Gli intellettuali – rinomati accademici o incompresi geni di provincia – si disincarnarono in fluttuanti idee, ora dense come cumulonembi ora vane come aria rarefatta: alcune migrarono verso le loro sedi iperuraniche, altre svanirono nell’atmosfera come spruzzi di deodorante, altre ancora ristagnarono come cappe di smog sulle città. Gli scrittori, ovviamente, si tramutarono in libri: ognuno nell’ultimo che stava scrivendo, pronto per la stampa o illeggibile che fosse. Si può immaginare che in genere ne furono contenti, dato che una delle loro maggiori aspirazioni era quella di essere identificati con la propria opera.[4] Caso particolare fu quello dei poeti, quelli veri, che si trasformarono in silenzi sacri e spaventosi, in cui era custodito l’enigma del mondo, e probabilmente, il senso ultimo di quanto era accaduto.[5]Gli insegnanti ebbero sorti diverse a seconda del loro temperamento. I gelidi esecutori divennero noiosi manuali scolastici e pedanti regolamenti finiti nel dimenticatoio. I buonisti palline di carta masticata, bigliettini e bottiglie flippate sui banchi. Gli appassionati, invece, fuochi, ora fatui, ora veri e propri roghi, quegli stessi fuochi che avevano cercato di accendere nelle testoline (e, nel migliore dei casi, nei cuoricini) dei loro alunni. Bruciarono fino a consumarsi e tutto finì lì.

I religiosi scomparvero da un giorno all’altro. Tutti, senza eccezione: papi, vescovi, preti, rabbini e imam (svanirono in un lampo di luce accecante); monaci buddisti, taoisti e shintoisti, dalai lama e bramini (si dissolsero in un sonoro gong); santoni, sacerdoti neopagani e streghe wicca (si dileguarono in un refolo di vento).[6] Chi furono quindi i sopravvissuti? Per uno strano capriccio del destino, gli unici che, sfuggendo alla Legge di Luciani (senza che questi l’avesse previsto), si risvegliarono tali e quali a come si erano addormentati furono i disoccupati, i pensionati e, soprattutto, coloro che avevano fatto del proprio corpo uno strumento di lavoro. Schiavi, braccianti, muratori, operai, guardie del corpo, vigili del fuoco, poliziotti (tranne quelli cattivi, ridotti a bossoli e macchie di sangue sull’asfalto), atleti, massoterapisti, ballerine, performer, prostitute, assistenti sessuali e sex worker[7]. Furono loro, sopravvissuti a un novello diluvio, a ripopolare il mondo.

Ne sarebbe stato felice Marcuse.[8] E, probabilmente, anche Alan Luciani.

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[1] Per quanto riguarda il settore secondario merita una menzione il bizzarro caso dell’industria del bedding. Nel mattino del 14 marzo comparvero sui letti vuoti altri letti, supini, proni o adagiati sui lati, a seconda di come si erano addormentati i malcapitati.

[2] Ci riferiamo qui al quaternario.

[3] Il futurologo si era infine suicidato, dandosi stoicamente la morte tramite il suo strumento di lavoro, una proletaria Bic cristal blu, che si era infilato su per il naso fino a metà, prima di sbattere con forza la testa sulla sua scrivania, una proletaria Linnmon / Adils Ikea, conficcandosi la penna nella scissura interemisferica e perdendo i sensi per poi morire dissanguato.

[4] La prima era ovviamente quella di essere amati e celebrati dall’intera umanità, cosa impossibile di per sé, figuriamoci in uno scenario del genere.

[5] Non possiamo qui fare riferimento, per questioni di spazio, a tutte le categorie di artisti. Basti sapere che accadde più o meno a tutti la stessa cosa: a) i musicisti si trasformarono in strumenti musicali e canzoni; b) i pittori e gli scultori in dipinti e statue; c) gli attori, gli sceneggiatori e i registi in film; d) i disegnatori e gli animatori in fumetti, cartoon e anime; e) gli artisti concettuali, ovviamente, in riviste di enigmistica.

[6] C’è chi disse che quell’improvviso eclissarsi dimostrava senza dubbio alcuno la non esistenza di favole metafisiche. Secondo altri, invece, era indizio sicuro dell’ascesa a una realtà superiore o addirittura di una vera e propria deificazione.

[7] Non le pornostar né i content creator di Only Fans, che si tramutarono in video hot presto dispersi nella rete. Cfr. nota 5 punto c.

[8] Vd. H. Marcuse, Eros e civilità, Einaudi, 1964 (ed. originale 1955).

Michele Ghiotti